Il paziente della rosa di Morselli (Scrivere a Eugenio Borgna per parlare con lui)

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2 luglio, 2018 - 09:06
Riassunto. L’autore, dopo aver ascoltato e visto sul canale telematico della Rivista psychiatryonline, un palpitante Eugenio Borgna, invitato a Genova dal 9 maggio 2018, per una lodevole iniziativa di Francesco Bollorino al fine di celebrare significativamente il quarantennio della centottanta (180x40 GENOVA), con una conferenza magistrale, ha ritrovato nel computer un inedito di otto anni fa. Si tratta di una lettera che aveva preparato all’amico Eugenio, non solo per ringraziarlo del dono di un suo libro, ma anche – vista la distanza tra Roma e Novara – per “parlare” con lui, di una “psichiatria gentile”. La fioritura di parole sublimi e il patos interattivo fluito in duplice senso con le presenze degli attenti ascoltatori, ha suscitato nell’autore un dispiacere acuto di non essere a Genova fra gli astanti. Riascoltare la voce inconfondibile di Eugenio Borgna, il valore e il potere evocativo della sua parola, le sue parole, pensare immediatamente al suo “Noi siamo un colloquio”, mi ha fatto pensare che avrei potuto riparare alla mia assenza inviando questa vecchia lettera (le parole non muoiono, né deperiscono) per partecipare a quella koinè
 
Carissimo amico Eugenio Borgna,
giusto l’ultimo giorno di dicembre 2012 – rientrando a Roma in automobile – mi ha raggiunto improvvisa e inattesa la tua voce, inconfondibile, familiare, gradita. Era Marino Sinibaldi che, alle ore sedici, sei minuti e cinquantacinque secondi, dell’ultimo giorno dell’anno, un lunedì, ti intervistava su Rai Radio 3, per la trasmissione Fahrenheit. Più che un’intervista, veniva mandata in onda una conversazione con Eugenio Borgna. Il conduttore, ti chiedeva di raccontare la tua esperienza coi giovani liceali di Novara, iniziati alle fondamentali tematizzazioni del dolore e dell’angoscia a proposito delle modalità di introito all’esperienza psicotica, da cui era nato il tuo ultimo libro: “Di armonia risuona e di follia”: titolo che vagamente richiama i versi della poetessa Alda Merini.
Naturalmente, esemplificazioni, narrazioni, vicende e protagonisti di clamorose esperienze della cosiddetta follia creativa (poetiche, in particolare), in personalità del tutto particolari, non mi giungevano estranee, avendo io da tempo consuetudine con la tua fenomenologia psicopatologica, i tuoi testi e il tuo magistero, a parte l’amicizia e la stima delle quali mi onori da oltre quarant’anni.
Era la tua parola – quella che Nietzsche ci ricorda essere l’apologia della musica – che rendeva vicina a me la tua presenza e, se è vero che il linguaggio è "la casa dell'essere", nella suggestione fenomenologica heideggeriana, allora io ho potuto essere affiancato, per “1000 minuti”, da una prossimità amicale che mi si manifestava (anche armonicamente), attraverso i rimandi della poesia, appunto.
Il tuo discorso sulla follia creativa “scoperta” nell’800, come tu acutamente osservi, principiava dalle vite di Hölderlin, di Nietzsche, Emily Dickinson, Rilke e altri cigni feriti, con cui tu ami esemplificare, per raccontare (e cercar di comprendere) l’angosciosa esperienza smondanizzante della psicosi. Proprio il contrario, di quanto, invece, solitamente accade, per fare della critica letteraria con qualche notazione biografica di malattia mentale. Molto opportunamente, tu citavi Thomas Mann, che si era assunto questa funzione, ingrata di critico implacabile, di rivelatore di verità crude, certamente, ma anche di scoperte di autenticità, smascheramento di mode, illusioni e luoghi comuni: la follia è un’esperienza dolorosa che non fa sconti neppure ai grandissimi, perché non li esime dal dolore interiore, dalla sofferenza psichica. Tutto molto chiaro e lucidamente tagliente con la sapienza del logos usato come bisturi della psiche, del pensiero, dell’anima.
E quando il conduttore, Marino Sinibaldi, ti ha citato il malato di Searles, per sondare la tua esperienza, nell’inconsueto (ma non infrequente per lo psichiatra fenomenologo) cimento comunicativo, apparentemente impossibile, col silenzio del catatonico, tu ha risposto associando uno straordinario rimando inedito e prezioso. Ti  è tornato alla mente il tuo grande maestro, per rappresentare l’ostinazione patologica, platealmente sorda, in-comunicativa, indifferente, tetragona ad ogni assalto del terapeuta nel tentativo di con-dividere la parola, il sentire, all’interno della fortezza in cui sembra autorecludersi il vissuto catatonico. Scelta di cattività che, se si resta, però, in paziente attesa – ma con le antenne dei sensi ben dritte per cogliere ogni minimo segnale – pare sbocciare quasi dal nulla (ma non dal niente); proprio come spesso capita quasi per caso all’erba di strada, di uscire spinta dalla forza della natura, o irrompere dai frammenti d’asfalto, perfino esplodere dalle gettate di cemento armato.
La parola del malato catatonico di Searles, non locutore, talmente silente da sospettarsi sordomuto nato, sorgeva, quasi per incantamento, proprio dal silenzio e il dialogo principiava con una domanda. Quel paziente, sigillato in quel reiterato rifiuto della parola che noi denominiamo mutacismo psicotico, non udendo il quotidiano saluto di cortesia del medico, aveva parlato. La temporalità enigmatica della presenza schizofrenica “assente” – eppur registrante e segnalante, ancorché alienata, altrove, lontana, remota all’incontro – aveva inattesamente preso la parola per chiedere bruscamente al medico, e con voce naturale “Perché oggi non mi saluta?”.
Il fatto potrebbe apparire sensazionale se si smettesse solo per un attimo di pensare, come purtroppo spesso accade ancora oggi in psichiatria, che si ha a che fare con un esemplare “maschio” o “femmina”, facciamo per esempio, della “classe di schizofrenia del tipo II di Crow”, e non ci ponessimo, invece, la domanda, come suggerisce la psicopatologia fenomenologica, che il malato che incontriamo nel nostro lavoro è pur sempre un’umana presenza e ci riguarda in quanto essere, presenza, Dasein. Come del resto lo è anche semplicemente l’altro, senza peraltro dimenticare che l’alter alienus ha una sua specificità affatto particolare, come purtroppo è stato ottusamente negato da un certo avanguardismo di maniera (contrabbandato per basaglismo rivoluzionario doc) nella festinazione verbo motoria contenuta nello slogan “I malati sono tutti uguali”. Sciocchezza che il Basaglia psichiatra “filosofo” e psicopatologo, non si è mai neppure immaginato di pensare per un attimo.
Cos’era successo, dunque, ti pressava il conduttore, mio buon amico Borgna? Perché questa presenza malata di negazione della parola, aveva sovvertito la regola del routinario incontro. Come mai, un passaggio insignificante, apparentemente banale e distratto, di poco più che lo stereotipo di un’ombra del curante, frustrava con improvvisa e ferma tonalità vocale lo spazio comunicativo, ormai cronicizzato, nei modi e nei tempi emblematici della diserzione dalla parola, ormai da molti mesi. Un incontro, certamente alle falde della percezione intersoggettiva della relazione, nondimeno vigile e inferente alla presenza di entrambi gli attori: il passante e l’astante. Perché l'ultimo passaggio, in cui lo stile catatoniforme lo aveva assunto il medico, non salutando il paziente, aveva sbloccato una inazione, abbattuto un muro?
Non sul perché, tu ammonivi, ma sul come, ci si poteva interrogare, fare delle ipotesi. E tu tirava fuori dalla cornucopia dei tuoi ricordi … la splendida rosa… di Morselli… “messaggio sanguinante”… fulminea intuizione eidetica del Maestro! La tua parola, prezioso amico, la tua voce a me familiare e come tale riconosciuta, riferiva al conduttore, di questo paziente del tuo Maestro e tuo predecessore all’Ospedale psichiatrico di Novara – il paziente della rosa di Morselli – che aveva deciso d’interrompere la sitofobia solo se sulla tavola apparecchiata ci fosse stata una rosa.
Mi viene in mente che, a parti invertite, il finissimo G. E. Morselli, probabilmente si era sovvenuto di un classico della letteratura rinascimentale: «“Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.” – Disse Maroncelli al chirurgo che gli aveva tagliato la gamba, mentre la portavano via – Quegli prese la rosa, e pianse ». (1)
Ecco dunque che, nel colloquio di Borgna, venivano rievocati anche Giovanni Enrico Morselli, nato allo schiudersi del Novecento e il significato storico di cerniera di questo secolo tragicamente insanguinato. Il “secolo breve” della ferocia, della cultura dì morte, dei meccanismi di annientamento di ogni diversità dell’umano dalla conformità pazzesca ad un’assurdità folle, frutto di un’ideologia delirante – quella della cosiddetta “purezza della razza” – partorita dalla mostruosa perversione  del nazionalsocialismo hitleriano e assecondato dall’irragionevole ottusità del fascismo mussoliniano. Ancor oggi si stenta a credere che intere popolazioni di elevatissima tradizione culturale, storica, artistica, letteraria, musicale, scientifica, siano potute cadere nel tranello di finti sciamani e macabri pifferai magici, fino a seguirli nel tuffo mortale. Se la scrittrice Hanna Arendt, guardando di là dalla gabbia, dove un enigmatico Adolf Eichmann, a Gerusalemme (aprile 1961), veniva giudicato davanti al mondo intero per i suoi crimini, ha potuto usare un termine pregnante, completo, finito e inaccettabile al genere umano, come “la banalità del male”, significa che coloro, tutti coloro che si sono resi responsabili di tali nefandezze, tutti quelli che hanno inflitto queste crudeltà, sono riusciti a rendere il dolore banale, la sofferenza routine contabile, il male fuori dalla sfera dell’umano.
Nondimeno un secolo, il “Novecento”, spirato da oltre tre lustri, non solo ”breve”, ma in qualche modo, anche quello della catarsi, principiata nella sua seconda metà. Il secolo del tramonto delle ideologie, della presa di coscienza della realtà. Dell’affermazione mondiale e della pratica attiva della nozione di Pace. Dell’imprescindibile necessità di riparare, curare le ferite (soprattutto morali), sperimentare il dialogo, ricostruire la relazione umana, curare i reduci, creare comunità terapeutiche, scavalcare barriere culturali  (etnopsichiatria) e, in Italia, superare i manicomi.
Tutto questo certamente, ci ricordava la conversazione con Eugenio Borgna, ma nello specifico, un indimenticabile maestro di tutti noi, il milanese Morselli, alienista straordinario, commovente gigante della psichiatria e della psicopatologia italiane (sbocciato nella fucina neuropsichiatrica di Carlo Besta), e maggiormente apprezzato nella psichiatria transalpina, piuttosto che in quella domestica.
Se il malato di Searles, aveva deciso di rompere l’assedio volontario, patologico indubitabilmente, ma non inumano, per una anormalità della routine, una discontinuità del fluire normale del tempo cronologico: un saluto mancato; anche nel paziente di Morselli, forse, aveva fatto breccia nel banale scorrere grigio e cronico del quotidiano, la comparsa improvvisa della rosa: fondante metafora sanguinante. Entrambi i pazienti, mai lasciati soli né reificati, bensì ascoltati, attesi, compresi da questo nuovo umanismo psichiatrico antropofenomenologico, erano stati stanati, spiazzati, infine indotti ad abbandonare per un attimo, l’anancastica temporalità dello stallo. In questa lotta disperata, per non rinunciare a partecipare alla vita, forse, erano stati mossi, dalla curiosità verso la costante tenacia di chi, curandoli, “follia o non follia” (come dice Borgna in Radio, a Fahrenheit) non aveva mai dimenticato di usare il rispetto per la sacralità della relazione umana, innanzitutto.
Grande lezione della clinica, per noi psicopatologi del fenomenologico umano, eterna fonte di riflessione, cimento e palestra del pensiero. Non sempre chi rifiuta la parola è privo di pensiero, non sempre chi tace, è assente, anzi. Non sempre il delirio, soprattutto quello dell’esperienza catatonica, è “un errore morboso di giudizio”. Rarissimamente (e solo in talune esperienze di senilità neurologica) il contenuto dell’esperienza allucinatoria psichica è legata ad un danno cerebrale, ad un allagamento sensoriale della sostanza reticolare ascendente, mentre di maggior gioco interattivo dispongono la personalità di base dell’individuo, l’educazione, l’antropologia culturale in cui è stato allevato il soggetto, come il suo Dasein lo ha gettato nel mondo, lo ha costretto a vivere la sua propria storia interiore, incontrare una comunità di destino con-gli-altri-umani. Se tutto questo, che in fondo è la vita umana e di cui la follia può essere una possibilità di destino, ha un senso, allora anche il silenzio o la parola della follia ha senso e rafforza vieppiù quello dell’intersoggettività medico-paziente come sentiero anche terapeutico..
Tutto questo ascoltare (e riflettere) mi rammemorava, tra l’altro, che io ti sono debitore, come minimo, di una recensione. Codesto libro “Di armonia risuona e di follia”, che ho da te benevolmente ricevuto in dono (con tanto di dedica autografa, che conservo preziosa, insieme alle altre, nel segno di una binswangeriana e antica amicizia), giusto alla fine dello scorso settembre 2012. Regalo sontuoso, che per una serie di sfortunate circostanze, ho a malapena ricambiato con un non più che formale, anche se profondo, ringraziamento.
La gratitudine, nondimeno, mi sgorgava dalla parte più pascaliana e palpitante del cuore: un cuore, il mio, dove da due anni, come certamente ricorderai, è stata riposizionata una valvola aortica nuova (porcina, ma per nulla estranea al mondo biologico di cui siamo parte ragionante e più stesso irrazionale e trascendentale) dallo splendido collega cardiochirurgo Francesco Musumeci. Mi è poi sovvenuto di aver anche preparato un testo. Forse un po’ lunghetto, perché quando si parla di e con Eugenio Borgna si è facilmente trascinati al “colloquio”, enunciato giusto nel titolo di un tuo celebre testo, e si ricomincia da capo. Così alla fine è precipitato da qualche parte in fondo al computer. Intanto abbiti i miei migliori auguri di buon anno.
 
Con stima e affetto Sergio Mellina

 
 
 
Note
1. Silvio Pellico - Le mie prigioni (1832) Cap. LXXXVII.
 

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