Percorso: Home 9 180X40 - Quarant anni della Legge Basaglia 9 L’amore che cura. La medicina, la vita e il sapere dell’ombra.

L’amore che cura. La medicina, la vita e il sapere dell’ombra.

25 Mag 18

A cura di Gilberto Dipetta

L’occhio della medicina cerca sottigliezze, sfumature, discernimento. Ma questa forma di sapere che ama la luce aiuta davvero a comprendere l’esperienza del malato? O è necessario, piuttosto, esser disposti ad incontrarsi nell’ombra per riuscire a capire cosa significa essere nella vulnerabilità, nella sofferenza e nella malattia?
G. Stanghellini
 

Ore 1.30 della notte. Cicalino. Accendo con gesto automatico la lampada di acciaio IKEA da comodino. Mi ero appoggiato da poco. Cerco il cordless finito sotto al libro che stavo leggendo fino a poco prima “L’amore che cura. La medicina, la vita e il sapere dell’ombra”, di Giovanni Stanghellini. Al telefono è la dottoressa internista del PS : “C’è una giovane donna, agitata, paralizzata ”. “Ok, inizia a fare tracciato eeg, prelievo ematico e poi mi chiami”. Provo a rispegnere la luce, contando ancora su di una mezzora di tempo per l’espletamento degli accertamenti di routine. Ormai abbiamo il sonno dei soldati in guerra. Dieci minuti, mezzora quando, dove e come capita. Tra un’operazione e l’altra. Stare di guardia, in un SPDC perimetropolitano del Sud, che serve con 15 posti letto (invece dei 100 previsti..) il bacino di un milione di abitanti, è così. Ma mezzora sarà il lusso di un’altra volta. Dopo pochi minuti, infatti, il cicalino si impone. E’ sempre lei, la mitica internista dalla voce lamentosa : “Senti, questa è impietrita, non si vuole far sfiorare, non vuole fare niente. Devi venire subito.” “Va bene, vengo.” Allerto gli infermieri. Il solerte Luigi mi accompagna. Ci incontriamo negli anditi in ombra di questo SPDC costruito ad anello. Poi usciamo. La notte è limpida. Ripulita dalle piogge di maggio. Per andare incontro all’ignoto, la stanchezza cede il passo all’ebbrezza. Sappiamo di essere gli ultimi. Per gli ultimi. L’ultima spiaggia dove il mare dei mondi arena l’incomprensibile, dove il giorno sputa nella notte il suo grumo indigeribile. Sappiamo di non poter chiamare nessun altro, dopo che gli altri chiamano noi. Mi domando, tra le lunghe ombre dei pini, cosa spinge una figlia ed una madre ad attraversare la notte e a portarsi nel PS del più grande ospedale di zona, collocato in una spianata di terra tra la costa e le colline vulcaniche. Accediamo in PS, con gli occhi feriti dalla luce abbagliante, tra lettighe sfatte e pazienti attaccati alle flebo. Cerchiamo la collega internista, indaffarata in codice rosso. Sbrigativamente, senza guardarmi, mi dice che “questa” occupa il secondo lettino della terza stanza, quella del codice verde. Superiamo persone che corrono (gli operatori) e persone attonite (pazienti o parenti). Apriamo le porte mobili ed elastiche del codice verde ed intravvediamo, dietro il separè, in fondo alla stanza, le gambe immobili di “questa”.
La vista, mano a mano che procediamo, risale lungo le gambe, poi sul pancino scoperto, e poi il seno, le spalle, e finalmente, il volto di “questa” : Lycia, 28 anni, bionda con gli occhi profondi, che giace immobile, fuseaux e top corto elasticizzato che lascia scoperta la pancia e le spalle, paralizzata dal piercing ombelicale in giù, la testa sollevata dal lettino, come poggiata su un guanciale psichico, espressione allarmata, gli arti tesi e rigidi lungo il corpo. Accanto a lei, infilata tra il separè e il lettino, una signora preoccupata, ma distaccata al tempo stesso. Sembra la madre, ma apprenderò, poi, essere la zia.  Lycia, nome romano, frequente da queste parti, come Lavinia e Lidia, vista l’antica storia dei Campi Ardenti.  La signora seduta accanto al suo corpo immobile racconta dei vari accessi in PS, e che da 5 giorni, terrorizzata, non mangia. Fa la barlady. La famiglia ha dei locali nella zona. Io e Gigi  sorridiamo, dentro di noi si smonta, annusata l’atmosfera, rapidamente l’allarme psicotico. Iniziamo dunque la nostra danza attorno alla statuina di sale. La madre: “Dottore, la ricoveriamo?”. “Ma come, signora, una ragazza così in mezzo ai matti? Abbiamo anche dei cannibali in reparto…”. Lycia mugola, come una gatta spaventata, senza articolare parola. Sale l’odore della sua angoscia. La madre mi guarda, sbigottita. Ma, in fondo, la mia comunicazione ha introdotto una nota ironica. Intanto mi avvicino al lettino senza mostrare di volerla toccare. Il tono della mia voce è calmo. Le mani aperte e accoglienti. Le chiedo solo se posso sentirle il polso. “Ma sarai mica indemoniata?” Le sue labbra, e anche quelle della madre, adesso si decontraggono in un sorriso. “Perché se sei indemoniata allora ti possiamo portare tra i cannibali…” Accetta di farsi sentire il polso con riluttanza, ma già è un primo passo. Le nostra facce sono tutte sorridenti, adesso. Così, lentamente, con le mani risalgo al suo polso. Le palpo con le dita l’arteria radiale. Il polso, come la manina, è sudato freddo. Le pulsazioni sono accelerate, ma regolari. Corpo per corpo. Il mio corpo e il suo corpo. Una mano, quella del medico, forte, calda, sicura, l’altra, la sua, esile, sudaticcia, tremante. “L’intimità è una relazione con l’Altro che si colloca al di là della prestazione e del potere.” (Stanghellini). Le chiedo, a questo punto, sempre con dolcezza, di lasciarsi praticare un ecg, poiché il suo cuore sta palpitando. Nulla di invasivo, le garantisco. Accetta. Arriva l’infermiera super-operativa del PS. Irrompe sulla scena con sicurezza. Troppa. Capelli raccolti indietro, energica, scattosa, maschia, non si sarà fermata un minuto da quando ha montato. Faccia rigida. L’approccia bruscamente. Lycia si ritrae di colpo, come una lumaca nel guscio. Eppure l’infermiera è una donna. Ricomincio allora, con calma la mia implorazione. Sistemiamo meglio il paravento. Intanto Luigi va a cercare qualche gocciolina di tranquillante. Con la mia presenza Lycia, lentamente, si calma. “La Medicina […] non vuol vedere quanto la persona del malato, nella sua riciesta di aiuto, cerchi non solo una guarigione dal male, quanto una confidenza con esso.” (Stanghellini). Anche l’infermiera seriale capisce che ci deve andare più morbida, come di fronte ad una bambina spaventata in un bosco dopo una notte all’addiaccio tra le ombre giganti.  Pertanto le scopre delicatamente il petto, posiziona gli elettrodi, e accende la macchina. Riusciamo finalmente ad avere il tracciato. Finalmente la Medicina “economica”, di cui si tratta nel libro che ho lasciato sul comodino, ha misurato un organo. Una vittoria. Nel frattempo Luigi lascia succhiare a Lycia, tra le labbra serrate, piano piano le goccioline dalla siringa. Il problema arriva ora, per il prelievo ematico. Lycia, solo a sentire pronunciare il termine “prelievo di sangue con una siringa attraverso l’ago in vena”, si tramuta da statua di sale a blocco di pietra. Il suo urlo strazia il pronto soccorso. Ma è un urlo catartico, che forse prelude ad uno sblocco. Ormai la sintonizzazione intorno a lei la fascia, come in una calda culla umana. Siamo vicini a lei, curvati su di lei, siamo noi il suo paravento umano. La sua piega sulla superficie dell’essere ha aggrinzato lo spazio umano intorno a lei, curvandolo. Il suo urlo squassa, ancora, il pronto soccorso prima ancora che l’ago infili la vena. E’ un urlo che sale da un magma lontano, incandescente. Direi, parafrasando Stanghellini, che è l’urlo dell’informe. “L’informe è l’ombra che circonda l’esiguo cono di luce in cui si attesta e si rifugia il sapere della Medicina.”L’infermiera, adesso, non è più stizzata, non si scompone più. Ha capito. E’ bravissima, precisa, delicata. Il suo occhio è alla vena sotterranea alla pelle. Ma il suo cuore è con Lycia. Batte il tempo, quel tempo che l’ecg della medicina economica non è in grado di misurare. Ormai è dei anche lei nostri, fa parte della microequipe. Sta assaporando il gusto sottile del vincere un assedio, di scavare la roccia con la goccia, il piacere di accedere ad un’anima prigioniera di un blocco di marmo. E’ il piacere che avevano Michelangelo, Benvenuto Cellini o Vincenzo Gemito : liberare le anime chiuse nel marmo o nel bronzo.  Sangue al primo colpo! Bravissima. Luigi tiene dolcemente e fermamente il braccio di Lycia, continuando a parlarle sdrammatizzando, quasi con voce sussurrata. Praticato il prelievo assicuriamo alla vena una glucosata da 500 con un altro tranquillante dentro. Cosa è, allora, il monstrum che ha spaventato Lycia, paralizzandola in “orizzontale”, ma con la testa alta? Evidentemente, penso, sulla scorta delle incisive pagine di Stanghellini, che Lycia lotta contro l’ “informe”. Come una fanciulla che nel bosco si trova di fronte ad una creatura ignota, come in un film dell’orrore, così una giovane donna, che  una volta avremmo chiamato, sbrigativamente,  “isterica”, si paralizza. Come si può incontrare l’ informe e sopravvivergli? Certo, una situazione, quella dell’isteria, che da Charchot in avanti, tra 800 e 900, ha consentito lo sviluppo della neurologia (la sua paralisi è funzionale perché non rispecchia i criteri dei metameri neuroanatomici) e della psicoanalisi (il sintomo sta per una pulsione rimossa, inibita o negata), e che, poi, dal secondo 900 in poi, è a poco a poco scomparsa dalla nosografia. Tra le pieghe della grande hysterie c’è il paradigma della dissociazione  di Janet, guarda caso lo stesso che sta dentro la schizofrenia di Bleuler. Dunque all’isteria, e alle povere pazienti “isteriche”, dobbiamo molto. Come la vita deve tutto all’utero (ysteron). La vita, di fronte al nudo orrore, in queste tragiche e delicate figure della femminilità,  si blocca o si scinde,  percezione di un pericolo non affrontabile che si trasforma in un arresto motorio. Ma mi torna molto, nella mente, questo discorso di Stanghellini sull’informe. Mi sembra di abbracciare, fiutando l’ informe, con il mio sguardo di clinico, un campo visivo molto più vasto di quello offertomi dalla feritoia concettuale del “ritorno del rimosso”. L’inconscio, in fondo, è ancora dentro la mente, ed è il negativo della coscienza. L’informe, invece, è fuori dalla mente, è nel mondo. E anche la mente di Lycia, la giovane donna che la collega appella come “questa”, è nel mondo. Stanghellini, in modo geniale, recupera dalla biblioteca classica della migliore psicopatologia tedesca il concetto di informe, chiamato anti-eidos dallo psichiatra che per primo lo ha formulato, in Germania, il barone Viktor von Gebsattel, lo psichiatra che curò Martin Heidegger. Ma Stanghellini dilata l’informe attraverso un vasto excursus nella cultura artistica, filosofica e letteraria moderna, dai surrealisti a Bataille. L’informe o  anti-eidos, ovvero qualcosa di totalmente opposto all’eidos. Se l’eidos, dunque, è la forma, l’ anti eidos o an-eidos è l’anti-forma, cioè l’informe. Il “santo merdoso”, lo chiama Stanghellini, l’irriducibile, l’incomprensibile, l’incommensurabile. Il “questa”, in tedesco il “Das” con cui la collega del PS appella Lydia: “questa” vale a dire questa “cosa”, “Das Ding”, questa cosa qui che io non ho parole per nominare. Questa cosa informe, che non posso ridurre a complessi QRS di un tracciato, o alla conta degli eritrociti, è “cosa” tua. Sembra dirmi con stizza la collega. Informe è nel senso proprio di non formattabile, di non trascrivibile in una forma, dunque fuori dal controllo della Medicina. Roba da psichiatria, che rimane lo scacco e lo scandalo della medicina moderna. Quando la collega mi porgerà il tracciato eeg e gli esami ematici di Lycia, mi dirà, vittoriosa: “Vedi, avevo capito bene, “questa” non ha nulla.” “Nulla che tu riesca ha misurare”, le rispondo. Perché la vita di Lycia è squassata da queste crisi subentranti come le fronde dei pini sono squassate dal libeccio. E per te, egregia collega, “questa” non ha nulla. Dunque io sono il medico che cura il nulla? Non ha nulla, Lycia, e dunque non è nulla? Ma allora i sintomi psichici e somatici? Quello che noi formalizziamo, in psicopatologia, sembra essere piuttosto la reazione della soggettività al contatto con l’informe. Ma anche in questo caso, dietro il separè del PS, guardando la scena dall’alto, mi pare che sia tutto un gruppo umano a reagire alla contrazione di una zona della rete, piuttosto che un dramma individuale. Il corpo statuario di Lycia è una grinza su una superfice fatta di contatti, e noi siamo affacciati e curvati sul vallo di quella grinza, anche noi raggrinziti intorno a lei, nel tentativo di spianare la superfice del reticolo. “Piegare è l’atto che fa della clinica una cura” (Stanghellini). Per arginare lo sfondamento della forma, da parte dell’informe, la forma si irrigidisce, nella paralisi “di conversione” perché si fa dura all’impatto con il magma. Come i corpi dei pompeiani sublimati dalla lava a 3000 gradi, rimasti fissati per l’eternità nell’ultimo anelito di vita. La loro “presenza è reale in quanto incandescente, […] cioè arde di vita e al tempo stesso brucia di morte.” (Stanghellini). L’ informe, in questa prospettiva, diventa un aspetto costituitvo del mondo della vita, come l’ombra con la luce. Ma non per questo misurabile con una check-list.   Classicamente l’ossessivo, secondo von Gebsattel, lotta con tutte le sue forze contro l’informe, e il disgusto, diceva Straus, è il sintomo di questa lotta. Il borderline, secondo Stanghellini, ci si lascia andare, al mare delle forme, in un’abbandono che incrementa esponenzialmente la sua tentazione di esistere, la sua disperata vitalità. Lycia, di fronte, all’informe si è paralizzata. Io non conosco l’informe. Io e il mio infermiere Luigi, però sappiamo, ogni volta che usciamo dal reparto per andare verso l’ignoto, che la follia, latu sensu, ha che fare con la presenza dell’informe nella vita umana, con la presentazione o con la conglutinazione dell’informe nella vita umana. Non lo ha capito, purtroppo, la Medicina economica. La collega internista del PS, vero emblema di quello che Stanghellini nel libro definisce l’homo oeconomicus, tenta il suo approccio misurativo diretto, quantitativo, strumentistico, oggettivando la paziente come corpo anatomico, corpo cadavere. Per lei è più facile, così, avere un cuore da misurare, globuli rossi da contare, ritenendo di non dover passare prima per il consenso di chi abita con quegli organi, dandolo per scontato, come se il paziente sapesse di essere una somma di organi, piuttosto che sentisse di essere un corpo al mondo. E si trova, la collega, di fronte al blocco, al grido, al rifiuto netto. Dunque la collega, frustrata e arrabbiata, non ha tempo per pensare a Lycia “che non ha nulla” e chiama ripetutamente lo psichiatra, il medico di “quelli che non hanno nulla”. La medicina economica contemporanea è impotente di fronte all’informe. Perché l’informe non è misurabile. Anche dopo avere effettuato gli esami di laboratorio e strumentali, l’informe non è stato catturato.
Come in quei film, in cui si fotografa il mostro, e le foto sviluppano il vuoto.  Anche l’infermiera seriale, fedele ai dettami della medicina economica, irrompe brusca sulla scena, poi, però, capisce, si modula, entra nella simulazione incarnata della microequipe che sta interagendo. Si modula sul tono della nostra voce, sul rispetto che io e Gigi abbiamo più che per l’ informe, per Lycia, che davanti a noi sta inscenando, proprio per farci capire, l’ irruzione dell’ informe nel suo mondo. Ne’ noi, né gli homines oeconomici del PS, conosciamo l’informe. Perché, allora, noi riusciamo ad avere un contatto con Lycia e loro no? Forse perché siamo più consapevoli dei nostri limiti. Questo ci fa più potenti. Come di chi si affaccia al balcone del nulla, rispetto a chi sta dentro a giocare al computer. Adesso Lycia è più serena. Le chiedo prima di andare via, di sollevare gli arti inferiori nella posizione di Mingazzini. Questo è un momento sempre magico, in cui lo psichiatra si gioca la sua faccia. E’ il classico “vedo” nel gioco del poker. E’ lo smascheramento dei bari. E’ il momento della verità. E allora, come uno scongelamento, pare quasi di sentire scricchiolare il ghiaccio, lentamente Lydia solleva gli arti inferiori. La pietra, finalmente, è viva, il korper è tornato leib. Il corpo vivo che sono risorge dal rigor mortis del cadavere. Il calco di gesso si rianima. L’informe, almeno per stanotte, si ritrae nella sua grotta di ombra. Si ripete, stanotte, il grande numero che, da Charchot a noi, tanti psichiatri hanno fatto, nelle loro piscine dei miracoli: la resurrezione di Lazzaro. La mamma-zia sorride. In fondo non abbiamo avuto alcun colloquio individuale con Lycia, né siamo andati sullo specifico della sua conflittualità. Nessuna privatezza. Nessun affondo nella sua intimità. Nessun preteso svelamento della sua irriducibile e incomprensibile alterità. Solo sguardi, battute, un polso, una vena del braccio, lo sforzo di una sintonia. Il delicato tentativo di un’intimità, per portare il suo sguardo, insieme al nostro, all’altezza del informe che l’ha impietrita. Perché la sua crisi nasce nel rapporto con il mondo, tra 118 e PS il suo dramma inscena i suoi atti nel mondo, e dunque la sua crisi, la crisi di Lycia, è del mondo, e nel mondo deve trovare la sua conclusione. Ci siamo limitati, io e il mio infermiere, operatori del nulla, praticanti dell’informe, ad entrare in punta di piedi nel giro dei rimandi, fluido, dinamico, evitando anche noi di incagliarci nella ubris della misurabilità. E così si sono fatte le due e mezzo. E’ un altro giorno.  Chiedo alla zia di Lycia di portarmela in reparto per un colloquio di qui a due giorni che sono di turno, visto che il CSM le ha dato appuntamento a fine mese. Prendiamo congedo da Lycia con una carezza. Nell’ombra, certo, noi l’abbiamo incontrata, e nell’ombra ci stiamo congedando da lei. E torniamo, io e Luigi, figure bianche nella notte, nel nostro refugium peccatorum. Laddove la scienza medica “economica”, sub specie del suo scandalo psichiatrico, confina tutti quei testimoni umani che hanno visto, che hanno sentito, che hanno incontrato l’ informe, e che dall’informe sono stati fissati come calchi di istanti consegnati all’eternità.

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6 Commenti

  1. delu_stefano

    Un’altra pagina di Di Petta,
    Un’altra pagina di Di Petta, ad arricchire il suo Romanzo sugli ultimi: su quelli che cercano aiuto e spesso non lo trovano, che cercano di riempire il nulla che li abita, che vorrebbero scacciare i demoni che tentano di occupare il vuoto esistenziale, che vorrebbero trovare forma e senso in una vita che sembra averla persa, se mai ne abbia mai avuta, una accettabile.

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    • gilbertodipetta

      Caro Stefano, noi sappiamo
      Caro Stefano, noi sappiamo che in questo rimanere indietro, o rimanere esclusi, ci sono, trattenuti, degli elementi essenziali senza i quali non si arriva lontano. A noi il compito di valorizzarli. Ti ringrazio di cuore per il tuo puntuale rimando.

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  2. nadiadelse

    Grazie come sempre Gilberto,
    Grazie come sempre Gilberto, per aprirci questa volta ad una riflessione sul “nulla”. Un altro modo per descrivere il disprezzo o la paura di tanti colleghi (caso peggiore) e di tante persone (anche istruite) nei confronti delle manifestazioni psichiche (e somatiche) di un disagio. Il “nulla” è molto diffuso ai nostri giorni. Tanto da diventare poco alla volta un’emergenza sanitaria e sociale. Il “nulla” contiene tante diagnosi ma una sola cura: la presenza . Perché la presenza , l’attenzione , l’ascolto, fanno diventare il “nulla” un “qualcosa”. Danno forma all’informe, corpo al vuoto e voce al silenzio. Bisogna solo avere la pazienza e il coraggio di sostarvi accanto il tempo sufficiente (e questo significa essere “operatori del nulla”, specialisti della salute mentale).
    E poi si scopre che in quel “qualcosa” si cela il mistero dell’essere umano .

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    • gilbertodipetta

      Grazie Nadia, temo che la
      Grazie Nadia, temo che la funzione di noi psichiatri e psicologi, al di là del mandato terapeutico, in questo mondo ipermoderno, liquido, gassoso e permeato dal nichilismo, sia ormai anche quella di ancorare gli esseri umani a quel quid humanum che la malattia dischiude, come la perla all’apertura dell’ostrica. Per fare questo abbiamo bisogno di molta pazienza, molto amore, molta cultura. Siamo rimasti noi gli interlocutori dell’esperienza vissuta, quelli che per mandato etico non possono approfittare, come i pubblicitari, delle debolezze umane e dei desiderata per costruire profitti economici. Da questa prospettiva il nostro lavoro è ancora più affascinante, e riveste suo malgrado una funzione essenziale per la salvaguardia dell’umanità.

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  3. erculianiv

    Nel leggere questa
    Nel leggere questa trasposizione di vita, vita di soglia e vita sulla soglia, ho sentito commozione e gratitudine per chi si sporge, da quel “balcone sul nulla”.
    Ieri qualcuno mi ha raccontato di come abbia “aggiustato” il suo orologio, che restava indietro, mettendolo sul comodino vicino ad uno che manteneva il ritmo “giusto”. Questa persona mi ha detto che, incredibile, il metodo dopo un giorno ha funzionato. Sarà vero? Se per lei è stato vero, evidentemente da qualche parte è vero.
    Ci vuole coraggio, a fare battere il cuore insieme a quello di chi è sotto cattura. La notte, la veglia, la carezza, lasciarsi curvare e poi tornare a dirlo, a noi, che cosa sia la cura.
    Grazie.

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    • gilbertodipetta

      Gentile Valentina, la
      Gentile Valentina, la ringrazio per il suo commento. Gli esseri umani sono andati avanti per molti secoli uccidendosi e amandosi, morendo in solitudine e riuscendo, in qualche modo, stando l’uno accanto all’altro, a ripristinare il ritmo della vita. Oggi continuiamo ad ucciderci e ad amarci. Forse, da quando la cura è diventata una tecnica, deleghiamo a qualcuno, frutto di una cultura, ma non più organico con una cultura, la dimensione della cura. Credo che ci siano fiumi carsici che vadano fatti affiorare. Forse l’acuzie, affrontata in condizioni precarie, mobilita energie e riserva che nell’asepsi di un setting privato è più difficile attingere. Grazie ancora…

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