Fra le emozioni più grandi della mia vita di lavoro vi sono state le prime esperienze di visite al domicilio di persone che stavano internate nel manicomio in cui lavoravo, per prepararne le dimissioni. In Lombardia questo lavoro era stato promosso dalla legge regionale n. 37- 5 dicembre 1972 istituzione e regolamentazione dei Comitati Sanitari di Zona che consentì di sperimentare a livello locale, partendo dai Comuni e dai Consigli Comunali, dalle rappresentanze elettive democratiche locali, la promozione e il governo della salute in età perinatale, scolare, lavorativa, presenile, e delle patologie comportamentali e psichiatriche. Poco prima, nel 1968, era stata approvata la legge stralcio di riforma dell’assistenza psichiatrica pubblica, la legge 431 che fu decisiva nell’innovare metodi e finalità dei servizi, laddove fu attuata, perché:
- restituì diritti civili e politici con l’introduzione del ricovero volontario in ospedale psichiatrico;
- introdusse il “lavoro in squadra” di medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, sociologi, una novità che mise in discussione il primato prima indiscusso dell’approccio biomedico-neuropsichiatrico;
- istituì i Centri di Igiene Mentale che contribuirono a facilitare le dimissioni, andare, come si diceva “nel territorio”, consentendo una maggiore conoscenza della vita e delle storie delle persone, delle loro famiglie, dei loro contesti sociali, compresi i sindaci e in generale gli esponenti della vita delle comunità locali, i parroci, i vicini di casa, gli amici, anche i carabinieri;
- contribuì a ridurre lo stigma, arricchì il bagaglio collettivo delle competenze con l’inserimento già citato delle figure delle assistenti sociali e degli psicologi. Molti contesti manicomiali furono investiti dal lavoro di gruppi di operatori che modificarono stili e finalità dell’assistenza, restituendo dignità alle persone, “umanizzando” le condizioni della vita quotidiana, aprendo le porte dei reparti, abbattendo mura e recinti, organizzando apprendimenti utili nella vita quotidiana, accompagnando le persone nel rientro nel mondo civile, sostenendo il ristabilirsi di autonome relazioni interpersonali e sociali.
La scelta di iniziare a lavorare, come si diceva, “nel territorio”, non è mai stata una scelta solo o prevalentemente organizzativa, perché ha comportato una profonda modificazione del bagaglio professionale di ciascuno, l’ abbandono di criteri di giudizio, modalità di approccio e relazione, finalità di lavoro consolidati e propri del manicomio per impararne e adottarne altri centrati sulla ricerca del consenso, sul rispetto della dignità delle persone, sulla promozione dei diritti dei pazienti e delle loro famiglie, precondizioni per l’efficacia dei trattamenti.
Nel manicomio, così come negli ospedali, a parte i dati delle anamnesi patologiche e del decorso dei sintomi, si sa poco e niente delle condizioni materiali delle vite personali, dei desideri e dei fallimenti, delle relazioni di prossimità. Nel manicomio le famiglie dei pazienti erano guardate con diffidenza perché ritenute nella maggior parte dei casi “patologiche” anche in ragione delle teorie eugeniche. Per regolamento, le persone ricoverate non avevano spazi di vita “privati”, potevano essere perquisite, spogliate e legate a prescindere dal loro consenso. Invece per entrare in casa d’altri per incontrare persone, raccogliere racconti, discutere del che fare, bisogna bussare e che ti sia aperto. Solo allora puoi osservare gli ambienti, i contesti, gli arredi; farti un’idea della qualità dei consumi, dei rapporti di potere, delle dinamiche delle relazioni dentro la famiglia. Ancora di più se incontri gli amici, i Sindaci, il prete, le persone influenti di una comunità. Perché, come sottolinea Giorgio Cosmacini, “È il malato la realtà con cui confrontarsi, non la sua malattia”[1].
Tutto questo è stato fatto per lo più “sul campo”, imparando nell’esperienza e nello scambio di informazioni con i protagonisti di ciò che si stava facendo in altri manicomi. È potuto accadere così che gli stessi operatori che avevano condiviso la visione pessimistica dell’incurabilità del disturbo mentale, l’internamento e l’ospedalizzazione di lunga durata in un luogo separato e cinto di mura, andarono ad aprire Servizi di diagnosi e cura negli ospedali generali, Centri di salute mentale, ambulatori, centri diurni, accoglienza in residenze protette. Se non si coglie l’intensità delle modificazioni delle culture professionali della maggioranza degli operatori dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana, non si possono comprendere la fatica e il valore del lavoro compiuto in trent’anni dalla fine degli anni ’60 al compimento della chiusura dei manicomi alla fine del 1999.
Su tali esperienze ha poggiato l’impianto del Dipartimento di salute mentale (DSM) codificato dal p.o. nazionale Tutela della salute mentale 1994-96, a centralità e direzione territoriale (CSM/CPS) con un servizio ospedaliero di ridotte dimensioni (Spdc).
Da tale impostazione molti servizi di salute mentale sono andati nel tempo allontanandosi a favore della separazione fra SPDC e territorio; della trasformazione del Centro psicosociale in un ambulatorio periferico; di una imponente neo-residenzialità psichiatrica gestita per gran parte da soggetti privati convenzionati[2].
Sono diventate egemoni culture professionali che rifiutano gli approcci della medicina olistica, culture che non si riconoscono:
- in “una visione sistemica dell’assistenza sanitaria che considera il paziente come una persona all’interno di una comunità, di una famiglia, di un luogo di lavoro. Tiene conto dei fattori che riguardano gli aspetti somatici, emozionali, ambientali, sociali e quelli connessi agli stili di vita. Mette insieme i concetti di benessere psico-fisico e il benessere sociale e prende quindi in considerazione le capacità di una persona di interagire con la società: le abilità nel lavoro, nell’apprendimento, nel creare e mantenere le relazioni personali e sociali, come pure nel riuscire a essere libero da malattie evitabili, e riuscirci in un modo che sia accettabile per l’individuo”[3].
- nel riconoscere l’importanza della qualità della vita quotidiana delle persone, sapendo che le cose che realmente contano, sono distribuite in modo disuguale, molto più di quanto sia accettabile[4]. Di qui la necessità di potenziare la capacità delle persone di prendere decisioni che influenzino positivamente la loro salute e il loro benessere;
- nell’utilità di costruire comunità socialmente sostenibili e resilienti; del coinvolgere i governi a livello locale, nazionale e globale; dell’organizzare la speranza attraverso la formazione di professionisti che conoscano i “determinanti sociali della salute” e il lavoro di advocacy, per politiche che migliorino le condizioni di salute della popolazione.
Il punto di vista della medicina olistica privilegia l’attenzione sugli assetti delle cure primarie, di prossimità. Ne ha parlato fra gli altri Gavino Maciocco, per il quale,
“Il rinnovamento delle cure primarie, da molto tempo proposto e auspicato, procede in mezzo a mille difficoltà e con grande lentezza. Alla base c’è un deficit nella formazione medica […]che non va incontro ai bisogni dei pazienti e delle comunità, non promuove il lavoro di gruppo, si focalizza su problemi tecnici senza comprendere il contesto più ampio, si concentra sui singoli episodi e tralascia la continuità delle cure, predilige le cure ospedaliere a spese delle cure primarie[5].
Rispetto alle tendenze in atto bisogna cambiare la direzione delle scelte anche organizzative di politica sanitaria, in direzione di una Medicina di famiglia, di territorio, di comunità che:
- Eroghi un set completo di servizi valutativi, preventivi e clinici generali.
- Assicuri una continua responsabilità nei confronti del paziente, incluso il necessario coordinamento dell’assistenza per garantire la continuità delle cure.
- Fornisca un’assistenza appropriata ai bisogni fisici, psicologici e sociali del paziente nel contesto della famiglia e della comunità.
Tutto questo tenendo conto del fatto che l’ home care impatta oggi su una famiglia profondamente cambiata, che “è divenuta una sorta di “monade sociale”, “senza porte e senza finestre” […] aperte alla solidarietà domestica o di vicinato. […] Spesso nella stessa casa non esiste lo spazio per malati che non siano autosufficienti, né il tempo per malattie che non siano di breve durata[6]. Di qui la necessità di curanti nuovi e di équipes multiprofessionali. L’Italia è ricca delle culture sociali della carità religiosa, del mutuo soccorso e della solidarietà operaia: si tratta di riconoscerle per valorizzarle.
L’azione per affermare l’ home care si deve misurare anche col fatto che in tutto l’Occidente negli ultimi 20 anni sono andati affermandosi processi di accorpamento delle aziende sanitarie, modificandone in modo radicale la struttura, quella che è stato definita “mania di accorpamenti”. Per stare in Italia, “si è passati da un totale di 659 USL nel 1992 a 180 ASL nel 2005 e infine, nel 2017 ne sono previste 104. […] In totale le ASL si sono ridotte del 40% dal 2005 al 2017. Andamento simile per quanto concerne i Distretti, che si sono ridotti del 33% dal 2005 al 2017; erano 977 nel 1999, 835 nel 2005 e nel 2017 sono diventati 562” [7], come se alla ridefinizione in senso aggregativo delle aziende sanitarie debba necessariamente seguire anche una loro contrazione. Ora, se la medicina di prossimità è un valore, tale valore si esalta e concretizza solo se le strutture erogatrici realizzano un contatto reale con i cittadini[8]. E questo è diventato un grande problema.
Per stare in Lombardia, la Legge regionale 23/15 ha dismesso 15 ASL e 30 AO, creando due nuove tipologie di enti: 27 ASST – Aziende Socio Sanitarie Territoriali, con bacino di circa 400.000 abitanti; queste nuove aziende coincidono con le ex AO, cui si aggiungono le attività territoriali trasferite dalle ex ASL; 8 ATS – Agenzie di Tutela della Salute, competenti su un’area vasta di circa un milione di abitanti, che “attuano la programmazione definita dalla Regione, relativamente al territorio di propria competenza ed assicurano, con il concorso di tutti i soggetti erogatori, i LEA”.[…] Tuttavia, come annota Fulvio Lonati[9], a fronte dei principi enunciati circa la necessità di spostare l’attenzione dall’ospedale al territorio, la riforma non ha definito gli strumenti di governo dei distretti che, perdono la funzione di coordinamento della rete dei servizi e diventano molto grandi. La collaborazione con i Comuni e la valorizzazione delle comunità locali appaiono marginalizzate; a colui che dovrebbe essere l’attore territoriale di cerniera, il medico di famiglia, non viene attribuito un ruolo preciso. Su questi aspetti critici si pronuncia anche la bozza del documento del Movimento per la difesa e il miglioramento del Ssn (che ha promosso l’incontro di oggi) dedicato all’Assistenza primaria (marzo 2018) che segnala come nella definizione delle risposte utili ai bisogni della popolazione, nella programmazione degli investimenti relativi non siano stati affrontati i nodi del rapporto tra strutture sanitarie e strutture erogatrici di prestazioni sociali e sociosanitarie e quelli del rapporto con gli enti locali. Senza tacere che continua ad essere ignorato il tema della verifica dei risultati, tema che dovrebbe essere centrale in una riforma che si definisce sperimentale e che si propone esempio per regioni e addirittura per il paese.
A me pare che bisogna ridurre le dimensioni delle attuali maxi-aziende sanitarie, ospedaliere e non. Ma si tratta soprattutto di restituire ai Sindaci il ruolo di autorità sanitaria locale loro assegnato dell’art. 13 della legge 833/78, un ruolo che nelle attuali Aziende ha finito coll’essere progressivamente sempre più ridotto, a partire dall’aziendalizzazione delle USL (D.L. 502/92), col risultato che nessuno svolge la funzione di mettere insieme a livello locale la conoscenza di quanto amministrazioni e servizi pubblici, cittadini, volontariato fanno, situazione per situazione, quali ne siano i caratteri e le cause, nonché di monitorare l’esito degli interventi. Nel tempo, al posto dei sindaci, democraticamente eletti dalle popolazioni, ha messo radici una classe di funzionari manager che rispondono a chi li ha nominati (le giunte regionali) ma non al potere politico-amministrativo e alle comunità locali.
Per tali ragioni credo sia necessario, utile e urgente ripartire dalle culture professionali, politiche, costituzionali che hanno innervato il movimento riformatore italiano, costruire percorsi ispirati alla recovery, dare una svolta alla formazione dei professionisti, criticare l’esclusività del “modello medico” restituendo centralità alla dimensione comunitaria, “locale”, alla domiciliarità dei pazienti, coinvolgendo le associazioni professionali e scientifiche di psichiatri, infermieri, assistenti sociali, psicologi, educatori professionali, di tutti gli operatori della sanità pubblica,
Elio Borgonovi osservava di recente che , “Il tema del Ssn da tempo non è ai primi posti dell’agenda politica, mentre, invece, il tema della salute negli ultimi anni è entrato nel dibattito politico e nell'opinione pubblica solo marginalmente e prevalentemente in occasione di casi reali o presunti di mala sanità, o quando ha avuto un certo spazio tramite i media la cultura a-scientifica, o anti-scientifica, che caratterizza il nostro paese più di altri (es. casi stamina e il rifiuto delle vaccinazioni)[10].
Per rilanciare l’attenzione e il rispetto che merita il tema del diritto alla salute, vale la pena, credo, di smetterla di esaltarsi per le nostre “eccellenze” presunte o reali, e riprendere a esplorare la qualità della vita quotidiana dei cittadini, specie di quelli che fanno fatica a vivere, a studiare gli esiti delle “prese in carico” e dei trattamenti erogati, a riconoscere responsabilità e competenze in campo sanitario alle democrazie locali. Anche in Lombardia, dove le Giunte regionali di allora, quando Mutue, Ospedali, manicomi funzionavano a pieno regime, vollero e resero possibile l’esperienza dei Comitati sanitari di Zona.
Lo scorso anno è morto Tullio Seppilli, antropologo medico, fra i costruttori del Servizio sanitario nazionale, uno dei miei maestri.
Tullio parlava di sanità come bene comune, riferendosi ad un sistema pagato con la fiscalità generale, distribuito secondo criteri di universalità e segnalava come fosse rimasto irrisolto “il problema di come aprire un servizio sanitario pubblico come il nostro s.s.n. a nuove forme di discussione, partecipazione e gestione comunitaria dal basso dal momento che nel corso di questi 40 anni i meccanismi di iniziativa di controllo dal basso, previsti dalla legge 833, sono stati aboliti e sostituiti da un controllo dall’alto”[11].
Credo che sarebbe una buona cosa che l’ANCI ridesse vita e funzione all’ANCI-Sanità e riprendesse a discutere con le Regioni.
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