C’è chi sostiene che i disturbi psichici seri si possano curare “solo” coi farmaci. C’è dell’ambiguità in quel “solo”. Se con questa parola s’intende che l’uso dei farmaci è spesso necessario, ciò corrisponde alla realtà: certe forme di sofferenza psichica sono intollerabili, ed in alcune affezioni psichiatriche il paziente, non trattato farmacologicamente, è irraggiungibile dalla relazione terapeutica. Tuttavia, i farmaci, pur necessari, non sono mai sufficienti in una cura. Prendiamo il caso di uno schizofrenico che, alla vista di gocce di pioggia sopra i vetri della finestra, è preso da disperazione e panico. Il paziente ha, certo, bisogno di un contenimento farmacologico delle sue sensazioni sconvolgenti; ma ha anche e soprattutto bisogno d’essere capito. Leggiamo cosa dice Garcia Lorca di queste stesse gocce:
“Y son las gotas: ojos de infinito que miran
al infinito blanco que le sirviò de madre”
[E sono le gocce: occhi d’infinito che guardano / il bianco infinito che fece loro da madre].
Sia lo schizofrenico, sia il poeta attribuiscono alle gocce sui vetri lo stesso significato simbolico: sono le figlie, piccole e fragili, separatesi per sempre dalla “Grande Madre” che le generò; di qui, lo sconforto e l’angoscia di fronte alla realtà interiore che esse evocano. La differenza tra lo schizofrenico e l’artista risiede nella perdita, da parte del
primo, della distinzione tra simbolo e cosa simbolizzata (ciò che la Segal chiama “equazione simbolica”): è come se egli vivesse realmente, e non metaforicamente, la separazione definitiva dalla madre; ciò che li accomuna è la grande sensibilità per i fatti del mondo interno. Limitarsi ad ottundere farmacologicamente questa sensibilità, senza comprenderla e valorizzarla, equivale ad imprigionare il paziente in una camicia di forza chimica.
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