Razzismo e populismo sono i due ingredienti principali del nuovo governo che unisce elettorati eterogenei e poco definiti sul piano del progetto. Se legassero bene tra di loro il risultato sarebbe catastrofico. Potrebbero legare perché, pur nella loro differenza (essendo il primo l’estroversione di un processo distruttivo della nostra relazione con il mondo e il secondo un rimedio peggiore del male alla precarietà delle relazioni di scambio), hanno la stessa origine: la rappresentazione banale della vita.
La banalità è l’opposto della complessità. Si produce, come endorfina psichica, tutte le volte che l’approccio complesso alla realtà diventa complicazione. L’amore per la complessità -il suo investimento erotico, affettivo e intellettivo- implica il piacere dell’inconsueto e dell’imprevisto, la capacità di sostare in modo sperimentale nella propria esperienza e il “gusto” del vivere (l’“assaporare” come modo di sentire e di pensare). La precarietà delle relazioni sociali, quando gli scambi diventano sregolati, soggetti all’arbitrio, rende la permanenza nelle aree complesse dell’esistenza complicata.
La complessità è vissuta come fluire profondo e intenso dell’esperienza che sa di leggerezza e di chiarezza. La complicazione è percepita come pesantezza, rompicapo che ostruisce le sensazioni e i sentimenti, viscosità dell’essere. La banalità crea un falso alleggerimento: riduce il rapporto con la realtà a una sua lettura operativa che concentrando la tensione, sotto forma di eccitazione, in alcuni schemi di azione, ne favorisce la scarica. Più che un agire vero e proprio, l’interpretazione banale della vita produce un pensiero-azione, opposto a ogni trasformazione e finalizzato a congelare la propria concezione del mondo.
La banalità ha la sua forza di persuasione nell’effetto di ottundimento delle emozioni, che agisce come antidolorifico, e nella coltivazione dello spirito di adattamento. L’essere umano si abitua anche alle circostanze peggiori e più invivibili, attiva, in mancanza di altre soluzioni, le forze inerziali della sua esistenza le quali, conformandolo a ciò che lo circonda, l’aiutano a sopravvivere. Non in attesa di “tempi migliori”, di circostanze favorevoli alla propria capacità di iniziativa e di invenzione, ma nella perenne “ripetizione del medesimo”, la materia prima del tanto acclamato “senso di sicurezza”.
Il pensiero-azione banale non ha un legame diretto con la distruttività, il suo effetto soporifero sembra piuttosto blandirla. È la stagnazione, depressione psichica che produce a trovare sbocco in esplosioni terribili di violenza. Tali esplosioni sono una reazione “vitalizzante” al senso di morte che invade la psiche depressa o un’identificazione temeraria con la morte stessa.
Il razzismo è un nemico identificabile -l’evoluzione distruttiva della banalità divenuta “male”- e lo si deve combattere a viso aperto. È necessario, tuttavia, bonificare la pigrizia mentale e emotiva da cui nasce e dentro la quale prospera. Questa pigrizia non si bonifica con battaglie generiche contro il populismo. Tale fenomeno (l’inganno del popolo con la riduzione dei suoi desideri in bisogni) è la parte confusamente visibile di un processo sotterraneo ben più ampio: una cultura di disimpegno dalla vita che non risparmia nessuno.
Alla complicazione dell’esistenza bisogna opporre la semplicità: la dislocazione dello sguardo che fa uscire la vista dalla trappola del puro adattamento alla realtà e rimette in gioco la complessità. Se l’opposizione al populismo rinforza la sua fonte principale (la precarietà), i conti non tornano e non sarà la banalità (l’austerità) a salvarli.
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