Weggenossen. Le parole dell’amicizia, quelle della follia e i compagni di strada della psicopatologia fenomenologica per ricordare Bruno Callieri (1923-2012).

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3 luglio, 2018 - 14:55
Riassunto. In occasione dell’Ottantacinquesimo di Bruno Callieri, che cadeva nel 2008, com’era tradizione nelle Università di un tempo, gli amici e i colleghi gli offrirono in dono, per festeggiarlo, un libriccino di scritti dedicati. Anche l’autore pensò di unire un proprio contributo ma, essendo stato coinvolto troppo tardi, non giunse in tempo a concludere il suo testo per la pubblicazione di quel libro intitolato Io e Tu. Fenomenologia dell’incontro – Omaggio al Prof Bruno Callieri per il suo LXXXV anno, a cura di Gilberto Di Petta. Predispose, in ogni modo, una dettagliata raccolta di appunti e riflessioni su questo prezioso volumetto e, naturalmente sull’amico Bruno, con l’intenzione di trovare l’occasione (e lo spazio in una rivista specializzata) per farne una sorta di appendice o presentarli sotto forma di nota a margine. Il testo, ormai con due lustri d’età, non si tradusse neppure in un organico scritto di recensione. Successivamente, per varie ragioni, non escluse quelle «biologiche» – perché, come lucidamente afferma Lorenzo Calvi «la biologia vieta di considerarla trascurabile» (1) – che avevano interessato anche chi scrive, restò impubblicato. Ora, egli ritiene proprio sia giunto il momento opportuno, per tirarlo fuori dalla soffitta del computer e riproporlo alla grande platea, dato che a Genova, Francesco Bollorino, sta facendo una scoppiettante girandola di fuochi d’artificio per ricordare, con la rubrica (180x40) e le relative interviste, una fra le più grandi rivoluzioni civili che l’Italia abbia prodotto nell’ultimo quasi mezzo secolo. E dato anche che il 28 aprile del corrente anno 2018, a Bruno Callieri è stato tributato un importante convegno celebrativo presso il Castello Orsini di Castel Madama e il sindaco Dott. Domenico Pascucci gli ha scoperto una lapide commemorativa, dove si fa menzione della sua opera di studioso, giusto nella piazzetta della Chiesa di San Michele Arcangelo
 
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Bruno Callieri, nato a Roma il 17 luglio 1923, è mancato il 9 febbraio 2012, in una giornata rigida di freddo e di neve, che a Roma è evento eccezionale ma non raro.
Fa piacere ricordarlo, ripensandolo oggi, a sei anni dalla morte, con qualche indugio sui dettagli della sua vita operosa ed entusiasta del mondo. Un modo, sia pure figurato, a chi gli è stato amico, per trattenerlo, rivederlo, riascoltarlo.
Che Bruno Callieri fosse romano a diciotto carati non ci poteva essere dubbio alcuno, perché era nato di fronte a Porta Pia. Nondimeno, aveva una particolare radice storica nei Castelli romani, che conferiscono a quella sorta di romani un valore aggiunto: il pregio della visione a distanza della capitale, vale a dire quello di guardare i Quiriti dall’alto in basso. La radice di un nonno lo legava a Castel Madama, ed era analoga a quella radice che legava Melania, la dolce moglie di Bruno, alla medesima altura tiburtina. Lei stessa me lo ha confermato qualche anno fa (2014), quando l’ho chiamata per farle gli auguri, come ogni anno facevo quando Bruno era in vita.
Mi ha (e si è) ricordata che aveva conosciuto Bruno, più grande di lei, un’estate a Castel Madama, dove molti anni fa, in villeggiatura da un nonno, era assillata dalle ripetizioni di latino (“dov’ero somara”), in cui era stata rimandata. Fu allora che Bruno (“bravissimo nella materia”) si fece avanti, offrendosi di impartirle le lezioni, in alternativa al prete, perché altri a conoscere il latino in paese non ce n’erano. L’amore venne in seguito, mi ha rammentato Melania, nel ringraziarmi degli auguri. Sui dissidi fra “Tiburtini” e “Castellani” sapevo molto, perché molto me ne aveva parlato Bruno, in più occasioni e in varie circostanze, fin da quando era direttore all’ospedale psichiatrico di Guidonia (la “Martellona”), il grande complesso ospedaliero dell’Opera “Don Uva” attivo dalla metà degli anni Cinquanta sulla Via Tiburtina, poco prima dello stabilimento termale delle “Acque Albule”.
Le sue erano lezioni sempre molto erudite, anche quando si trattava di voci storiche o pseudostoriche o leggendarie risalenti al medioevo e riguardanti la valle dell’Aniene (la sorella minore, ma non meno aristocratica di quella del Tevere, mi diceva). Di suo e di originale, vi aggiungeva, sempre, l’entusiasmo per la storia, il gusto per la narrazione delle cose, la curiosità per l’osservazione e la meticolosità per la registrazione dei fatti empirici.
 
Dunque, una radice “Castellana” (poi anche galeotta) univa Melania e Bruno a questo piccolo borgo stretto attorno alla Chiesa di San Michele e a un antico castello-fortezza appartenuto agli Orsini. Quel Castel Madama, fiero antagonista di Tivoli, affacciato sulla valle dell’Aniene, laddove il fiume gira sotto i monti Prenestini al contermine coi Tiburtini, per scendere verso Roma, una quarantina di chilometri più sotto (2).
Se si approfondisce la storia locale (e Bruno era un appassionato e profondo conoscitore della storia delle abbazie sublacensi), si viene a sapere che Castel Madama, in epoca medioevale, era divenuta acerrima rivale della vicina e più antica Tivoli, differenziandosi dalla virgiliana Tibur Superbum, si dice addirittura più antica di Roma, per strategie di opportunità (e di dispetti) verso i capitolini. Tra l’altro,
Castel Madama, era stretta tra due fuochi, perché doveva guardarsi anche dal soverchiante potere dell’Abbazia di Subiaco, poco oltre nella vallata sublacense (3).
Rivale di Tibur, lo fu per antiche questioni di pedaggi e di gabelle, dazi e balzelli per attraversamento di porte, di passi, di ponti e per transiti di fiume. Lo furono certamente per reciproci interdetti, supremazia di comando, di sapere e di potere, ma per vincere questa guerra (o questa emulazione necessitata dalla prossimità) occorreva prima comprendere la natura di entrambi, conoscere le alleanze, valutare la posta in campo, interrogare la storia. Castellani e Tiburtini lo avevano fatto da sempre. Si sa per certo che la guerra tra Tiburtini e Castellani ebbe termine nel 1548 come risulta da un’incisione sulla porta della Chiesa di San Michele Arcangelo. Dunque, Roma non è Tivoli e Tivoli non è Castello. Per questo, insisto, Bruno era attento alle differenze (anche sottili), ai confronti (anche minimi), apertissimo ad ogni tipo di koinè, come lui amava ripetere, sempre.
Nel territorio del Latium Vetus, sperimentando anche il clima tra Tivoli e Castello, rivali guardiani della campagna romana sottostante, in posizione dominante, Callieri conobbe due fra i più enigmatici dei “Castelli” che circondano Roma, a guatarsi ostili tra le sopravvivenze mitologiche di Tibur, i rimandi al culto di Ercole Vincitore, di Sibille Latine o Tiburtine; e non era finito: accanto e, poco sopra, a Praeneste, vigilati dal tempio oracolare della Fortuna Primigenia, e altre leggendarie narrazioni, la storia antica ti entrava nel sangue. È naturale che si diventi curiosi, quasi un destino. Facilmente sorgono corollari: si ama il dialogo si prediligono le comunità di linguaggio, si vuole sapere, ci si muove per andare a visitare le università dell’Europa. Ci s’interroga, si ascolta, si osserva, si studia, si con-divide, e l’uomo Bruno Callieri fu anche tutto questo inesaustamente.
Il dettaglio etnico, non è trascurabile perché questa sua appartenenza ad una splendida terra di paesaggi naturalistici, di testimonianze storiche antichissime e di feroci contrasti medioevali tra potenti (Orsini, Medici, Farnese, ecc), si coglieva nella fascinosa interlocuzione ed essere-con di Bruno. Sembrava quasi che una sorta di genius loci originato da echi di remote lotte crudeli tra entità naturali e sovrannaturali stemperate da atmosfere rarefatte di spiritualità religiose e sapienti, alitasse intorno alla vallata dell’Aniene. Il tutto, fortemente sottolineato da monasteri benedettini, eremi, santuari, edicole votive e chiesette rurali.
Questo clima, questi echi di antiche storie umane, si era fortemente presentificato, se così posso dire, nel Dasein di Bruno Callieri. Particolare competenza storica egli possedeva nelle vicende medioevali che ruotarono intorno alle lotte per il potere tra papi, vescovi, abati, re, imperatori, con tanto di scomuniche e di interdetti. Rivalità tra ordini monastici e religiosi, contenziosi per questioni ereditarie, fieri contrasti tra abbazie, fortezze, castelli, luoghi di conservazione, custodia e trasmissione di saperi, libri, documenti e aveva presente la nascita delle prime università. Conosceva bene, Bruno, la storia di Margherita di Asburgo che apprezzava (4).
Forse era proprio questo arcano ambientale a rendere possibile, nel nostro, quel felice coacervo di simbiosi culturali che rendono particolarissima e indimenticabile l’umana presenza di amici, maestri, personaggi che hanno avuto in sorte dal destino, il privilegio di essere abituati a contemplare Roma (e i suoi tragitti storici), dall’alto, fin da ragazzi. Bruno era uno di questi uomini rari: o almeno lo è stato finché si è trattenuto con noi.
Dunque, mi pare proprio giunto il momento propizio di tirare fuori questo inedito dal cassetto, poiché mi è stato chiesto di partecipare con uno scritto e anche con la mia presenza ad una giornata particolare dedicata al Caro Maestro.
Sabato 28 aprile 2018, a Castel Madama, l’intera giornata, annunciata ufficialmente dal Sindaco, è stata dedicata al Maestro. Nella mattinata si è tenuto il Convegno “Psicopatologia Fenomenologica: la lezione di Bruno Callieri” introdotto da Massimo Biondi e Gilberto Di Petta, moderata da Maria Antonietta Coccanari de’ Fornari e Mauro Pellagrosi, e ha visto relatori Angela Ales Bello, Laura Faranda, Maria Armezzani e Filippo Maria Ferro. Nel pomeriggio è seguita una cerimonia di festeggiamento con la scopertura di una lapide intitolata a Bruno Callieri. La meritevole iniziativa della dottoressa Conti-Pallai, responsabile  della casa editrice EUR Edizioni Universitarie Romane, è stata assunta per tratteggiare adeguatamente il contributo di Bruno Callieri alla cultura psichiatrica italiana della seconda metà del secolo scorso e celebrarne particolarmente lo straordinario magistero di psicopatologia antropofenomenologica nel panorama della ricerca europea.
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Ci sono fasi critiche nella storia dell’umanità (e non solo per cogenze belliche o carestie naturali) in cui viene da domandarsi che cosa resti della dignità umana, del rispetto per sé (per l’altro), delle parole con cui comunichiamo, del dialogo necessario alla con-vivenza. Oggi, è forse uno di questi momenti critici? La parola, mezzo con cui gli umani (alcune comunità di umani, credenti) hanno convenuto di comunicare da tempi immemorabili, è forse destituita di senso? Il Vangelo (greco) di Giovanni si apre con un annuncio tanto semplice quanto solenne:
 
In principio era il Verbo,
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio
 
Forse non è più tempo di Vangeli, di predicazioni, di buone novelle, ma solo di fondamentalismi, di oscure minacce, Armageddon, Apocalissi.
La storia dell’uomo – specialmente la sua storia interiore nel senso di binswangeriana Innere Lebensgeschichte – è talmente lunga (e così “umana” sul piano esistenziale) che lo stesso interrogativo si è posto infinite volte e continuerà ad affacciarsi perennemente sull’esistenza dell’essere, finché l’umanità continuerà a costituirsi come tale e nelle forme delle comunità nei suoi momenti co-esistentivi.
Nondimeno, oggi è ravvisabile una di tali cogenze, specialmente nell’intersoggettività, che è macroscopicamente impraticata per vistosa carenza di relazione e di rispetto tra i soggetti umani medesimi. Oggi, nel massimo sviluppo delle possibilità di comunicare globalmente “in tempo reale” – come si usa dire soprattutto nel virtuale – è ravvisabile il massimo dell’incomunicazione reale. Dunque, quello odierno, pare proprio uno di quei momenti che obbligano a ripensare un po’ tutto, massimamente l’uomo, come in origine iniziò a riflettere Socrate. Tale fu il proposito antropocentrico dello Stagirita, allorché – esaurita la speculazione naturalistica dei “presocratici” (ricca di autentico spiritualismo più di quanto non si pensi) – era assolutamente imprescindibile tornare all’essere, cercare dentro l’essere, anziché fuori.
Ecco dunque la domanda. Cosa ne è del pensiero, del ragionamento, della confutazione o della con-divisione? Cosa resta, dell’amicizia, della solidarietà, della com-passione? Dove sono finiti i termini che servono a rendere espliciti tali concetti (e gli agiti conseguenti), insostituibili a caratterizzare l’ente in relazione agli altri enti pensanti e parlanti che vivono il mondo dell’oggi? È forse tramontato l’uso della parola per additare orizzonti di senso fra umani, percezione di mondi, modi di sentire, valori, significati?
Mai come oggi (ma in fondo lo è sempre stato) s’impone una radicale verifica dell’ovvio, o più precisamente, quanto viene fatto intendere per ovvio e non lo è neppure lontanamente. Mai come nel linguaggio mediatico attuale è necessario uno spietato e puntuale riscontro tra ciò che è e ciò che viene fatto apparire.
Domandarsi se sia ancora possibile, oggigiorno, definire nozioni come vero/falso, reale/virtuale, episteme/doxa, apparente/appariscente. Discernere e descrivere nella ribalta delle emozioni e dei fatti sociali, concetti opposti come disvelamento/occultamento, simulazione/dissimulazione, comparsa/scomparsa, sia pur con ragionevole disaccordo, ma sana empiria, e con un pizzico di diffidenza, ma solerte riscontro. Chiedersi soprattutto, se sia ancora necessario questo apparato linguistico e questa pratica della palestra dell’anima per tentare d’illuminare le modalità con cui si esprime e si costituisce l’umana presenza.
Nel caso si dovesse convenire su una risposta affermativa (cosa che mi pare ineludibile), quali sono le discipline che conviene ripassare, quale il libro più pertinente da leggere? Senza esitazione al primo quesito, “quale disciplina”, la risposta è la psicopatologia antropologica e la filosofia fenomenologica. Al secondo, “quale libro”, si può senz’altro rispondere segnalando il testo a più voci: Angela Ales Bello, Arnaldo Ballerini, Eugenio Borgna, Lorenzo Calvi, Io e Tu. Fenomenologia dell’incontro – Omaggio al Prof Bruno Callieri per il suo LXXXV anno, a cura di Gilberto Di Petta, EUR. Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2008 (5).
 
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Parliamo del libro, dunque. Inizialmente pensavo di fare una recensione, ma, terminata la lettura, le suggestioni e gli appunti risultarono così copiosi e il materiale raccolto talmente eterogeneo da risultare eccessivo per una nota di recensione e insufficiente per un saggio di psicopatologia fenomenologica. Vari motivi mi coinvolgevano direttamente in quel festeggiamento. Prima fra tutti l’antica amicizia con Bruno Callieri, la stima per quei Weggenosse (i suoi compagni di strada) che avevano scritto di lui e per lui e, per ultimo, ma non ultimo, il sacro fuoco di libertà che arde in Gilberto Di Petta. Cionondimeno, le note raccolte e le riflessioni che, a suo tempo, hanno accompagnato la lettura di questo libro denso di temi fondamentali della psicopatologia fenomenologica, sono risultate così stimolanti e di tale pregnanza che – ora che Bruno è scomparso – mi viene da pensare che avrebbe gradito leggerle se le avesse trovate aggiunte, sotto forma di saggio, nel novero dei doni che il libro gli regalò, cinque anni fa, per il suo Ottantacinquesimo.
Già la copertina era una presentazione eloquente. Il volto di Callieri – un primo piano di spalla, a mezza pagina, tagliato “fronte-collo” verticalmente e “guancia-guancia” lateralmente, come si usa oggi nei moderni servizi fotografici, inaugurati dai magistrali piani-sequenza della cinematografia di Sergio Leone – compariva vitale, sorridente, curioso, come d’abitudine. La grafica di Gian Luca Pallai coglieva in pieno il “personaggio Callieri” e la foto, quella foto di copertina, diceva molto più di una biografia. Il suo sguardo acuto e anche un po’ sornione, pareva affacciarsi da una quinta teatrale per osservare (abbracciandolo) il mondo-della-vita, con un entusiasmo contagioso, il suo abituale e connaturato.
L’immedesimazione di Callieri nella osservazione delle “cose”, le nostre impervie “cose” della vita (e di quelle altrui), spesso mescolate al nostro quotidiano mondo professionale di presenze segnate dalla follia (e dalla clinica che le coglie), era quasi frenetica, tesa continuamente alla conoscenza, all’incontro, alle grandi tematizzazioni aporetiche dell’esistenza e dell’essere-nella-costrizione-della-follia. Una tensione speciale promanava dall’uomo, dal Maestro che Bruno Callieri è stato.
Era un’aura particolare, la sua, un prestigio autorevole che s’imponeva a chiunque lo incontrasse e colpì anche me che lo conobbi, brillante studioso, alla corte di Mario Gozzano da poco giunto da Bologna a sostituire Ugo Cerletti sulla cattedra di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’università di Roma.
Gozzano, il mio maestro, aveva superato Vito Maria Buscaino, nel concorso a cattedra, il temibile rivale di Napoli, che ci rimase malissimo. Ero da poco laureato in medicina ed avevo deciso di proseguire con la specializzazione in neuropsichiatria e di avviarmi alla carriera universitaria nell’ateneo romano, non ancora “La Sapienza”, semplicemente “Studium Urbis”, ma già tra i primi dieci del mondo e da tempo.
Per quanto mi riguarda, il grande passo lo feci all’inizio degli anni Cinquanta attraversando il Viale dell’Università per passare dalla Clinica Medica di Luigi Condorelli, sita nel quadrilatero del policlinico Umberto I, di Guido Baccelli, alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Mario Gozzano sita nell’area funzionalista della “Città universitaria” disegnata da Marcello Piacentini.
Nell’Istituto di Gozzano (5) si respirava una prestigiosa atmosfera. Era come si dice oggi una (struttura di) “eccellenza”. Non solo per le aperture e le innovazioni del Direttore (Neurochirurgia, neurofisiologia, neuroradiologia, neuropsichiatria infantile, psicopatologia, ecc.) ma anche per famosi studiosi nazionali e internazionali che chiedevano collaborazioni o vi afferivano direttamente per stages e ricerche.
Bruno Callieri era fra coloro che contribuivano a aumentare codesta “eccellenza”. È rimasto famoso un riconoscimento ufficiale di Ernesto de Martino, sul lavoro psicopatologico di Callieri, allora appena trentenne, dell’esperienza di fine del mondo dello schizofrenico (7).
L’ammirazione che avevo per Bruno, ero nove anni più giovane, lo sentivo una sorta di fratello cadetto, era alimentata dalla sua affabilità sapiente, ogni volta che lo incontravo da specializzando, si perpetuava quando ascoltavo le sue lezioni, aumentava quando leggevo quello che lui scriveva negli anni Cinquanta. Ma la cosa più entusiasmante era quando ci raccontava i suoi viaggi di studio nelle università europee: tedesche, svizzere, francesi …
Questo suo straordinario alito di dialogica reciprocità, che rendeva straordinario ogni incontro con lui – una dualità che si costituiva già nell’atto di riconoscerti rivelandosi – mi travolgeva gioiosamente (un bergsoniano élan vital, il suo), e si è poi costantemente rinnovato per oltre mezzo secolo, ossia da quando la mia esistenza ha avuto la fortuna di incrociare la sua e fin quando lui è stato in vita. Questo, più o meno, è stato il sentimento, lo stato d’animo, che ho provato ogni qualvolta ho incontrato Bruno Callieri. Un fratello maggiore, come ho già detto, un sapiente e cordiale “compagno di strada” (Weggenosse, anche per me), lungo gli heideggeriani e coinvolgenti sentieri interrotti (Holzwege) della psicopatologia antropofenomenologica, un inesauribile Maestro.
Quanto al contenuto del libro, vi troviamo incastonati, come quattro gemme, i contributi di Ales Bello, Ballerini, Borgna e Calvi, quattro importanti “compagni di strada” che, con Bruno Callieri, hanno camminato (interrogandosi) lungo l’impervio tratturo euristico della fenomenologia. A questa disciplina filosofica, essi, hanno attinto a piene mani e si sono ispirati costruendo, ciascuno, un personale “stile” di lavoro per tentare di illuminare, la condizione dell’umano e dell’umano-altro-e-alieno. Ciascuno di loro, dal proprio ambito e con sensibilità diversa, ha svolto tematizzazioni generali di psicopatologia antropologica fenomenologicamente orientata, girando intorno all’opera di Callieri (o ricordandola). Un’opera sempre curiosa, inquieta, attenta ai piccoli dettagli della presenza psichicamente malata, ai suoi infiniti modi di essere-con o negarsi-a o mancare l’esistenza – come ha scritto Binswanger (Tre forme di esistenza mancata) – celando la propria Lebenswelt (il-mondo-della-vita), dietro le maschere dell’esaltazione fissata, della stravaganza, della bizzarria.
Naturalmente, nella circostanza, Bruno Callieri – ma non poteva essere diversamente – volle con-dividere il “dono” partecipando-vi, prendendo posto tra-, anzi iniziando per primo il discorso coi suoi più prossimi e abituali compagni di cammino. Così ripropose nel lavoro di apertura – Appunti per una psicopatologia della reciprocità, a mo’ d’introduzione tematica – uno dei suoi tanti acutissimi “pezzi” tra i più elevati e fra gli ultimi del suo ricchissimo e lungo arco di lavoro.
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Un saggio breve – era il suo – ma pieno di problematizzazioni intorno alle possibilità (o impossibilità) dell’essere umano di declinarsi (o non-declinarsi) nella reciprocità, alle sue primarie capacità (o incapacità) di costituirsi in un Noi (das wirhaftes Zwischen) o non-costituirsi. Nove densissime paginette in tono volutamente minimalista (Appunti) che suscitavano riflessioni a cascata e meritavano molti commenti. Esse inducevano il lettore ad interagire chiosando i pensieri e le parole dell’Amico sapiente, nella dimensione dialogica che sempre ebbe cura di coltivare e mai cessò di praticare con chiunque fosse il suo interlocutore, grande o piccolo, potente o umile, “sano” o “malato”.
L’incipit di Callieri sul tema dell’altro, sulla costituzione della persona nella dimensione della dualità con l’alter, appunto, il socius per dare senso alla presenza mondana dell’essere, era folgorante: «Da un accanito e irriducibile solipsismo, che creando l’altro forse già si propone di distruggerlo, alla reciprocità delle coscienze: radicale giro di boa che si realizza tramite l’appartenenza» Le suggestioni che richiamavano queste parole erano infinite. Veniva immediata alla mente l’immagine di due barche a vela che, nel campo di regata, si affrontano in una giornata ventosa per una gara di match-rice. L’associazione con la loro estenuante risalita zigzagando controvento di bolina per guadagnare la boa e poi, dopo averla girata, scendere nell’inebriante volo di poppa, agli appassionati di vela, sorgeva naturalmente.
Ebbene, l’appartenenza o appartentività (Eigenheitlichkeit) di Husserl, era giusto il punto di approdo con cui si costituisce l’essere nella dualità, dopo essere partito dalla linea del solipsismo, aver girato la boa del campo di regata dell’esistenza e, infine, aver cambiato radicalmente rotta nella reciprocità delle coscienze. Dopotutto l’incontro con l’alterità è sempre una gara, una tensione, una transazione, uno scontro che, se si dispiega nei termini del dialogo e della parola appartiene per metà a chi parla e per l’altra metà a chi ascolta.
Precisava meglio Callieri, riferendosi al Minkowski di Vers une cosmologie, «… appartenenza a sé e all’altro-da-sé; questa reciprocità è dimensione costitutiva della persona; è l’elemento che “caratterizza l’essere rispetto ad ogni altra qualità fondamentale”» e concludeva duettando nell’infinito randez-vous della co-esistenza «… toccare ed esser-toccato, “essere-due” o, meglio, “essere a due” […]  rappresenta qui un carattere molto più basale del mero “essere-uno”: e ciò in tutta la gamma del coesistere, dalle papille tattili al toccarsi d’anime […] la pagina minkowskiana è veramente fondante: “tale reciprocità, inscritta nel toccare, determina così il modo speciale di essere di tutto ciò che è ... il “me e l’altro nella loro reciprocità” è un fenomeno assai più originario del semplice me che, come tale, in fondo non significa assolutamente nulla”» (p. 27).
Callieri non ignorava le pertinenze della psichiatria (e della psicopatologia) nella comunicazione interumana «… oggi noi potremmo ben considerare la psichiatria come lo studio non soltanto delle distorsioni della comunicazione interumana ma anche, e forse soprattutto, delle distorsioni antropologiche dell’incontro» e, con l’aiuto di Jan Hendrik Vandenberg (8) – che «lo diceva a chiare note già nel lontano 1946, nella emersione dalla catastrofe bellica» (p. 32-3) – individuava nella distorsività comunicativa quelle ostilità radicali dell’umano contro l’umano che vanno in scena nella dimensione ferocemente distruttiva rappresentata dalla guerra.
Anche per questi motivi la psichiatria, secondo Callieri, dovrebbe essere «la scienza che studia non solo e non tanto l’uomo neurale, ma che indaga l’uomo nelle sue (primarie) capacità e incapacità di costituirsi in Noi (das wirhaftes Zwischen), di declinarsi in reciprocità; e lo studia nei suoi surrogati vissuti del Noi, nelle sue molteplici forme di scadimento nell’anonimo e/o nel collettivo, là dove si assiste a una vera e propria “scomparsa del partner”, a un vanificarsi della sua co-presenza».
Ecco che, a questo punto, il Nostro introduceva per confronto (come, peraltro, sempre usava fare), la cruda esperienza clinica della presenza psicotica che pone continuamente l’incontro sotto scacco. Basterebbe pensare «al paranoide e alle deformazioni che ivi assume l’incontro – scriveva Callieri, citando la lezione del Maestro svizzero di Kreuzlingen – così magistralmente descritte da Binswanger: il co-mondo (Mitwelt) del delirante non riesce ad aprirsi all’incontro». L’irragionevolezza del delirante è tale «proprio in quanto si dà come déraison» ossia parla per metafora.
La smondanizzazione psicotica – e qui Callieri coglieva un punto nodale in modo efficacissimo – si esprime enigmaticamente con voce sibillina «per ragioni che costituiscono l’oracolo delfico della psichiatria» (p. 33). Straordinaria immagine questa radicale lontananza tra l’oscuro vaticinare della follia e il rigoroso razionalizzare della psichiatria clinica, che solo la psicopatologia fenomenologica riesce a cogliere per intuizione ed empatia.
Ma c’era anche altro in questo saggio di apertura di Callieri. «Il disturbo psicotico dell’incontro, qualunque ne sia la ragione (biologica, psicologica, sociale, etica), è un disturbo – ci avvertiva a mo’ di cautela da prendere nell’incontro con la presenza psicotica – non solo tematico ma anche modale; è davvero un disturbo degli “ordinamenti” dell’esserci (le Daseinsordnungen, di Jürg Zutt), ad es. dell’ordinamento “estetico”, dello “stare”, la perdita del “fisiognomico”; ma, e forse soprattutto, è la perdita della reciprocità e dell’assetto mentale di tipo gruppale». Ed ecco infine il monito: «E' proprio lo studio antropologico psichiatrico di questi modi distorti e sghimbesciati dell’incontro e della reciprocità interpersonale che consente di cogliere, per negativum e con singolare efficacia, tutta la portata pratica e la densità teoretica di quel peculiare modo dell’esserci». Ammonimento affettuosamente severo, di sollecitazione all’impegno, al dovere, alla pietas umana, quel coacervo d’intrecci interpersonali «costituito dalla relazione interpersonale [e] dalla reciprocità delle coscienze» (p. 33). Per quanto mi riguarda, penso che questo mettere in evidenza il legame intersoggettivo e sollecitarci ad indagarlo più approfonditamente, sia una delle principali eredità lasciateci da Bruno Callieri e dovrebbe guidarci nello svolgimento del nostro lavoro quotidiano di psichiatri e psicopatologi.
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Angela Ales Bello proponeva le sue riflessioni rileggendo e commentando due testi di Callieri: Percorsi di uno psichiatra (1993) e Corpo, esistenze, mondi (2007). Il secondo, condensava in una trilogia la dimensione della vita umana: il corpo, l’esistenza, il mondo (9). Proprio quest’ultimo testo era ampiamente richiamato nel saggio, per tratteggiare la figura dell’amico psichiatra: «L’ampiezza degli interessi del nostro psicopatologo non cessa di stupire – scriveva, sinceramente ammirata, il decano di Filosofia dell’Università Lateranense di Roma – la sua attenzione nei confronti di tutti i fenomeni culturali, sociali, patologici che caratterizzano il nostro tempo è costante e instancabile e dimostra una straordinaria vivacità intellettuale che non si acquista nel già raggiunto».
In effetti, Bruno Callieri è stato uomo profondamente immerso nella vita dei tempi che ha attraversato: nel succedersi degli zeitgeaist di cui è stato testimone, la sua presenza è fluita autenticamente, si è srotolata coerentemente, ha aderito, compreso, partecipato umanamente e lealmente, mai trascurando la sua opera di studioso della salute fisica e mentale dell’uomo. La sua esistenza ha sempre interagito (e si è relazionata sempre) con gli amici, con le cose che mutano e, mutando resettavano incessantemente il suo tragitto esistenziale, il suo Dasein, continuamente teso a cercar di capire, di comprendere l’altro e se medesimo. Callieri è stato uomo vitale e curioso della vita. Quando, negli ultimi tempi, lo salutavo e gli dicevo – Ti trovo bene! Sempre lucido attento, illuminato – lui mi rispondeva: «Questo sì! Non posso lamentarmi, ma vedi, alla mia età, sono le gambe che non reggono (i muscoli antigravitativi della stazione eretta). Allora scopri quanto è importante camminare per poter pensare». Sembrerebbe una banalità, ma camminare e pensare – nell’arco conclusivo della vita – significava per Callieri dare senso, partecipare, imparare, condividere-con-gli-altri quella parte di esistenza che ancora a ciascuno di noi viene concessa.
Lo ricordo, molti anni fa, in assorta lettura sulla “Circolare”, con una mano afferrata alla maniglia del tram e l’altra stretta ad un libro aperto. Il tragitto mi era familiare (anch’io gli sono stato compagno di strada, qui in senso fisico). Una volta, distratto dal leggere, scese alla fermata d’ingresso della Città Universitaria, ossia dopo l’incrocio di viale Regina Margherita col Viale dell’Università, dove avrebbe dovuto fermarsi per risalire fino al civico 30. Quivi aveva sede la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali che fu diretta da Ugo Cerletti e poi da Mario Gozzano. Ancora oggi, scriveva Ales Bello, «… con piglio sempre giovanile, va avanti esplorando, incuriosito e stupito del novum che non gli sfugge».
Il suo lavoro è sempre stato una sorta di “Anabasi”. Un faticoso risalire dalle celate e criptiche radici della «ricerca specialistica» per giungere ai piani più illuminati, e dunque «approdare alle radici del sapere», scriveva Ales Bello, la quale sottolineava anche la possibilità prospettata dalla «antropologia filosofica» di Callieri. Questa particolare metodologia di studio, del nostro Bruno – sempre oscillante tra la clinica e la «antropologia filosofica» e più in generale con la cultura, che più specificamente connota ciò che l’umano produce – fornisce strumenti per leggere i disturbi mentali tra mind e brain come il tertium datur («cioè la dimensione antropoanalitica»). Una vera e propria rottura delle «regole della logica aristotelica» (p. 38).
Che cosa servono alla psichiatria – si domanda la filosofa romana – la problematica e l’analisi esistenziale e i filosofi amati e citati con grande competenza da Callieri? La domanda, che ad uno psicopatologo di formazione fenomenologica potrebbe apparire scontata o retorica, non lo è affatto per tanta parte della psichiatria cosiddetta “biologica” che ha sempre cercato nelle cellule del soma o nel disfunzionamento neurofisiologico, biochimico, umorale, del körper, le ragioni misteriose della follia. Dunque è perfettamente giustificato richiamare il pensiero di Sören Kierkegaard, Martin Buber, Edmund Husserl, Marvin Farber, Alexander Pfänder, Moritz Geiger, Edith Stein, ivi compresi gli studi preziosi – attentamente compulsati da Callieri – che l’autrice di questo testo in onore di Callieri, ha dedicato alla fenomenologa tedesca, allieva di Husserl, alla sua “passione per la verità”, al suo  impegno, al suo sacrificio estremo per contrastare il nazismo. «In che modo tutto ciò – sottolinea la Ales Bello (p. 39 e passim) – può essere un tertium rispetto alla psichiatria, una scienza che si basava sulla proclamazione di Griesinger, secondo il quale “le malattie della mente sono malattie del cervello”?». Le risposte di Callieri non sono mai certezze, ma aporie radicali ben circostanziate, acute, pregnanti, rigorose sulla modalità esistentiva della presenza, perché in fondo la medicina mentale o dell’anima che dir si voglia (ché tale è la “psichiatria”), concerne l’umano, la sua salute, la sua esistenza il suo modo di essere nel mondo, di relazionarsi coi suoi simili.
Ad Angela Ales Bello, viene in mente la città di Atene del V secolo, i Sofisti e quella sorta di «grande “cronista” che è stato Platone» – paragone calzante ma – «… cosa cercano gli esseri umani, se non ciò che si mostra con evidenza come valido, che ci dà il “senso” del fenomeno?», si domanda. Ora, parafrasando Husserl e Heidegger, cioè tornano alle cose stesse, si potrebbe aggiungere che delle cose, dei fenomeni, ne cercavano il senso e l’essenza. Tema vetusto, (ermeneutico, ontologico, epistemologico), la vera natura, il fine, il significato di ciò che appare, tema che torna periodicamente e si riattualizza divenendo radicalmente e perennemente contemporaneo. Ma è proprio la donazione di senso che consente di cogliere la verità che la sottende e la rende autentica. Ed è proprio questo che, in fondo, Ales Bello richiama con forza, intonandosi a Callieri, allorché sottolinea come la questione si riproponga tal quale, all’inizio del secolo scorso e sul finire del precedente. La generale adesione al positivismo comtiano, in cui «… il processo di formazione delle scienze sembra aver toccato il suo apice [con la] teorizzazione dello stadio positivo: ramificazione, specializzazione del sapere, basato sulla sperimentazione e la verifica empirica», fa esplodere il problema. Eppure vi è una contraddizione macroscopica nelle certezze della corrente positivista: da un lato, essa, rifiuta la filosofia, dall’altro, però, la utilizza per formare un sistema di pensiero scientifico. Ales Bello cita (p. 39) direttamente il padre della fenomenologia: «Scrive Husserl: De facto il positivista rifiuta le conoscenze essenziali solo quando riflette ‘filosoficamente’, lasciandosi ingannare dai sofismi dei filosofi empiristi, ma non quando, nell’atteggiamento normale delle scienze naturali, pensa e giustifica le sue asserzioni come ricercatore scientifico della natura. In quest’ultimo caso, infatti, si lascia largamente guidare da evidenze eidetiche». Husserl dunque si oppone e contesta questo modo tranciante di misurare ogni accadere fisico (anche umano, ossia storico, mentale, esperienziale, passionale) con pedissequa osservanza delle “leggi” galileiane che, pur rivoluzionarie e principio indiscusso della scienza moderna, iniziano a rivelare le crepe epistemiche di tre secoli. Dunque è necessario trovare un dialogo paritario tra scienze della natura e scienze dello spirito. E la psichiatria è per l’appunto scienza della natura umana e, al contempo, scienza dello spirito e delle condotte umane.
La lezione di Callieri – secondo Ales Bello – consiste nell’aver colto e rivelato agli allievi di cui si è circondato, che la psichiatria, o meglio il lavoro dello psicopatologo (che è sempre una elaborazione filosofico-antropologica dell’esperienza clinica), consiste essenzialmente nella donazione di senso alla realtà umana che incontra, che ascolta, con cui si pone in relazione e che cerca di comprendere. Meglio di tutto sono le parole del maestro che la collega filosofa cita (p. 41) da Corpo, Esistenze, Mondi «Egli rifiuta “… di arroccarsi nel significato come mero segno o sintomo, di escludere dal campo teoretico della psicopatologia la sfida della persona, la scommessa densamente e rischiosamente esistenziale del suo proporsi – e in tal modo esorcizzare il mistero dell’incontro interpersonale, rendendo asettico e sterile il grande afflato, tutto marceliano, della presenza”».
In tema di corporeità, viene sottolineata l’attenzione che Callieri riserva alla lezione fenomenologica di Merleau-Ponty per analizzare il corpo vissuto «come un mezzo e uno strumento di relazione con gli altri». Grande interesse, lo psicopatologo, deve rivolgere al come si mondanizza il soggetto che osserva, per cogliere anche le più piccole sfumature di eventuali alterazioni nelle modalità di porsi in relazione-con-gli-altri. Inequivoco l’appoggio della Ales Bello, a quanto Callieri scrive, pensa, pratica e applica, di fenomenologico, alla psicopatologia. Non solo, ma invita, anche, taluni psichiatri (diffidenti o, peggio, irridenti, per convinzione biomedicalistica), a superare qualunque remora, ad abbandonare ogni esitazione confrontandosi liberamente con la filosofia. «È proprio l’antropofenomenologia – spiega – che aiuta a cogliere il senso dell’esperienza vissuta del corpo nei suoi aspetti positivi e, correlativamente, in quelli negativi che lo rendono mera cosa, che lo spersonalizzano. Il compito dello psicopatologo – prosegue rimarcando il pensiero di Callieri – è quello di individuare le modalità di tale spersonalizzazione» – ed è proprio qui che si rivela strategica «una conoscenza approfondita delle patologie, le quali non sono solo “classificate”, ma colte nella loro valenza distruttiva di potenzialità che rendono impossibile la realizzazione di un progetto esistenziale pieno» (p. 42).
Passando poi ad analizzare il mondo della vita, leggiamo che «L’esistenza umana è un’esistenza “mondana”. Questa tesi sostenuta da Heidegger, in realtà ha la sua fonte nelle analisi di Husserl sul rapporto io-mondo, ma soprattutto nella sua concezione di mondo». Un pensiero classico della fenomenologia. «Il mondo non è l’insieme delle cose che stanno fuori – prosegue la Ales Bello – ma è ciò che sta dentro di noi, la modalità del vivere il nostro rapporto quotidiano con le cose e gli altri esseri umani» (p. 43). In proposito, sono richiamate due classiche esemplificazioni di Callieri sulla Lebenswelt della presenza: l’analisi di due mondi, due estremi dell’esistenza dell’uomo, quella del bambino e quella dell’anziano. Il bambino, nella sua stanza, lascia vedere sé stesso – questa è un’altra sfavillante perla estratta da quello scrigno di tesori che è Corpo, Esistenze, Mondi (p. 180) – attraverso la relazione oggettuale, la transazione mondana, dei suoi giocattoli. L’osservazione è una tenerissima testimonianza di come Bruno Callieri si relazioni alle alterità meno garantite. Alla sensibilità di Ales Bello non sfugge: «“… un vagoncino lasciato con lo sportello aperto pone di più l’accento verso una condizione di scarsa capacità di utilizzazione dell’oggetto, che invece viene fruito nella sua completa individuazione quando si passa a dominarlo e comprenderne i limiti e le possibilità della sua utilizzabilità. Ogni singolo oggetto manifesta una maggiore o minore capacità indicativa, indubbiamente legata alla nostra capacità di decifrare e, latamente, all’intenzione più o meno espressa di comunicare”» (p. 44).
Al contrario che in quella del bambino, nella Lebenswelt della senilità, l’oggetto è idealizzato, secondo Callieri. C’è «una sclerotizzazione della dimensione noetica, che è la fonte dell’idealizzazione – osserva la Ales Bello chiosando il pensiero di Callieri – [e nella vecchiaia la] idealizzazione, strumento importante e propriamente umano non si trova più a contatto con il momento hyletico-esperienziale […] che rende dinamica la conoscenza, la quale è anche aspettativa di novità. Il vecchio – ma non tutti i vecchi, per fortuna, conclude alludendo palesemente a Callieri – mostrano di non essere più capaci di progettare» (p. 45). Importante anche la sottolineatura, che «qui giustamente Callieri fa riferimento al processo temporale, studiato e messo in evidenza dai fenomenologi, anzi, per primo, proprio da Husserl».
Come si può vedere, non mancano accenni alla hyletica husserliana – di cui Ales Bello è conoscitrice profondissima e autrice essa stessa di saggi magistrali (si pensi al parallelismo con l’essere grezzo nella nozione di corporeità di Merleau-Ponty) (10) – che coinvolge la sfera affettiva e impulsiva più profonda dell’essere, sostrato costitutivo, condizione basilare e indispensabile per giungere alla fase noetica della umana presenza. “Sentimenti sensoriali” li chiama Husserl riferendosi alla duplicità del momento intenzionale (noetico) e di quello materiale (hyletico) nelle analisi dei vissuti. Una “materia”, la hyle, non totalmente materiale, ma elemento pre-categoriale dell’agire impulsivo e dell’includere il mondo esterno in quello interno non ancora elevato a polo egologico.
 
Se mi è consentito aggiungere una precisazione su quanto a me è rimasto su questo punto specifico, ossia sulle varie età dell’uomo (soprattutto della restrizione spazio-temporale del mondo della senescenza specialmente in rapporto alla fertile rigogliosità di quello dei nipoti, di cui più volte ci siamo confidati reciprocamente negli ultimi tempi) mi azzarderei a formulare una sorta di schematismo, di cui mi assumo tutta la responsabilità di una eccessiva banalizzazione. In buona sostanza, la Lectio difficilior potior (11) di Husserl sulla percezione del vissuto temporale delle varie fasi esistenziali dell’essere, del suo vivere consapevole della finitezza della condizione umana, per giunta appenato “spesso” come dice Montale (12) che “il male di vivere ho incontrato”, potrebbe sciogliersi in un contrasto dottrinario fra tre gruppi sacerdotali della psiche o della medicina della mente. Da un lato gli psichiatri della neurobiologia – assunti come schieramento di “laici” confidanti nella potior della matericità del bios – i quali nel termine hyle (13) comprendono anche uno dei costituenti reali (ma non intenzionale) del vissuto (14) o, ancor meglio, includono il nucleo dei dati materici dell’Erlebnis, riferibili genericamente al territorio del sensorio coscienziale. Dall’altro e per contro, i neurofisiologi – assunti come gruppo di “chierici” di altra liturgia – i quali sperimentano questo concetto in corpore vili mediante stimolazione dolorifica. Infatti, essi distinguono la sfera percettiva del dolore protopatico (selvaggio, primordiale poiché sono allertati i nuclei-basali encefalici), dalla elaborazione epicritica del dolore (consapevole, poiché sono informati gli emisferi corticali). Infine, agli psichiatri-psicopatologi di impostazione fenomenologica (“diaconi-permanenti”), competerebbe, invece, una visione meno estranea all’umano, più distante dai dualismi mente/corpo e maggiormente olistica della hyle (e anche dell’eidos).
In questo senso Ales Bello riconosce a Callieri la capacità di utilizzare la fase hyletica fenomenologica, per analizzare gli atti umani psicotici (e non psicotici) nelle loro stratificazioni, fino al momento noetico in cui si ravvisa l’intenzionalità (normale e patologica). Ecco che qui, ancora una volta, affiora il contrasto polare (nel “sano” e nel “malato”), tipico della riflessione psicopatologica di Callieri, alla stregua dei grandi maestri della psicopatologia antropofenomenologica. «Quest’analisi, condotta sulla normalità, consente a Callieri di comprendere più a fondo le situazioni patologiche» scrive testualmente Ales Bello (p. 46) che gli riconosce anche il merito di saper usare queste due nozioni fondamentali (hyletica e noetica) della fenomenologia husserliana nelle strategie delle sue analisi psicopatologiche. Io mi permetterei di aggiungere “nozioni fenomenologiche”, usate da Bruno, come strumenti artigianali, alla stregua di quei bulini magistrali degli antichi incisori.
Il saggio di Ales Bello si conclude con un cenno al mondo del sacro – altro cavallo di battaglia dell’indagine callieriana – ricordato in tutte le sue infinite sfaccettature, definizioni e formulazioni: “fondamento precategoriale del religioso”, “via per apertura e interdetti fondamentali” “fonte di cultura dei diversi popoli”, “categoria umana fondamentale, irriducibile, primaria” (in accordo con Rudolf Otto). Infine, dello psicopatologo Callieri, ci rammenta il serrato colloquio con gli antropologi culturali, i filosofi d’impostazione fenomenologica, gli psicoanalisti, sul radicamento del sacro nella psiche umana e sulla sua eradicazione (Feuerbach), terminando con Emmanuel Levinas e la responsabilità etica.
 
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Il secondo “compagno di strada” Arnaldo Ballerini – fiorentino di nascita, petroniano di formazione all’Alma Mater Studiorum, nella Clinica delle Malattie Nervose e Mentali alla scuola di Piero Ottonello (1898-1959), purtroppo mortogli anzitempo, conferenziere di forbita favella e di raffinata dottrina – apre il suo contributo con una premessa, a mo’ di carta d’identità, che ricorda, un po’ romanticamente, come in una calda estate della sua esistenza sia approdato alla psicopatologia fenomenologica. È al contempo un attestato di stima e di ringraziamento a Bruno Callieri per averlo fatto imbattere, quasi casualmente, in quel genere di studi di psicopatologia fenomenologica che lo ha appassionato per tutta la vita e in cui ha primeggiato (e tuttora eccelle) con contributi di acuta profondità.
«In un afoso pomeriggio bolognese – scrive (p. 49) – l’aiuto della Clinica delle Malattie  Nervose e Mentali (anche questa integrazione con la Neurologia è uno degli sfondi culturali di Callieri, mirabilmente fuso con gli aspetti anche più speculativi della antropofenomenologia) ci propose una lettura corale del testo di Kurt Schneider “Psicopatologia Clinica” tradotto e portato in Italia da Bruno Callieri, quale frutto della sua frequentazione di quel mitico luogo della psicopatologia che stata la clinica di Heidelberg. Posso dire di aver conosciuto Callieri attraverso quel testo, e, ripensandoci dopo tanti anni e molti altri libri, mi rendo conto della fortuna che ebbi e della sventura degli psichiatri che non hanno conosciuto quel modo di pensare».
Il suo “dono” a Callieri è un saggio dedicato alle Declinazioni psicotiche dell’identità, in cui già si era esercitato nel ciclo di conferenze “Sapere e Narrare” (15). Un tema scabroso quello dell’identità, cavalcato politicamente, mediaticamente e sociologicamente da ogni sorta di compagnia di ventura del razzismo. Oggi non vi è argomento del vivere quotidiano che non rimandi strumentalmente ad aspetti particolari dell’identità, da quella cosiddetta “etnica” a quella degli “ingroup”, “outgroup“, we, they, a quella “gruppale” di giovani, sette e così via (16).
Non è qui, però, il luogo di continuare sulle inclusioni/esclusioni sociali, le devianze giovanili, né sulle follie collettive di capi carismatici e seguaci subornati, con relativi suicidi/omicidi di massa. Tanto meno sul fanatismo pseudoreligioso del “jihad”.
Più utile, semmai, una rapida digressione sui sociologi che hanno affrontato il problema dell’identità, nell’integrazione in società europee di maggiore affluenza immigratoria. Cito, fra i tanti, Gianfausto Rosoli (1934-1998), Selim Abou (1928), Abdelmalek Sayad (1933-1998), Edward Wadie Said (1936-2003).
Mi sono occupato (e lo faccio tuttora) di immigrati, studiando il problema di adattamento della loro identità in una infinito attraversamento di confini culturali e geografici. M’interessava capire se – all’interno di un processo di cambiamento culturale totale e assolutamente sconvolgente – l’identità del migrante (quasi un esempio sperimentale), potesse divenire fungibile (o restasse rigidamente infungibile), per tentare un’integrazione nella nazione ospite. Un giorno mi capitò di interpellare Rosoli per una bibliografia aggiornata sul tema dell’identità (etnica).
Ne avevo necessità, soprattutto di comprendere, perché se ne straparlava ovunque e, a “Ca’ Foscari”, dove (anni addietro) tenevo il mio Corso di Medicina Sociale ed Etnopsichiatria, gli studenti mi chiedevano di essere informati in proposito. Gianfausto Rosoli, uno scalabriniano, mi disse di fare attenzione, perché era una trappola sociologica per dividere non per unire, per litigare, non per discutere. Nulla di più artificioso e funzionale alla politica terroristica sul “pericolo di invasione” da parte di “orde” d’immigrati, propedeutica formula dis-umana della filosofia dell’ossimoro, della ferocia, dell’intolleranza: la “tolleranza zero”. Mi suggerì due testi, rispettivamente di Abou Selim e René Galissot, che ho letto volentieri e sui quali ho meditato spesso e più volte. Anche e soprattutto di questi tempi, non proprio remoti alle piaghe del razzismo, schiavismo, fascismo, nazismo, revisionismo, negazionismo e di tutti i peggiori ismi immaginabili.
Tematiche sociologiche, etnologiche, politiche dell’identità, che parrebbero lontane dalle trasformazioni ontologiche dell’essere nell’esperienza psicotica. L’esperienza migratoria non ha nulla di psicotico, eppure rappresenta una condizione limite del vissuto identitario (una situazione catastrofica) che potrebbe gettare luce sulle dinamiche trasformative più profonde della psicosi.
Qualche similitudine, con questo particolarissimo tema di psicopatologia distorsiva dell’identità nel migrante, mi parrebbe di coglierla allorché Ballerini, commentando Blankenburg, scrive «… Il cuore della psicosi sembra essere una alterazione della esperienza di Sé nel Mondo, in mutuo rinforzo, ove la debolezza nella costituzione dell’Altro è debolezza del Sé, ove la angoscia è assieme per il terremoto del Sé e per la evanescenza del common sense nell’esperire il mondo, o – più sinteticamente – per l’esperienza del Sé fatta in quella esperienza» (pag. 55).
Ballerini, però, non procede sulla strada sociologica né politica, ma utilizza rigorosamente l’analisi fenomenologica dell’identità disturbata. La sua ricerca consiste nel mettere a fuoco le tematizzazioni più complesse e più contraddittorie concernenti la “identità personale”, nella paranoia e nella schizofrenia; in particolare s’interroga sulla costruzione paradossale dell’identità delirante, comparandola agli esempi noti in uno specifico indirizzo filosofico, e letterario fantascientifico, come i puzzling cases sull’identità schizofrenica, enigmi insolvibili che necessitano di una invenzione narrativa fantastica, fuori del mondo, dove costruire una nuova genealogia dotata di autonoma continuità temporale (17). «L’identità introvabile in questi casi è innanzitutto quella dell’essere lo stesso, dell’identità-idem, e poi quella di una possibile continuità narrativa, e ci si confronta con una problematica ricerca di un se-stesso, di un nudo ipse, come sempre inafferrabile». (p. 69).
Banalizzando un discorso elevato, si potrebbe dire che il saggio di Ballerini, affronta – in ben altri termini e con ben altro spessore speculativo – la questione che la vulgata ama ricostruire un proprio simile alieno, come caso paradossale (enigma sconcertante) alla ricerca di un senso che possa ancora contenerlo nel genere umano. Vulgata che si stupisce e resta attonita raccontandosi le enormità di quei tali “pazzi” (in buona fede naturalmente, ossia pazzi veri, non finti pazzi) che affermano senza vergogna e intemeratamente (perché questa in fondo è la verità della follia) “Io non sono io”, oppure “Io sono Napoleone” (18).
La riflessione antropofenomenologica della psicopatologia di Arnaldo Ballerini, elaborata in questo saggio, prende la rincorsa da Cartesio (1596-1650), Locke (1632-1704), Hume (1711-1776) per giungere ai secoli più prossimi al nostro (soprattutto quelli della nascita del movimento fenomenologico) con Husserl (1859-1938) Jaspers (1883-1969), Viktor von Weizsäcker (1886-1957), Kurt Schneider (1887-1967), Buytendijk (1887-1974), Heidegger (1889-1976). Infine punta dritto alla filosofia ermeneutica dell’identità tracciata da Paul Ricoeur (1913-2005).
Trattasi della elaborazione di un pensiero filosofico all’interno di una ellisse, dove la mondanizzazione dell’essere si compie costantemente in una circonvoluzione che viaggia tra il polo dell’idem e quello dell’ipse. Ma sia l’uno che l’altro, non significano propriamente la stessa cosa nella speculazione fenomenologica e specificatamente nella fenomenologia dello spirito. Nel tragitto di autorealizzazione, la presenza, infatti, oscilla tra la identificazione vera e propria, ossia l’uguaglianza con se stesso e con gli altri; cioè l’appartenenza a gruppi o categorie di persone, indicata come memeté (medesimezza). Ma il tema dell’individuazione rimanda immediatamente e contemporaneamente anche al polo dell’ipseità, ossia a quella irripetibile singolarità personale che differenzia un individuo dall’altro.
La messa a fuoco ora dell’uno ora dell’altro di questi due aspetti della polarità egoica ci consente di mantenere in equilibrio le opposte tensioni della nostra coscienza, di intenzionare ogni attimo del nostro contatto col mondo e di guidare la nostra articolazione interumana con qualsiasi altra realtà umana diversa dalla nostra. Fenomenologia allo stato puro, il saggio di Ballerini sulla clinica mentale della paranoia e della schizofrenia con approfondimenti nella stimmung delirante.
«L’identità personale – scrive Ballerini – non è una sorta di statua monolitica ma un oggetto complesso che si nutre tanto della persistenza quanto dei cambiamenti connessi agli eventi della vita». A tale affermazione fa seguire una serie di puntuali precisazioni lessicali del linguaggio psicopatologico per evidenziare la maggiore pregnanza del termine “situazione” in cui l’essere viene a trovarsi coinvolto, nel corso dell’esistenza, con luoghi, persone, incontri, esperienze di vita, che rinviano a tutt’altra dimensione da quanto è richiamato e implicito nel termine “evento” che meglio si adatta a denominare i fenomeni e gli accadimenti della fisica. Differenza sottile ma efficace e strategica nello spartiacque tra scienze dello spirito e scienze della natura. «In questa accezione la situazione è qualcosa di costitutivo della presenza nelle sue innumerevoli declinazioni» – precisa oltre l’autore, per concludere che – «In definitiva una situazione è una tranche di quel rapporto Io-Mondo che è l’esistenza, ove la separazione fra i due termini – Io e Mondo – non appartiene all’esperienza immediata, ma è un après-coup della ragione» (pag. 51).
Ballerini dalla lezione di Ricoeur ne estrae un filo logico importante per seguire «la coniugazione persistenza-cambiamenti della identità delle persone» (19) nel corso dell’esistenza e a fronte delle traversie della vita. Dunque prende a prestito e seleziona «tre diverse componenti della identità  che hanno un loro modo di confrontarsi con la persistenza nel tempo: l’identità come “essere lo stesso”, identità-idem; quella come “essere se stesso”, identità-ipse, e il rapporto fra questi due aspetti che la persona costituisce raccontandosi: identità narrativa» (20). In buona sostanza, la partita dell’identità si gioca con tre dadi nel mondo della vita, che è anche il tempo della nostra esistenza. Tre aspetti delle metamorfosi temporali del Sé: quello della medesimezza (mêmetè), quello dell’ipseità e quello dell’autenticità nel potersi rappresentare come umana presenza con tutta la propria storia interiore.
Se tra l’aspetto della medesimezza e quello della ipseità uno prevale abnormemente sull’altro nella «costruzione identitaria» oppure – come sostiene Ballerini – «il loro patologico scollamento sono una matrice dell’identità psicotica», è proprio in questa prevalenza e/o scollamento che riusciamo a cogliere l’introito all’esperienza delirante. Finché questo rapporto dialettico tra medesimezza e ipseità, che costituisce la radice embricata dell’identità umana ancora in grado di potersi raccontare, si mantiene armonicamente in equilibrio con la coscienza di percezione del sé, nella relazione con noi stessi, gli altri e col mondo, ci sentiamo sicuri, al riparo. Ma allorquando tale radice venga espiantata, strappata, travolta dal succedersi di Erlebnisse negativi dell’esistenza che abbiano a minare e distruggere le certezze del chi-sono e del cosa-sono, si verifica quella particolare perplessità che è l’attesa delirante (Wahnstimmung), ma che può giungere fino all’esperienza destrutturate di “percezione di fine del mondo” (la Weltungangserlebnis descritta da Callieri).
Volendo dire altrimenti e tentando di semplificare, essere-lo-stesso (idem) ed essere-se-stesso (ipse) sono rappresentazioni identitarie praticamente sovrapponibili: un tutt’uno, ovvero la percezione olistica in senso hornayano di ciò che io-sono-nel-mondo e nel-tempo. Dunque il mio esser-ci (Dasein) si trasforma, nel corso dell’esistenza e gli altri lo riconoscono per tale, rinviandomi biunivocamente conferma della mia presenza mondana in tutti i suoi cambiamenti nel corso degli anni.
Allo stesso modo, potremmo pensare con un’azzardata similitudine anatomo-fisiologica, il foglietto pleurico ricopre i polmoni senza che se ne abbia la percezione, perché tra i due elementi lo spazio – come si dice in medicina – è virtuale. Assunta la legittimità del paragone, di tale inguainamento non abbiamo sentore fino a quando un versamento non venga a scollare il foglietto pleurico dal tessuto polmonare. Allora, e solo allora, un dolore acuto, una pugnalata che ci toglie il respiro, ci preannuncia una catastrofe e ci avverte di tale grave evenienza patologica. 
Allo stesso modo questa sottile differenza ricoeuriana tra medesimezza e ipseità si rivela proprio nell’esperienza trasformativa schizofrenica, che è radicale, tranciante, netta: la Spaltung, la scissione. Sento che la mia identità-ipse si è trasformata, ma soprattutto penso che gli altri vedano, percepiscano, controllino questa mia metamorfosi che esperisco (repentinamente o gradualmente) sgomentato, atterrito, ancorché la mia medesimezza possa continuare a fluire. Una identità-idem che se non è propriamente un me-stesso, è tuttavia alcunché di vitale (forse umano) che può avere ancora la possibilità di essere angosciosamente narrato – urlato munchianamente o sigillato nell’ostinazione mutacica del catatonico – altrimenti e nell’altrove dell’alienità.
A questo punto viene spontaneo pensare di aggiungere nel novero delle perplessità umane anche quella amletica tra l’essere e il non-essere che è ancora consapevolezza dubitativa. Perplessità, esitazione, incertezza d’animo – non ancora follia, anche se Shakespeare l’adombra – ma scelta, decisione sull’azione da intraprendere: se sia più nobile soffrire nell’animo (Whether ’tis noble in the mind to suffer), o prender armi contro un mare di guai (Or to take arms against a sea of troubles) (21), quelli dell’esistenza, della vita, o per dirla con Pavese del difficile mestiere di vivere.
Se questo è il nodo (the rub), come dice Amleto, viene da chiedersi se esista un qualche rapporto tra il mondo del simbolico, della drammaturgia, della poesia, della favola, della metafora, del racconto e la follia. Fra tutte queste possibili rappresentazioni culturali della vicenda umana e quella altrettanto umana, ma altra, aliena, lontana, della psicosi.
Non va dimenticato che Ballerini è autore del testo Caduto da una Stella (22), ispirato da un suo paziente. Il titolo di questo libro – scrive l’autore – «deriva da una frase di un giovane schizofrenico che, denegando le sue origini legali e la sua stessa nascita biologica, nei lunghi incontri che abbiamo avuto mi diceva a proposito delle sue origini e della sua identità: "Io  sono caduto sulla terra dalle stelle". L’indubbio alone di poesia, di favola, di magia che questa persona perde una pura valenza metaforica se teniamo presente che questa persona non di rado la notte sostava, solitario e nel buio, sui colli attorno al suo paese aspettando che qualcuno dei suoi veri genitori lo venisse a riprendere dallo spazio stellare» (pag. 54).
La circostanza mi richiama alla mente ciò che è scritto sulla facciata della casa di Pirandello (1867-1936) ad Agrigento: “Una notte di giugno / caddi come una lucciola / sotto un pino solitario / in una campagna d’olivi saraceni / affacciata agli orti / di un altipiano / d’argille azzurre / sul mare africano”. Ma Luigi Pirandello, oltre che drammaturgo e poeta, utilizzava la sua magistrale vena narrativa per fare della raffinata psicopatologia, lenire le sue piaghe dell’anima e rappresentare quelle degli altri.
 
Il lavoro di Ballerini racconta di Marco, un giovane paziente, che rivela il suo introito al delirio psicotico rigirandosi tra «le mani il suo orologio marcato Rolex». Una improvvisa folgore dubitativa, una intuizione delirante, gli fa percepire la falsità di quell’oggetto, ma poiché è la sua Wahnstimmung che si annuncia alla sua propria ipseità, il suo stato d’animo si perde nell’angoscia della mondanizzazione. Crolla allora anche la sua fiducia sull’autenticità di sé e del mondo.
A catena vengono meno – secondo la lucidissima descrizione di Ballerini – la «consistenza e continuità dell’esperienza della familiarità del mondo, e nel contempo sente come smarrito il suo sé e avverte come “falsa” la sua identità, non semplicemente una crisi del “che cosa” ma propriamente del “chi” dell’identità, e non può quindi compiere alcuna metamorfosi, che non sia delirante, verso un altro contenuto dell’identità, perché è proprio la ipseità che è stata fin lì il filo conduttore che non tiene, e lui apparirà all’inseguimento di una ipseità, illusoriamente più autentica» (pag. 53).
Riflettendo su Marco, Ballerini si domanda: «Quali sono dunque gli aspetti psicopatologici di questo rischio di vuoto, di questo abisso, di questo non-esistere, di fronte al quale la persona costruisce l’arte di esistere non esistendo?» (p. 54). Proprio qui il ragionamento psicopatologico si fa pregnante poiché s’inserisce perfettamente nella nozione sviluppata da Ernesto de Martino sulla crisi della presenza, e sulla destoricizzazione dell’essere.
Si pensi, per esempio a quel chiamarsi fuori dalla storia evenemenziale dei protagonisti di una migrazione fallita. Si pensi all’estraneità identitaria del migrante che d’un tratto, in terra straniera, è incenerito dalla percezione improvvisa della implosione del suo progetto di mondo. Il collasso dell’esistenza si affaccia insidioso (e pervasivamente), giusto nel suo progetto di viaggio per il cambiamento. Gli eventi (quegli eventi) gli cadono letteralmente addosso, proprio in quel momento dell’esistenza e in quel mondo precario che, in questa circostanza, è percepito come trasformato, e pertanto estraneo, irriconoscibile, invivibile.
Se si possa uscire e rientrare nel mondo dell’irrazionale, stare tra cielo e terra, come dice Amleto ad Orazio – là dove “Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non se ne sognano nella vostra filosofia (There are more things in heaven and earth, Horatio, Than are dreamt of in your philosophy) (23) – resta un mistero. Certamente la poesia e i poeti sembrano avere doti divinatorie, profetiche, metaforiche che consentono loro di cogliere il simbolico in questo spazio di mezzo che sta tra cielo e terra ed è molto di più che la semplice linea dell’orizzonte.
Anche per quanto appena detto, Ballerini non si lascia sfuggire l’occasione di citare la follia del grande poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843), forse secondo solo a Goethe. Hölderlin, infermo di mente, trascorrerà gli ultimi trentasei anni della sua vita a Tubinga, nella “Torre”, la stanzetta all’ultimo piano della casa di Ernst Zimmer, un falegname a cui era stato affidato perché “incurabile”. Si comportava in modo stravagante: inchini, riverenze, cupa fissità alla finestra, bruschi congedi, si firmava "Scardanelli" o in altra maniera bizzarra e, nel datare gli scritti, retrocedeva il tempo.
«In situazioni di patologia mentale l’allargamento sproporzionato dell’orizzonte, la pervasiva emergenza dell’esplicito dall’implicito, pone [… ] ancora la possibilità per le persone coinvolte di rispondere in maniera diversa a questa straordinaria esperienza, che per quanto abbia una grande ricchezza e un potere rivelatorio, rischia di rendere il mondo non vivibile e troppo complesso» – Così Ballerini introduce il discorso sulla follia di Hölderlin (p. 62) e continua, alludendo anche alla nozione di perdita dell’evidenza naturale di Blankenburg – «Una informe equivalenza di molteplici significati è intenibile e la svolta del delirio nascente sta proprio in un processo, difensivo potremmo dire, di riduzione e selezione dei nuovi sensi che si profilano alla coscienza, una volta sradicata dall’ovvietà della naturalità dell’esperienza».
Quanto alle bizzarrie psicotiche dell’autore dei versi profetici… un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette, Arnaldo Ballerini osserva: «Così accadeva a quel grandissimo poeta schizofrenico che fu Hölderlin quando sosteneva di chiamarsi Buonarroti, e così firmava le sue poesie, con più che probabile riferimento al rivoluzionario Filippo Buonarroti, amico dell’anarchico Babeuf, con le cui idee Hölderlin era stato in sintonia» (p. 63).
Secondo Ricoeur, la storia di chiunque, può costituire una mise en entrigue, vale a dire un oggetto di narrazione. Lo è la psicoanalisi, afferma in un saggio (24), ma noi potremmo aggiungere, anche la psicoterapia in generale e la raccolta della storia anamnestica del paziente. Preziosa la citazione di Ballerini in proposito: Senza racconto nessun accesso al tempo (M. Gilbert, 2001) (p. 57) (25).
Se la tessitura di questo filo di ragionamento, tra filosofia, poesia e narrazione, possa tornare utile alla psicopatologia fenomenologica, ben venga. A patto che serva a comprendere meglio (illuminare) la sofferenza dell’esperienza schizofrenica, che la clinica ci pone continuamente come sfida e come scacco. «Su questa traccia noi possiamo in effetti tentare di cogliere – è il suggerimento di Ballerini (p. 63) che condivido – la coniugazione fra l’impersonale biologico e il personale storico che si manifesta in ogni delirio, ed anche di comprendere come l’esperienza delirante acquisti per la persona il senso di un appello, di una chiamata personale, di una rivelazione fino a lì nascosta».
Vale la pena riflettere. Dopo tutto, la storia interiore e il racconto, sia pure per metafora, e voli pindarici di “Marco”, Pirandello, Shakespeare, Hölderlin, che questo saggio di Arnaldo Ballerini suggestivamente legittima ad accomunare, suggerirebbe finanche la risposta (perfino clinica e terapeutica) più idonea, per comprendere l’esperienza schizofrenica, sempre che si riesca a mantenere questo esile  filo di Arianna. E, tutto cìò, senza che suoni scandalo per gli accostamenti, che sopra s’è fatto, ma che la follia, peraltro, consente.
 
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Il dono di Eugenio Borgna a Bruno Callieri per il suo ottantacinquesimo, Infiniti orizzonti del dialogo in Bruno Callieri, oltre a richiamare uno dei testi più densi e significativi (Noi siamo un colloquio) (26) del prestigioso discepolo di Giovanni Enrico Morselli (1900-1973) (26), rinnova ancora una volta la testimonianza della sua amicizia per Callieri nei termini più autenticamente binswangeriani della modalità di essere-con-l’altro. Il suo contributo si articola in sette paragrafi, sette “partiture” che toccano praticamente tutte le tematizzazioni affrontate dalla psicopatologia fenomenonologica di Callieri, di cui ne sottolinea l’originalità delle osservazioni, il rigorismo metodologico e l’immensa cultura a cui attingono i suoi rimandi e le sue letture non solo dei fatti clinici, ma anche quelli dei fenomeni di costume sociale.
La prima delle sette partiture dell’elogio a Callieri, inizia con Il primato della clinica che «è la parola tematica di ogni autentica e radicale psichiatria: come sosteneva Henri Ey nel suo limpido e indimenticabile contributo agli scritti in onore di Kurt Schneider, del 1962» (p. 75). Volume, sia detto per inciso, a cui partecipò anche Callieri (28), il quale, peraltro, non ha mai dimenticato, nelle sue acutissime ed erudite dissertazioni, di ancorare il ragionamento alle datità fenomeniche dell’evidenza clinica. Non solo il mero dato clinico osservato, tiene a dire Borgna, ma anche quel particolare sentire dello psichiatra Callieri che origina dalla relazione e si alimenta «dell’incontro e del dialogo con i pazienti che nella loro angoscia e nella disperazione umana chiedano aiuto ad un medico: non solo, certo, ad uno psichiatra». (p. 76)
Nel secondo paragrafo, Le tematiche fenomenologiche, vengono ricordate da Borgna come un’antica passione nata in Bruno Callieri fin dagli anni Cinquanta quando esordì, non ancora trentenne, con un saggio tanto ambizioso, quanto lungimirante (29) che si proponeva di far convergere nella valutazione delle datità fenomeniche fornite dalla psichiatria clinica una metodologia idonea a costruire una psicopatologia comprensiva della follia. In tale metodologia illuminativa della psicosi dovevano necessariamente convergere ed intrecciarsi elementi della filosofia fenomenologica (in particolare esistenzialista), che consentissero di rompere l’accerchiamento anatomo-clinico della malattia mentale, fin dal rigido assioma griesingeriano (tutte le malattie della psiche corrispondono ad una lesione cerebrale).
Le tematizzazioni fenomenologiche e cliniche di Bruno Callieri sono state fin dall’inizio così radicalmente opposte alla cosiddetta “Mitologia cerebrale” tedesca (ancora preponderante nella psichiatria italiana fino alla cosiddetta “Riforma Basaglia” del secolo scorso), che Eugenio Borgna non esita a definire «heideggeriani sentieri interrotti che confluiscano nondimeno in una Lichtung (in una radura) comune e unificante». (p. 78).
Le fonti che ispirano (e guidano) i lavori clinici di Callieri, le sue osservazioni antropologiche e fenomenologiche sui moltissimi e irripetibili aspetti modali dell’essere-ci dello psicotico (sia esso depressivo o schizofrenico), del border-line, dell’ossessivo-fobico, del parafilico e di ogni altra possibile mondanizzazione della presenza umana malata, sono infinite e insospettate.
La filosofia certamente in primis, com’era logico in un neuropsichiatra non appagato dalla riflessione fisicalistica. Ora seguendo l’impostazione fenomenologica husserliana, ora quella jaspersiana, ora quella daseinsanalitica binswangeriana, con ampie immersioni nell’ontologia heideggeriana e acutissime interpretazioni della lezione merleau-pontyana sulla corporeità. Ma non secondariamente Callieri si serve di moltissimi altri strumenti delle discipline umane per leggere ed illuminare la condizione dell’uomo malato nello spirito.
Spesso attinge, cogliendone i sontuosi frutti sincretici, da quelle unioni creole che ama definire i “matrimoni esogamici della psichiatria”. Chiede aiuto e cita – non per erudizione ma per comprendere – quella che immagina essere la “rete mirabile” della psichiatria, appena essa allarghi «il proprio ambito conoscitivo e di prassi oltre il campo strettamente clinico» (30).
Curioso, egli, s’interroga, frequentando questi territori della vita artistica e sociale, quasi prosciugando i testi della cultura che essi esprimono. Territori limitrofi, forse anche lontani, apparentemente, ma non poi così remoti alla psicologia, alla psicopatologia e alla psichiatria. Callieri, riflettendo psicopatologicamente sull’esperienza concreta della vita umana – espressa altrove, altrimenti e con strumenti diversi da quelli canonici della psichiatria clinica – viene a trovarsi in una continua interazione privilegiata con il mondo, con l’evolversi della storia dell’essere. In fondo, però, parallelamente, è anche la sua propria storia che scorre e si declina nel mondo.
Sempre intento a cogliere lo spirito del tempo (e soprattutto intenderne il mutare), di quel tempo in cui egli vive-con-gli-altri, in cui egli si arricchisce, anche, delle esperienze dei suoi pazienti che si raccontano a lui, Callieri resta osservatore/osservato, supervisore/sottoveduto, estraneo/coinvolto, protagonista e comparsa della vita (31).
Nel terzo paragrafo, titolato le tematiche psicopatologiche e cliniche – sempre affrontate congiuntamente, nell’opera di Callieri – Borgna rileva che la sua «impostazione fenomenologica, dialogica e interpersonale, [gli] ha consentito e [gli] consente […] di dilatare la conoscenza e la percezione eidetica di fenomeni psicopatologici, dei quali la psichiatria si è sempre occupata ma non sempre cogliendone la profondità semantica ed ermeneutica. In proposito, tiene a sottolineare quelle relative alle «… esperienze di stato d’animo delirante, di eclissi delirante del mondo, di estraneità dell’io e del corpo, di perplessità, di trasformazione delirante dei ricordi, di personalizzazione dell’occhio», tutte quante rielaborate «alla luce, e nell’orizzonte, di prospettive ermeneutiche radicalmente originali». (p. 79).
Non manca, e come avrebbe potuto, un cenno all’incrocio della vita di Bruno Callieri con quella (purtroppo breve) di Ernesto de Martino (1908-1965) segnata «da una reciproca collaborazione scientifica e umana» a proposito delle tematizzazioni di esperienza di fine del mondo (Weltuntergangserlebnis) che talvolta sperimenta all’esordio il candidato alla psicosi schizofrenica. La reale profondità della stima e dell’amicizia tra i due – per quanto differenti di indole, carattere, convinzioni e provenienze culturali, ma non di curiosità per l’uomo, di fiducia nell’umanità, di interesse per la dimensione del religioso e della storicità dell’esser-ci – sono poco conosciute. Anzi, spesso – preminentemente per le ragioni politiche che influenzarono il clima spartitorio degli anni Cinquanta e Sessanta – sono state artificiosamente messe in contrapposizione.
Niente di più forzato e lontano dalla realtà. Entrambi conoscevano ed apprezzavano le ricerche e i testi l’uno dell’altro. Proprio la testimonianza di questa vicendevole stima dimostra «quanta ricchezza psicopatologica e antropologica, e quale profondità semantica ed esperienziale – scrive Borgna – ci siano nei deliri; quando siano decifrati nella loro immediatezza psicopatologica ma anche nella loro fondazione fenomenologica». Proprio questo aveva spinto il “professore già famoso” a cercare il “giovane psichiatra della Neuro” (come ama ricordare con sincera modestia, eppure lusingato, Bruno Callieri, più giovane di lui di quindici anni) (32).
Ernesto de Martino era rimasto colpito dal fatto che «… alla banale, e schematica, riduzione sintomatologia, alla quale ogni psichiatria di matrice naturalistica – scrive Borgna – sottopone quella sconvolgente vicenda umana che è il delirio, si sovrappone (così) la riscoperta degli inauditi contenuti nascosti all’interno dei deliri, di quelli schizofrenici emblematicamente ma anche di quelli depressivi». In Bruno Callieri – prosegue Borgna – «ogni area tematica psicopatologica e clinica è […] scandagliata dalle [sue] antenne rabdomantiche […] che si avvicina ad essa con il senso acutissimo di ciò che appare, e di ciò che si nasconde, in ciascuna area tematica, decifrabile solo quando la si osservi, e la si interpreti, nei diversi aspetti strutturali che la compongono».(p. 80).
In un quarto capitoletto Borgna evidenzia le indubbie correlazioni esistenti fra psichiatria e filosofia che Callieri ha sempre sostenuto con grande vigore nel tentativo di sollevare – pur nel sacro rispetto delle discipline patologiche del corpo somatico, seguite finanche nell’anfiteatro settorio dei suoi numerosi amici e colleghi medico-legali – la pesante ipoteca della neuroanatomia, della somatologia e della neurobiologia che da lungo tempo ha cosificato la psichiatria. Il suo discorso – scrive Borgna – « …ha sempre più approfondito il tema della reciprocità, della intersoggettività, come fondazione ultima dell’esistenza: di quella “normale” e di quella patologica». In tal modo, conclude Borgna, «… è stata la psichiatria fenomenologica a riconsegnare un senso alla follia: riscoprendo in essa una dimensione radicalmente umana e interpersonale; e questo è stato uno dei Leitmotiv del discorso di Bruno Callieri». (p. 83).
La cifra ermeneutica – che Bruno Callieri ha ripetutamente sviscerato nelle sue attente riflessioni psicopatologiche – è commentata da Eugenio Borgna in un quinto paragrafo, per mettere in evidenza che le cosiddette filosofie del dialogo «… hanno radicalmente trasformato, e umanizzato […] la ragione d’essere della filosofia moderna».
E si badi bene che il fare psichiatria di Bruno Callieri, e soprattutto il viverla come pratica quotidiana è «sfida e […] scommessa esistenziali, […] vocazione (direi) ad intravedere – sono parole di Borgna – le aree dell’indicibile e del mistero che si nascondono nella follia [la quale] non può non essere correlata con il modo di essere, con il modo di essere-nel-mondo, dello psichiatra che osserva e che cura, che ascolta e che interpreta, nel dialogo infinito con il vivere e il morire» (p. 90).
Gli ultimi due paragrafi di Borgna (il sesto e il settimo) in onore di Callieri, non potevano non essere dedicati alla parola e all’amicizia, pilastri di fondazione, indispensabili e strategici, nella costituzione mondana del nostro essere-con, -per, al fine di comprendere tanto l’esistenza del “sano” quanto quella del “malato”. Per esprimere il primo dei due concetti richiama un famoso aforisma di Heidegger: Il linguaggio è la casa dell’essere; e questa celebre immagine heideggeriana si può applicare fino in fondo al linguaggio, e alla scrittura, di Bruno Callieri. Non solo, ma conclude che la psichiatria fenomenologica «… indipendentemente dall’essere fenomenologia soggettiva nel senso di Karl Jaspers o dall’essere fenomenologia eidetica nel senso di Ludwig Binswanger, non si allontana mai dalla dimensione umana ed esistenziale della follia, e non si isola mai nei labirinti della terapia» (p. 90).
Quanto all’amicizia allorché «… è sincera e profonda, come ogni cosa essenziale della vita, può essere solo donata, […] ci trasforma nei nostri orizzonti di vita: facendo rinascere in noi l’arcobaleno della speranza che annuncia la scomparsa delle nubi e della oscurità anche nelle stagioni del dolore e della tristezza. L’amicizia ha il significato di un dialogo senza fine che continua anche quando non ci si vede, non ci si incontra, non ci si parla».(p. 91)
 
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Chiude i contribuiti dei “compagni di strada”, dei Weggenosse di Bruno Callieri, un saggio breve ma densissimo di Lorenzo Calvi sulla fenomenologia dell’incontro come luogo di vissuti corporali. L’allievo di Danilo Cargnello (1911-1998), direttore della prestigiosa rivista “Comprendre”, ultimo baluardo della psicopatologia italiana, ammette d’interrogarsi da tempo sullo specifico fenomenologico che si dà nell’esperienza dell’incontro, tema caro a Callieri e più volte da lui sollecitato ad approfondire.
Non necessariamente una riflessione filosofica, precisa subito, ma il sentire spontaneo, semplice, immediato dell’incontrare l’altro. Per parlare della fenomenologia dell’incontro tra vissuti corporali, Calvi sgombera subito il campo da ogni equivoco, con una acribia storico-filologica sul significato del termine “fenomeno”.
In questa operazione di chiarificazione semantica adopera il logos come una sorta di bisturi linguistico, per scollare il leggero foglietto di clivaggio che separa la parola apparenza dalla parola apparizione. Leggendo i primi tre paragrafi del suo saggio vediamo quasi scorrere un’abilissima dissezione anatomica del linguaggio.
La suggestione è di questo tipo, quando afferma che «L’apparenza […] rimanda a qualcosa di meno, l’apparizione a qualcosa di più. L’apparenza allude ad una mancanza, l’apparizione ad un’eccedenza». (p. 94). Perfetto! Si può aggiungere che sullo sfondo c’è il corpo, un corpo anatomico, ma vigile in senso hyletica (33) – si vede, si sente, si percepisce come corpo materico afferentato, appena, di quel tanto da tenerlo vigile (a partire da Körper) – ma si intuisce chiaramente che esso diviene ente, presenza umana vitale, corpo vissuto (a partire da Leib), solo attraverso l’epifania di un incontro con un altro corpo (la relazione interpersonale).
Detto altrimenti, Calvi scrive che, in buona sostanza, «... un fenomeno è un ente “essenziale”, nel senso che in esso s’incarna un’essenza, che non è né meno grande né più grande di esso». Poi, citando Platone afferma «che un ente, qualsiasi ente, si presenta come fenomeno quando è portatore d’un senso sul quale l’ermeneutica può esercitarsi», per l’appunto sulla platonica pianura della verità.
Senza scomodare il livello ontologico, sul piano esistenziale, Calvi paragona «l’avvento del fenomeno […] al ricevimento d’un dono, […] di qualcosa che non si deve pagare né con lo studio né con il lavoro né con qualsiasi tipo di fatica, ma che si riceve gratuitamente purché ci si mantenga in un atteggiamento d’attesa, d’attenzione, di fiducia e di pazienza».
In particolare, rileva che nelle professioni di aiuto, dunque anche nell’esercizio delle discipline mediche e psicologiche, tale dono «si manifesta come accoglienza, partecipazione, comprensione». Attitudini psicologiche di questo tipo dovrebbero essere insite, ma forse anche acquisite in via propedeutica a «chi si accinge a praticare la cura».
L’incontro, la fenomenologia della relazione con l’altro, soprattutto nel contesto della cura, viene giocato da Calvi tra il pensiero di Ferdinando Barison (1906-1995) e quello di Callieri, che invita ad essere insieme-con-l’altro (mit einender sein) e dunque accettare la sfida di essere coinvolto. Il corpo, la corporeità è strategicamente centrale per entrambi. Entrambi hanno avuto esperienze manicomiali – il primo alla “Brusegana” di Padova, il secondo alla “Martellona” di Tivoli com’è gia stato detto – ed entrambi hanno osservato e studiato la relazione tra infermieri e malati mentali gravissimi, «questi ultimi quasi sempre privi di linguaggio orale ed anche di gestualità».
Ciò che stupisce nelle osservazioni di scambio comunicativo senza parola tra aiutanti e aiutati, quello strano modo di solidarizzare nei manicomi, ossia quel prendere in situazioni disperate il dolore mentale fisicamente, aggredirlo, sminuzzarlo e cercare di assumerne un pezzetto ciascuno, per renderlo meno atroce, che rileva Barison, scorrere tra malati e infermieri in momenti sublimi – scrive Calvi – è il dato «ch’egli non accenni ad alcun ruolo della corporalità in rapporti come questi, ma che li riconduca romanticamente alla virtualità comunicativa del silenzio». E conclude l’osservazione dandone anche una raffinata e convincente spiegazione: «… Barison non è approdato alla fenomenologia husserliana, di modo che la sua intuizione, che altro non può essere se non eidetica, non è valorizzata da un’adeguata presa di coscienza».
Callieri è difforme da Barison – scrive per contro Calvi – poiché sviluppa le sue riflessioni  proprio nel cogliere «il corpo come intermediario dell’intersoggettività», in questa intima relazione di assistenza diretta al malato. Ma Calvi si spinge oltre, affermando che Callieri potrebbe anche convergere sulla sua «audace» conclusione se accettasse di «annettere alla fenomenologia d’ispirazione husserliana la nozione heideggeriana di “essere-con-l’altro” e quella, d’ispirazione heideggeriana, di “verità ermeneutica”, aguzzando lo sguardo fino a vedere eideticamente le forme dell’intercorporeità, che si celano in esse».
L’accudimento di malati psichici molto regrediti ci parla di prossimità fisica, di intimità, di con-divisione di spazi vicinissimi, cum-tactus di spazi vitali psicologici, lo spazio fidato, spesso anche per tempi non brevi, dove il dolore quasi passa per osmosi da un corpo all’altro. Situazione delicatissima, dov’è necessario il massimo rispetto perché è in gioco la speranza e la fiducia. Situazione complicata dove ci può stare anche un abbraccio forte per impedire l’irreparabile, ma anche lo scontro fisico, la “colluttazione”  (non la violenza).
Senza dubbio si opera ai piani bassi freudiani - su una pianura come dice Calvi «Nel lavoro del “buon infermiere”, siamo proprio in pianura, siamo “terra terra”, con tutto quello di sano e di giusto che risuona in questa espressione». – con la corporeità somatica di pazienti psichiatrici che hanno la fisicità li e la mente altrove. È proprio su questo livello fisico primitivo che avviene l’intermediazione dell’intersoggettività, che si consuma la transazione terapeutica, che si negozia la relazione curato-curante (sia esso infermiere, operatore tecnico addetto alla persona, medico, assistente sociale, psicologo o qualsiasi altro soggetto partecipe di un progetto di trattamento della psicosi grave e cronica).
Calvi osserva che «È allo sguardo eidetico che è dato di scoprire il buon infermiere” perché molti di loro compiono i suoi stessi gesti, ma non affrontano insieme spazio e tempo e corpo in quell’armonia, paragonabile solamente ad una danza, che rendono il suo rapporto con il malato un evento trascendentale e non una prestazione semplicemente funzionale, empirica». In fondo, questa figura coreutica disarmonica dove manca l’amalgama di tempo di spazio e di motricità, questo goffo viluppo di corpi non sarà una danza, ma diviene lenimento, vicinanza, maternage. Se non proprio cura, almeno percezione di me da parte dell’altro.
Un corpo a corpo appunto, quello dell’infermiere che si prende cura del paziente grave. «L’intimità costruita tra lui e il malato – scrive Calvi – è visibile come un “corpo a corpo”, una danza appunto, un modello di misura, d’accordo e di equilibrio tra la richiesta e la risposta. Equilibrio non raramente rotto da improvvidi interventi del medico» (p. 96). Si tratta di un equilibrio fragile che può rompersi, lui dice, ad opera del medico, ma si può ragionevolmente sostenere – almeno così penso io – anche ad opera di qualsiasi soggetto avente causa, all’interno di un progetto e di una relazione di cura.
Insomma, nella relazione terapeutica, non funzionano, e si può concordare con Calvi, né la psicofarmacologia molto aggressiva, in fondo frettolosa e fuggevole, né la freddezza distaccata che spesso (al fondo) è figlia  della paura del contatto con lo psicotico e che in definitiva rende il terapeuta fuggitivo dalla relazione terapeutica. È appena sufficiente osservare il terapeuta tra il calore, la freddezza e il coinvolgimento totale saprà dosare la sua emotività e trovare strategia più  idonea al buon risultato del trattamento.
Si ha un bel dire della psiche, ma nulla, a ben pensare, si appalesa di più somatico che nella pratica della psichiatria clinica. Una dimensione che ingloba tutti: infermieri e medici, e Lorenzo Cavi fa benissimo a sottolinearlo, invitando a riflettere su: «… quanti, ineludibili, richiami alla fisicità si faccia riferimento a proposito del suo lavoro [nella clinica psichiatrica]… disvelare, spogliare, denudare, penetrare: azioni metaforiche, che dichiarano una vera e propria contiguità con la sfera sessuale, perché sembrano rimandare direttamente a questa, mentre la situazione cui esse alludono è quel medesimo “corpo a corpo”, la danza, che si è vista osservando il fare dell’infermiere».
Parole che io posso confermare punto per punto, avendo lavorato (moltissimi anni fa, da specializzando, per arrotondare) come medico di guardia, nelle cosiddette “Case di cura” o “Ville di salute” mentale (naturalmente), e private (ovviamente). Vi trascorrevo non meno di ventiquattr’ore, a volte di più, un paio di volte alla settimana, se non tre, senza mai uscire. Fortunatamente non erano grandi strutture (34).
Confesso di aver fatto un’eccellente gavetta, addirittura molto più utile delle guardie alla “Neuro” dell’Università di Roma e perfino di quelle al Santa Maria della Pietà, di aver effettuato infinite intermediazioni corporali interagendo coi pazienti, con gli infermieri, con tutto il personale della clinica disponibile al momento del mio turno di guardia. Confesso anche di essermi divertito perché avevo escogitato che l’intermediazione corporea e dunque la relazione intersoggettiva (comunitaria e comunque terapeutica), dovesse essere giocata all’interno di una situazione ludica cui tutti erano invitati a partecipare (35). Era l’inizio degli anni Sessanta, a Roma tirava aria di Olimpiadi, altri tempi, ma io ero determinato e incrollabilmente fiducioso che per abbattere i muri costruiti sui corpi dalla psicosi, bisognasse spararci dentro col bazooka dello slancio vitale.
Calvi si rammarica che oggigiorno «…a molti operatori, psichiatrici e psicoterapeutici, manchino quelle esperienze di natura corporale che sono state descritte sin qui come paradigmatiche» – une manque, sottolinea, che a colui che «…  ha fatto studi di psicologia e non di medicina manca anche la semplice esperienza della “visita”. Ma la danza è un’esperienza alla portata di tutti» – e conclude a proposito dello sforzo profuso in questo suo presente saggio, che un gioco (la danza è anche un gioco, oltre che un’arte), può anche divenire «un "esperimento naturale”(agito o immaginato che sia), facendo epoché delle sue componenti mondane ed erotiche, arrivando così ad assumere quell’atteggiamento fenomenologico,  intrinsecamente ironico, che solo può permettere di  comprendere queste pagine» (p. 98).
Si giunge alla fine di questo saggio – almeno questa è stata la mia impressione – con un vivo senso di gratitudine per il “dono” che, Lorenzo Calvi, avendolo pensato per Bruno Callieri, ha finito, in fondo, per farlo anche a tutti quelli che amano e apprezzano la psicopatologia. La particolarità di questo “dono” – une forme primitive de l’échange come direbbe Marcel Mauss, dunque pre-razionale, ante-categoriale – consiste non tanto nella sua struttura fenomenologica (pur dotata di notevole spessore) ma piuttosto nella tematica che ci fornisce in termini concreti (sulla pianura platonica, terra terra come ha detto modestamente l’autore) nuovo materiale per dibattere l’inesausta, infinita, aporetica dualità del corpo-che-ho e del corpo-che-sono, del corpo anatomico e del corpo vissuto, del Körper e del Leib, applicato alla clinica psichiatrica e alla riflessione psicopatologica.
Tutto questo ragionare mi suscita un forte desiderio di partecipare anch’io alla festa dei doni a Bruno Callieri. Non solo al maestro, ma trascinato dalle suggestioni di Lorenzo Calvi, donare anche a lui, ed eventualmente a tutti coloro che vorranno apprezzarlo, un piccolo contributo personale aggiunto come postilla nel presente saggio di recensione, sul tema della corporeità nella dimensione della psichiatria clinica.     
Ricordo una giornata di primavera del 1972 a Cagliari. Raffaello Vizioli, allora direttore della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali (come si sarebbero chiamate queste cattedre fino al divorzio della neurologia dalla psichiatria), aveva invitato Silvano Arieti di passaggio in Sardegna e Aldo Giannini dall’analoga Clinica di Sassari, per una conferenza sulla psicoterapia agli schizofrenici. Poi la discussione era scivolata sui disturbi alimentari in età adolescenziale. Giannini, della scuola pisana di Giuseppe Pintus, si era conquistato una solida fama di psichiatra d’impostazione antropofenomenologica con una mirabile relazione sui tratti prepsicotica (36). Quella, dunque, fu l’occasione per una splendida lezione sulla corporeità da Cargnello a Merleau-Ponty, da Ricoeur a Sartre. Evocò la suggestiva immagine del fantasma del corpo grasso che terrorizzava la figlia anoressica, di una madre oblativa e di un padre assente.
Ci fu un dopo-conferenza, un simposio serale, in una fumosa trattoria, passato il Ponte della Scafa sulla strada per Sarroch ai bordi dello stagno di Santa Gilla, per mangiare, bottarga, vendrame, muggine, mumungione e altre prelibatezze alla griglia annaffiate tirando il collo a qualche bottiglia di Vermentino.
Formidabile l’epifania improvvisa di un Aldo Giannini rumoroso commensale, cordiale, arguto. Non c’era più il professore compassato, ma una persona estroversa, faconda, vitalissima. Fabulatore fascinoso, abituato alla gruppalità di squadra, si spendeva generosamente (e con raffinata competenza) tanto sugli argomenti di psicopatologia fenomenologica, quanto sui modi di arrostire qualsiasi tipo di pesce, a suo avviso la maniera ideale per apprezzarne tutte le qualità. Seppi poi, anni dopo, da Giuseppe Maffei, che da ragazzo giocava centravanti nel Rosignano-Solvey in serie C. Era  bravissimo, doveva andare al Genoa come calciatore professionista, ma non se ne fece nulla per l’opposizione del padre.
Durante la cena ero seduto accanto a lui e due frasi, messe qua e là nella serata, mi sono rimaste scolpite nella memoria. Parole dirette, brusche, pronunciate con naturalezza vernacolare, come due schioppettate.  – «Dimmi un po’, tu parli dei matti, o ci parli anche, con loro?» – e l’altra – «Ma te li tocchi i malati o c’hai paura?» – Capi subito che voleva stanarmi. No! – risposi prontamente – paura no! E li tocco pure, professore! Vengo dalla medicina interna, io, e so anche delimitare un’aia cardiaca, all’occorrenza –
Lui sorrideva sornione e compiaciuto (seppi poi che la medicina interna la conosceva benissimo essendo cresciuto alla scuola di Gabriele Monasterio). – «Eh, non sempre si possono toccare i malati! Vanno osservati, studiati, guardati, ascoltati, d’acchito, e poi sempre, ad ogni incontro, utilizzando soprattutto il non verbale. Pensa che guaio faresti col catatonico!»
Qui era tornato il professore, il maestro. Le sue frasi erano lapidarie, esemplari, efficaci. Tese ad esaminare la stoffa di quel giovane Collega che gli poneva tante domande, facendosi freddare sul piatto i gamberoni arrostiti allo spiedo. Voleva testare, da clinico astuto e da “conoscitore delle aree di rigore”, quanto fosse attenta la mia “marcatura”. Fuor di metafora, voleva sapere se fosse autentica, la mia “vocazione” a fare lo psichiatra.
Fu così che venne fuori uno dei suoi famosi concetti della corporeità: “lo spazio fidato”, “lo spazio vitale psicologico”, “lo spazio vissuto”, quell’involucro che io-ho e che io-sono, quella barriera che sigilla il mio sangue e mi rende presenza mondana unica, irripetibile. La pelle, la mia pelle e il sottile spazio pneumatico che la sovrasta, la circonda e mi protegge rendendomi sicuro. Quel limitare intimo che io, e solo io, posso decidere di aprire alla con-divisione dell’amore, dell’amicizia, e forse, talvolta (eccezionalmente) della presenza psicotica in crisi, per tentare di trattenerla dall’abisso della smondanizzazione. Fu così che appresi da Aldo Giannini, quando e con quale malato si potesse (anzi si dovesse) superare questa zona interdetta e con quale altro mai, in nessun caso, perché il gesto sarebbe stato vissuto come violazione intollerabile, minaccia intrusiva e ostile.
Una lezione indimenticabile – anche di vita – tra fumo, pesce arrosto e bottiglie di Vermentino, in una trattoria, passato il Ponte della Scafa, sulla strada per Sarroch ai bordi dello stagno di Santa Gilla, una serata di primavera del 1972. Non lo rividi più, ma seguii il dramma doloroso della sua afasia che due anni dopo lo privò della parola fino alla morte avvenuta nel 1981 a 54 anni.
 
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Gilberto Di Petta, infine, tira le fila, riordina, chiosa, dibatte la difficile e appassionante materia della psicopatologia e della terapia antropofenomenologicamente orientate. Ne è padrone assoluto, punto di riferimento autorevole per tutti i colleghi, appassionato e – ora, con la direzione della Rivista “Comprendre”, trasmessagli dal fondatore Calvi – vigorosamente maturo (ancorché giovane sia l’età sua). La sua opera redazionale, veramente preziosa, reca evidente vantaggio al testo, in cui affiora l’appropriata concertazione della cura di un libro di saperi preziosi intorno alla psiche umana. Saperi che costituiscono il distillato di una lunga riflessione di personaggi straordinari della psicopatologia fenomenologica italiana.
Weggenossen, compagni di strada, come ho indicato nel titolo del presente saggio, per ricordare la figura di Bruno Callieri a sei anni dalla morte. Egli ha continuato una tradizione mitteleuropea, che in Italia, dopo Cargnello, Giovanni Enrico Morselli, cui aggiungerei Barison (la prima generazione), ha visto impegnati, Borgna, Basaglia, Calvi, Ballerini (la seconda generazione), volendo limitarsi agli psicopatologi d’impostazione fenomenologica.
Ma già dai contenuti del libro e da chi lo ha curato, si vede nitidamente profilarsi all’orizzonte, una terza generazione di studiosi della disciplina. Una rinnovata e prolifica generazione di psicopatologi – qui Gilberto si propone nelle vesti di corifeo dei giovani maturi – pronta a raccogliere il testimone della esogamicità nuziale del pensiero callieriana attraverso la multiformità dei contributi e a rilanciare una psicopatologia rinnovata con il maggior apporto dalle altre discipline umane (quello della filosofia in primis), nella prospettiva di un futuro multidisciplinare.
A chiusura dello scrigno che racchiude, come cinque perle, i saggi di Bruno Callieri e dei suoi quattro compagni di strada, troviamo il vigoroso sigillo di Gilberto Di Petta sotto forma di postfazione. Ben cinquantotto pagine dense e ispirate, come peraltro le quattordici fervorose della nota introduttiva. Fervore e ispirazione, sono ormai una costante stilistica di ogni suo testo. Chi conosce Gilberto, lo ha ascoltato, lo ha letto, non può che riconoscergli una forza contagiosa, una determinazione coraggiosa e senza false illusioni.
La Prefazione (Bruno Callieri: La “via d’uscita” dal Novecento)  e la Postfazione del libro (L’”ultima lezione”: la psicopatologia come clinica della libertà), sono la testimonianza affettuosa di un allievo, premuroso e riconoscente, che abbraccia “saperi” particolari intorno alla follia, trasmessi da maestri consacrati della psicopatologia fenomenologica e della psichiatria “umana”. Più che “saperi” sulla follia, più che “tecniche per curarla” – e questo ce lo spiega benissimo il nostro Gilberto – si tratta di scelte di vita, di incontri (fortuiti), di esperienze nel mondo della vita, di protensioni alla verità e al rispetto per l’altrui presenza.
Un cammino difficile – attraverso sentieri, percorsi scomodi, dalle sponde insidiose, dure, abrasive – quello dell’approccio alla follia. E ciò, tanto che si proceda sulle vie convenzionali dell’apprendimento di atti medici canonici, quanto che si giunga infine al momento di applicare in concreto alla persona malata una condotta deontologica coerente e rispettosa della relazione umana. “Sentieri, percorsi scomodi”, è stato già qui sottolineato più volte, quelli della psichiatria clinica, ma sostanzialmente riconducibili ad uno: quello che risulti più prossimo alla tua coscienza, dando per scontata la serietà della scienza appresa, dei maestri che te l’hanno trasmessa, l’impegno profuso nella tua formazione.
«La via non c’è come diceva Machado – gli ricordava Callieri a Napoli negli anni Novanta, nell’antica pizzeria di Port’Alba (pag. 22 e passim) – la via te la devi fare solo andando».
Gilberto Di Petta, traccia un arco storico della “psichiatria” (anche asilare e dell’antipsichiatria che tentò di abbatterla) dell’ultimo secolo, con uno stile narrativo a metà strada tra la storiografia di Erodoto e la narrativa di Chatwin, afflati picareschi alla Machado e librazioni  pindariche alla Hölderlin. Prosa tagliente, quella di Gilberto, a tratti ruvida come quella di Céline (anch’egli medico problematico), a tratti imperativa come quella di Kant, ieratica e vagamente profetica come quella di Nietzsche, mai consolatoria, ma fiduciosa come quella di Callieri, sempre inquieta e critica come quella della Arendt, lucida e dilemmatica come quella di Sartre, non eroica ma coraggiosamente umana come quella di Cioran, eticamente responsabile come quella di Kierkegaard, Fralkl e Miguel de Unamuno.
Se la prosa è ruvida, incalzante, le sue aporie sono radicali. «Per dove continua la strada dell’alienista e dell’alienato», si chiede (e ci domanda) brutalmente Di Petta, after the fall, ossia dopo la caduta dei manicomi che nell’età classica avevano custodito, sorvegliato e punito, foucauldianamente, la follia?
Come e dove si fa, questa psichiatria senza manicomi? Oggi, poi, che i due soggetti dell’alienistica «si trovano ad essere, entrambi, sopravvissuti all’epoca che li ha generati e costituiti?». E subito dopo si pone (e ci pone) l’interrogativo se valga ancora la pena lottare per coltivare e difendere «la psicopatologia di matrice fenomenologica, quella a cui un uomo come Bruno Callieri ha dedicato tutta la sua esperienza di vita». Se, questa disciplina, possa ancora «costituire insieme la bussola e la zattera della navigazione a vista che entrambi, psicopatologo e paziente, si trovano oggi, malgrado se stessi, costretti e fare?».
Cercando di trovare una risposta, Di Petta afferma che «… In un certo senso la follia rappresenta ancora, a tutt’oggi, forse la più umana delle malattie». Non si può certo dargli torto. Eh si! Perché non proprio tutte le malattie dell’uomo, in specie quelle cosiddette “mentali” – caratterizzate, cioè, da «quella quidditas humana che sfugge, che eccede, che trascende completamente il piano, meramente biologico, degli altri organismi viventi» – sono ritenute umane. Strano compendio di normative forti, saperi incerti e pratiche coercitive, la psichiatria! Una disciplina ben contraddittoria, la psichiatria, «al tempo stesso, lo scandalo epistemologico e l’oracolo delfico della medicina», scrive Di Petta (p. 101, corsivo mio) che, facendo eco a Callieri, ne coglie l’acuta natura ossimorica di cui è impastata e le convulsioni che periodicamente la epilettizzano.
Dalla narrazione della sua esperienza istituzionale si evince che Gilberto Di Petta ha lasciato la psichiatria clinica militante per i temi della vulnerabilità psicosica, le incertezze della doppia diagnosi, gli incontri estremi nel mondo delle dipendenze patologiche e in quello delle esperienze tossicomaniche in particolare.
 Forse la sua affinità elettiva con Giovanni Enrico Morselli (il grande maestro di Eugenio Borgna e di Gustavo Gamna)  per le sue sperimentazioni ardite con la mescalina e soprattutto per l’impegno totale con pazienti psicotici schizofrenici. “Il caso Elena”, per esempio, resta una narrazione di psicopatologia fenomenologica come raramente è dato riscontare nella letteratura italiana; degna, per profondità interrelazionale e partecipazione empatica, della migliore analitica binswangeriana e minkowskiana (37). Sta di fatto che, Gilberto, non voleva rinunciare (e non ha rinunciato) ad un briciolo della propria libertà professionale, né tanto meno accettare di farsi notaio dell’esclusione psichiatrica. Tutto è spiegato nella postfazione quando racconta la sua scelta sofferta, ma radicale e definitiva di libertà.
È la sua quart’ultima notte di guardia psichiatrica, e s’imbatte, poco dopo la mezzanotte, in Mario un paziente che non conosce, ricoverato il giorno precedente (domenica), di cui si hanno scarse notizie anamnestiche, che non intende dormire, ma vuole vagare per il reparto e si dichiara un re romano di cui è un omonimo. Non intende ragione. È chiuso alla relazione, al dialogo, rifiuta qualsiasi tentativo di approccio. «Avverto, in quel momento tutto lo scacco dell’incontro, la mia impotenza, il mio essere irrilevante – la rievocazione è nitidissima – sul piano personale rispetto alla preponderanza del sistema nel quale entrambi siamo inscritti», annota ancora Di Petta «… Ormai mi è chiaro che il suo atteggiamento negativistico è animato da ostilità e paura, e da uno stato di grave allarme interno». Deve farlo sedare. «Non c’è violenza fisica, Mario è esile e i tre infermieri lo tengono con fermezza e dolcezza, ma c’è violenza morale ed io ne sono corresponsabile» - scrive Di Petta - «… stanotte mio malgrado sono l’anello terminale della catena sopraffacente della psichiatria, io sono l’ultimo effettore del sistema contenitivo.
Non ho potuto fare altro per questo ragazzo che farlo dormire». E conclude «… Il mio tentativo di approccio dialogico è stato vanificato dal contesto, dal ricovero forzato, dalla sua totale perdita di fiducia nei medici. Per me l’avrei fatto vagare tutta la notte, a casa, in città, per la campagna, dove gli pareva, rincorrendo le ombre della sua genealogia. Comprendo che davvero sono arrivato ad un punto tale che non posso più fare lo psichiatra inserito nella struttura sanitaria, io non posso e non voglio più coercire nessuno, per me ognuno è libero di sentirsi chi vuole e di predicare il suo messaggio per il mondo». Parole di una sincerità perfino brutale.
Il saggio di Gilberto, così come l’introduzione, si legge d’un fiato e se ne raccomanda la lettura, parola per parola (sottolineandone i pezzi salienti) come ho fatto io. «Si propone di fare il ‘punto nave’ – scrive Gilberto – su questa rotta dove, per forza di cose si naviga ‘a vista’». La navigazione a vista, per l’appunto, lo scandaglio a mano, i punti di repere, i segnali della costa, le luci. Di questo antichissimo saper andar per mare (sensoriale, primordiale, mitologico, tradizionale, povero di strumentazione, in origine, ma ricco di esperienza di mare) dobbiamo riappropriarci: quello che guidò Odisseo e i suoi compagni del ritorno, in fondo una sola lunga andata, come suggestivamente scrive Gilberto. È questo l’impegno, questa la nuova empiria a cui sono richiamati i nuovi alienisti finora condotti fuori strada da tecnicismi biomeccanici deludenti (troppo fideistici) assolutamente inadeguati a leggere l’esistenza dell’umano, il Dasein.
Si è confortati nello scoprire che, malgrado tutto, sembra ancora vitale l’orizzonte delle attese umane, dove si riescono a scorgere ampie prospettive e ulteriori sviluppi che si aprono alla riflessione psicopatologica. Una psicopatologia in fieri – ci dice Di Petta – che deborda (del tutto legittimamente) dalla clinica, visti i tempi in cui si tenta di mistificare per patologico ciò che è fraudolento, mentre si ignora la vera patologia psichiatrica (spesso abbandonata), o peggio si respinge cinicamente ai margini sociali qualsivoglia “diversità” comunque originatasi.
Rincuora sapere che Gilberto è in una buona compagnia di studiosi di psicopatologia fenomenologica della “terza generazione”. Li leggo, ma spesso sono preso dal desiderio di contarli e di conoscerli direttamente, come quasi quindici anni fa feci con un gruppo di valorosi e determinati giovani etnopsichiatri italiani (38), ma il tempo passa anche per me.
Un manipolo, un drappello, un plotone, un gruppo elitario? Non è il numero che conta, naturalmente. Quello che so è che sono autorevoli, solerti, combattivi, competenti, straordinariamente curiosi e molto prolifici sotto il profilo scientifico. Ora, da alcuni anni, efficacemente presenti nella lodevole impresa psicoterapeutica di Figline-Valdarno, non analiticamente orientata. Mi vien da pensare che ai tempi di Cargnello e padre Gemelli una “psicoterapia fenomenologica” era sogguardata quasi con pudicizia rispetto alla ingombrante onnipresenza e persistenza della “libido” freudiana.
Di Petta, oltre a parlarmene, li cita abbondantemente codesti fenomenologi-terapeuti – Rossi-Monti, Stanghellini, Dalle Luche, Leoni, Colavero, A. Ballerini, tanto per fare qualche nome – li richiama spesso, nei suoi editoriali, dialoga con loro e si confronta. Non solo i colleghi della disciplina specifica, sono gli interlocutori privilegiati di Gilberto, ma anche i pazienti (mentali) che accettano di affiancarglisi come compagni di strada (Weggenossen) lungo il sentiero, il percorso (anche) terapeutico.
Lo sguardo è fisso al Maestro, da cui ha preso origine la sua passione, il suo sapere, il suo radicale desiderio di libertà, mutuati direttamente da Bruno Callieri, tanto che sente di dover dichiarare «… Le idee e i vissuti espressi in questo contributo dagli Autori suoi compagni di strada e da me, intenzionano soprattutto la speranza di poter rinverdire, per chi ci segue, una traccia. Una lunga traccia».
È difficile, tuttavia, camminare liberi e spediti, senza compromessi in questa disciplina. «Finché la psichiatria rimane psichiatria – scrive Di Petta – […] branca del sapere istituzionale, non potrà mai procurare quella libertà […] possibile, forse, solo al di fuori dell’istituzione». Ma la tipicità della psichiatria è quella di essere “ambigua”, come giustamente ebbe a dire Cargnello, per la natura stessa dei temi che la investono o che essa è costretta ad affrontare. Questo perché mentre da un lato lo psichiatra «Deve muoversi, come pratico e come studioso, su due piani diversi» – scriveva Cargnello (39) circa quarant’anni fa – dall’altro la psichiatria «costringe chi la esercita, ad oscillare tra un aver-qualcosa-di-fronte e un essere-con-qualcuno».
Diverso è, almeno per Di Petta, il discorso concernente la psicopatologia che essendo «…cresciuta prima accanto, poi dentro e da ora, probabilmente fuori dalla psichiatria (fuori […] dal suo irretimento nosografico), si propone come percorso della libertà, perché si costituisce come fenomenologia di questi vissuti umani che testimoniano nella loro significatività di esperienze umane (al limite anche deliranti) la radicale trascendenza dell’esistenza umana verso la propria libertà.» (p. 128-9).
Se Bruno Callieri «è la via d’uscita dal Novecento», come scrive Gilberto Di Petta rispondendosi alla domanda «“Che cos’è il Novecento?” […] “cosa è stato il Novecento psichiatrico?”», allora io penso che Jaspers, Binswanger e Minkowski, lo siano stati dall’Ottocento. Ma, sul filo della continuità psicopatologica, sono autorizzato a pensare che la nuova pattuglia di psicopatologi, di cui Di Petta fa parte, è la porta d’entrata al Duemila.
Non è il solo, Gilberto, fortunatamente. La rivista “Comprendre” ha nella redazione e nei lavori che ospita, un nutrito manipolo di valentissimi cultori della psicopatologia fenomenologica, anche e soprattutto con inclinazioni dichiaratamente terapeutiche. La cosiddetta “Scuola di Firenze”, ha cresciuto attorno ad Arnaldo Ballerini, uomini prestigiosi che alimentano una terza generazione di studiosi provetti. In questo panorama, Figline Valdarno è ormai da tempo una realtà psicopatologica rilevante. Tutti i mostri sacri viventi che vi convergono periodicamente, col loro insegnamento, si saldano all’entusiasmo, alla forza ed alla competenza delle nuove leve, già sicuri punti di riferimento. Il movimento della psicopatologia fenomenologica italiana ha una autorevolissima continuazione, è pronta alle nuove sfide della follia dell’uomo, è già «transito verso il futuro».
 
 
Note.
1. Si veda nota 10 del testo Un ricordo di Lorenzo Calvi (1930-2017). Lo psichiatra neurologo che in Valtellina imparava ad entrare dentro i sassi di Flaubert con l’aiuto di Cargnello comparso sulla rivista telematica pol.it di Francesco Bollorino.
2.  Castel Madama, detto anche il “paese della regina”, antico centro su un’altura dei Monti tiburtini (430 m.), affacciato alla confluenza del torrente Empiglione sulla sinistra dell’Aniene, è sede di un castello fatto costruire dagli Orsini. La “Madama” o “Regina”, cui si allude, è: Margarita d’Austria, o di Parma (1522-1586), figlia naturale di Carlo V. Ancor bambina è data in sposa ad Alessandro de’ Medici, dall’Imperatore, per farsi perdonare dal papa Clemente VII il sacco di Roma” del 1527. Ebbe grande influenza nelle vicende politiche del cinquecento europeo (e particolarmente del centro Italia). Finissima politica, dotata di lungimiranza amministrativa, abile nel concludere negoziati difficili, saggia ed equanime nell’amministrare la giustizia, fu benvoluta e rispettata. Non era facile, in un’epoca burrascosa, caratterizzata da tradimenti, assassini, guerre politiche, guerre di religione, nomine di antipapi, cattività di papi e saccheggi di sedi papali. In frangenti storici che incendiarono l’Europa, la figlia dell’imperatore del Sacro Romano Impero si rivelò elemento fondamentale nella strategie delle alleanze. Le famiglie di ben due papi – Clemente VII, nato Giulio Zanobi da Giuliano de’Medici (Firenze, 1478-1534 Roma) e Paolo III nato Alessandro Farnese (Canino 1468-1549 Roma) – s’imparentarono con Margherita, legando al papato anche la casata degli Asburgo.
3. Notizie sufficientemente attendibili sull’odierno Castel Madama si hanno all’incirca dalla metà dell’anno Mille, epoca in cui il luogo risulta appartenere ai monaci sublacensi.  Nel Duecento il territorio fu concesso agli Orsini da Celestino II e questa famiglia ne mantenne la proprietà fino al 1520  quando  fu ereditato dalla famiglia dei Medici.  Nel 1538 Margherita d'Austria, vedova di Alessandro de' Medici, ereditò dal defunto marito il possesso del paese,  che  mutò  il  nome  in  Castrum  Sancti  Angeli  et Madamae. Alla sua morte, i suoi beni, incluso Castel Madama, passarono  ai  Farnese,  poi,  nel  1636  furono  ceduti  al Marchese  Alessandro  Pallavicino   e  successivamente  al  marchese  Tiberi,  parente  dei  Pallavicino.
4. Codesta duchessa di Parma, fiamminga di nascita, ma centro-italiana di residenza, di governo e di lignaggio, ha lasciato numerose impronte storiche delle sue fastose residenze, di cui Castel Madama non è neppure la più prestigiosa, e del suo buon governo. Margherita d’Austria amava chiamarsi e farsi chiamare "Madama". Per tale motivo il suo palazzo romano, ereditato dai Medici, si chiama tuttora “Palazzo Madama” e oggi è sede del Senato della Repubblica. Per lo stesso motivo a Monte Mario c'è una fastosa “Villa Madama” dove lei abitò e ogni anno a “Castel Madama” sulle alture dove sotto scorre l’Aniene, vicino Tivoli, a luglio si festeggia in suo onore il Palio di “Madama Margarita”. Anche nel palazzo dove risiedette, all’Aquila: “Palazzo di Madama Margherita” o Palazzo Madama, meglio noto come Palazzo Margherita. Fu fatta appositamente educare col rango di regina, per espressa volontà del padre naturale Carlo V, malgrado la madre, di nome Giovanna Van der Gheynst, fosse figlia di un lavorante di arazzi, da una precettrice d’eccezione: Margherita d'Asburgo (Bruxelles 1480-1530 Malines), figlia di Massimiliano I d'Austria e di Maria di Borgogna, duchessa di Savoia e governatrice dei Paesi Bassi. Colta, raffinata, nostalgica della sofisticata corte fiorentina dei Medici, ancor sedicenne, era appena stata resa vedova da un efferato delitto. Alessandro de’Medici, detto il Moro, (1510-1537), il primo marito di quello che era un matrimonio combinato per ragioni politiche, e i patti venivano stipulati quando i promessi sposi erano bambini, i quali  dovettero aspettare la maggiore età per le nozze, prepotente e stravagante, non visse a lungo. Sposato nel 1536, morì l’anno dopo nel 1537 pugnalato a morte dal cugino Lorenzino de’Medici (1514-1548). Le fu organizzato un matrimonio sfarzoso e per nulla consolatorio, addirittura nella Cappella Sistina, alla presenza del papa (principale patrocinatore degli sponsali). Una duplice strategia politica si celava dietro queste nozze: far decadere ogni controversia tra Papato e Medici, consentire contemporaneamente al Papa Paolo III d‘introdurre il nipote Ottavio Farnese nel novero della élite dei nomi di case regnanti europee cui lei già apparteneva di diritto. Il sodalizio non fu, però, dei più felici, sia per la scarsa comprensione e delicatezza d’animo di Ottavio, sia per il continuo sognare di Margherita della corte medicea. Ottavio Farnese (Valentano, 1524-1586 Piacenza) – figlio di Pier Luigi Farnese e Gerolama Orsini, nipote di Paolo III, secondo duca di Parma e Piacenza, terzo duca di Castro – fu accettato controvoglia come secondo marito, dietro pressione del papa e insistenza di Carlo V, tanto che la sposa si presentò alla cerimonia nuziale platealmente in lutto. Margherita, non lo amava, non lo conosceva e, si dice avesse contrarie preferenze sessuali. Tra l’altro entrambi erano giovanissimi. Nel 1538 lui aveva 15 anni, lei 16, malgrado fosse vedova. Nondimeno, con l’andar del tempo ci fu un accomodamento basato sull’apprezzamento reciproco e sul coraggio di entrambi, che, dopo il rientro di Ottavio ferito dalla spedizione di Algeri (1541), fece posto all’affetto e, la consumazione del matrimonio (fino ad allora rifiutato da ambedue), causò la nascita di due gemelli: Carlo e Alessandro Farnese  (1545-1592). Solo uno sopravvisse, il secondo, e divenne un grande condottiero.
5. Nel panorama delle Collane di “Fenomenologia, Psicopatologia, Psicoterapia”, quella diretta da Bruno Callieri, Arnaldo Ballerini e Gilberto Di Petta, inaugurata nel 2008 dalle Edizioni Universitarie Romane per iniziativa della direttrice Fernanda Conti Pallai, appare tanto più meritevole in un orizzonte che fu rigoglioso, ma che ora appare in notevole affanno.
6. Cugino del famoso poeta Guido quello de “La via del rifugio”, per intenderci.
7. Callieri B. Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. ARCHIVIO DI PSICOLOGIA, NEUROLOGIA E PSICHIATRIA, Anno XVI, 4-5, luglio-ottobre 1955. Callieri B., Semerari A. Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. RASSEGNA DI STUDI PSICHIATRICI, 1954, XLIII, fasc. 1. De Martino E.: La fine del mondo – Contributo alle analisi delle apocalissi culturali. Einaudi, Torino, 1977.
8. Jan Hendrik Vandenberg (o van den Berg) medico olandese nato a Deventer nel 1914 e scomparso nel 2012 a Gorinchem, psichiatra e psicopatologo d’impostazione fenomenologica, inventore della metabletica (scienza del cambiamento), fautore del metodo fenomenologico in psichiatria e delle sue applicazioni nelle psicosi schizofreniche, sostenne la sua Tesi di Dottorato De betekenis van de phaenomenologische of existentiële anthropologie in de psychiatrie nel 1946, sotto la supervisione del Professor Henricus Cornelius Rümke.
9. Bruno Callieri. Percorsi di uno psichiatra.  EUR Edizioni Universitarie Romane, Roma, 1993; Id. Corpo, esistenze, mondi. Per una psicopatologia antropologica. EUR Edizioni Universitarie Romane, Roma, 2007. Entrambi, come si vede, pubblicati dalla EUR; il primo – che segna l’inizio della collaborazione con la dottoressa Fernanda Conti Pallai (titolare della EUR) – è un po’ la summa che raccoglie, per tematizzazioni, buona parte se non quasi tutta l’opera di Callieri, è ormai divenuto un classico punto di riferimento, fonte inesauribile di saperi psicopatologici. Collaborazione, quasi ventennale, quella con la Conti-Pallai, che si propone di riordinare, ripubblicare, promuovere e valorizzare l’intera produzione e la figura di Bruno Callieri.
10. Angela Ales Bello. Essere grezzo e hyletica fenomenologica: l’eredità filosofica di “Il visibile e l’ invisibile”  Memorandum,  14,  62­78, 2008.
11. Quel principio aureo di critica testuale che, dal latino in cui è enunciato per maggior solennità significa letteralmente "la lettura più difficile è la più forte".
12. Spesso il male di vivere ho incontrato. « ...era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'incartocciarsi della foglia / riarsa, era il cavallo stramazzato. » (Eugenio Montale. Ossi di seppia, 1925).
13. La parola greca “hyle” (ΰλη = materia), com’è usata nella corporeità della fenomenologia husserliana, mutuandola dalla tradizione aristotelica, non indica semplicemente la “materia”, nel significato di “sostrato inerte”, ma si riferisce piuttosto ad una flocculazione dei prodotti che hanno afferentato i “sensi interiori e quelli esteriori”. Si potrebbe quasi immaginare che lo stato “elementare” della coscienza sia alimentato dall’ascolto di un concerto sensoriale di luci, suoni, colori, odori, sapori; dall’avvertire un coacervo di cenestesie, motricità, tattilità, equilibrio, deambulazione; dal sentire il contatto con la superficie d’appoggio, del piede sul terreno, col corpo intero immerso nell’acqua nuotando, ma anche dal percepire la vertigine del tuffo, sfiorati dalla brezza. In fondo, cioè, tutto quanto fa sentire vitale l’essere partecipe del mondo in cui fisicamente vive. Qualcosa di più (ma, non molto) oltre il minimo di “allerta”, perché uno stato neurofisiologico di coscienza sia ritenuto “vigile”.
14. L’altro costituente dell’Erlebnis, anch’esso reale, però intenzionale, è la noesis, ossia il presupposto eidetico (eidos, εἶδος, in greco significa "idea", "immagine", "forma"). Secondo Husserl la noesis costituisce l’essenza e conferisce il senso dell’esperienza vissuta, del fenomeno percepito. In termini fenomenologici la componente noetica è l’’essenza di quella hyletica, la “forma”, la “intenziona”, conferisce senso al vissuto, all’oggetto percepito, indipendentemente dal fatto che esso sia fisico o psichico.
15. Le conferenze sono raccolte nel libro curato da Mimma Bresciani Califano. Paradossi e disarmonie nelle scienze e nelle arti. Leo S. Olschki, Firenze, 2008. Gli “Atti” di quelle attività seminariali, si chiudono con una relazione di Arnaldo Ballerini. I paradossi della identità personale.
16. Si discute male, a sproposito e soprattutto, disinformati, si litiga, su identità autoctona e allogena, di chi è dentro e di chi è fuori. Il linguaggio comune tende a formare identità di gruppo. Si veda in proposito: Augusta Forconi. La mala lingua. Dizionario dello 'slang' italiano. I termini e le espressioni gergali, popolari, colloquiali. Sugarco, Milano 1988. Quello giovanile in particolare, è uno strumento identitario, giacché gruppi di giovani sono in grado di inventare gerghi veri e propri (analoghi al verlan francese che in codice significa: à l'envers, ossia "al contrario") termini ed espressioni in prevalenza di uso regionale, per sentirsi parte di un gruppo, di una banda. In questo caso la polarità egoica individuale si scioglie nel gruppo dominato dal cosiddetto “carisma del capo” (solitamente induttore di deliroidi collettivi e di massa: folie à deux, trois, quatre… mille…).
17. Si veda Arnaldo Ballerini. Le declinazioni psicotiche della identità. XI Congresso Nazionale della Società Italiana di Psicopatologia, Roma 21-25 febbraio 2006.
18. Tutto ciò nel senso migliore del problema, perché esiste anche un versante feroce della questione identitaria, quando la vulgata eterodiretta da politiche oscurantiste non decida di riattualizzare e organizzare discriminazioni razziste sulla base di identità non più “ariane”, ma autoctone, padane, nordiste, cristiane e così via, che in radice s’ispirano alla medesima radicalità ottusamente antiumana di negazione dell’altro.
19. pag. 52, i corsivi sono miei.
20. Ibidem.
21. Amleto Atto III, scena I.
22. Arnaldo Ballerini Caduto da una stella. Figure della identità nella psicosi. Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2005.
23. Amleto Atto I, scena 5.
24. Paul Ricoeur. Della interpretazione. Saggio su Freud. Traduzione E. Renzi. Il Saggiatore, Milano, 2002.
25. Muriel Gilbert. L'identité narrative. Une reprise à partir de Freud de la pensée de Ricoeur, Labor et Fides, Genève, Suisse, 2001.
26. Eugenio Borgna. Noi siamo un colloquio. Feltrinelli, Milano, 1999.
27. Si badi bene a non confondere questo Giovanni Enrico Morselli (1900-1973) psichiatra di impostazione fenomenologica direttore del manicomio di Novara, con Enrico Agostino Morselli (Modena 1852-1929 Genova) neuropsichiatria, antropologo naturalista, direttore del manicomio di Macerata, Torino, poi cattedratico all’università di Genova, seguace dell’indirizzo positivistico in filosofia, cultore di metapsichica, neurofisiologo, psichiatra legale, psicologo sperimentale, più anziano del precedente di 48 anni.
28. Kranz Heinrich H. (herausgegeben). Psychopathologie heute. Prof. Dr. med. Dr. phil. Dr. jur.h.c. Kurt Schneider zum 75. Geburtstag gewidmet. Georg Thieme Verlag, Stuttgart, 1962, ivi è contenuto il lavoro di Bruno Callieri. Aspetti psicopatologici-clinici della “Wahnstimmung”, pp. 72-80.
29. Bruno Callieri. Psicopatologia ed esistenzialismo. “Rassegna di studi psichiatrici”, pp. 1132-1148, 1952.
30. Cfr. Bruno Callieri. Psichiatria, in “Percorsi di uno psichiatra”, cit., pag. 242 e passim.
31. Da tutta la sua opera traspare che Bruno Callieri interroga la musica (Albrecht, Boehm, Strawinskj), l’arte figurativa (Munch, Henry Moore, Klee, Kandinskij, Rouault, Carrà), la sociologia (Simmel, Bastide, Goffman, Gurvitch), il linguaggio (Hörmann, Kainz, Piro), la politica sociale (Meunier, Barth, Bonhoeffer, Foucault, Ferrarotti, Jervis) la letteratura (Svevo, Joyce, Musil, Sartre, Kafka, Hesse, Flaubert), la narrativa (Keruac, Roth, Pavese, Berto, Pasolini, Buzzati), il teatro (Bernanos, Camus, Sartre), il cinema (Fellini per il suo linguaggio onirico), il pensiero storico, religioso e storico-religioso (Tillich, Ernesto de Martino, Otto, Eliade, van der Leeuw, Odier, Kristensen, Lain Entralgo, Ulanov) la mitologia, il mondo classico dell’antichità greco-romana (Unamuno, Cassirer, Kerenyi, Jung).
32. Comunicazione personale.
33. Si veda in proposito quanto detto nella nota 10.
34. La più piccola aveva meno di 10 letti e oltre una ventina di persone tra infermieri, camerieri, cuochi e personale amministrativo. La più grande non più di 25 letti e 40 unità di personale.
35. In questa convivenza giornaliera con pazienti, infermieri e personale di servizio, ho visto depressi accanirsi in tornei di ping pong, catatonici giocare a scacchi (con l’infermiere Icaro, per ore, in piedi al bancone della Concierge), ossessivi gravi impegnarsi al tressette, applicarsi allo scopone scientifico con apprezzabili risultati. Le partecipazioni ai giochi erano rigorosamente fifty-fifty: metà pazienti, metà personale della clinica. Naturalmente io ero il regista: un pessimo tressettista, un discreto tennistavolista e uno spericolato inventore di temerarie situazioni agonistiche. Almeno una volta la settimana sollecitavo tutti i pazienti (anche quelli della cosiddetta cura del sonno, inopportunamente svegliati) a seguirmi nel campetto di fortuna subito fuori del muro di cinta della Villa per la sfida di calcetto.
36. XXX Congresso SIP, Milano 1968.
37. Si vedano in proposito Giovanni Enrico Morselli. Sulla dissociazione mentale. Riv. Sper. Fren. 54, 2, 1930; [riproposto 65 anni dopo come Id. Il caso Elena. Un clinico e una donna nella narrazione di una cura, a cura di Pietro Pascarelli, con saggio introduttivo di Eugenio Borgna e postfazione di Filippo Maria Ferro. Editrice Métis, Chieti, 1995]; Id. In tema di schizofrenia. Riv. Sper. Fren. 55, 3, 1931; Gustavo Gamna. Carteggio e scritti intorno al lavoro: Sulla dissociazione mentale di G. E. Morselli. Ann. Fren. Sc. Aff. 88, 77, 1975; Patrizia Guarnieri. Individualità difformi. La psichiatria antropologica di Enrico Morselli. Franco Angeli, Milano, 1985; Gilberto di Petta Coscienza ed “erlebnis”. Fenomenologia psicopatologia e clinica dell’esperienza psicotica “statu nascendi” PSYCHOMEDIA PM, 16 Maggio 2002) Telematic Review; inoltre, per la sperimentazione con allucinogeni, GB Morselli. Contributo allo studio delle turbe da mescalina. Comunicazione al Congresso Internazionale di Psicologia, Londra, 1935; Id. Le problème d’une schizophrénie expérimentale. Journ. de Psychol. normale et pathol. 33, 5, 1936; Id. Struttura delle allucinazioni Riv. di Psicol. 34, 3, 1943; Id. Psychopathologie des délires. Cong. Int. Psychiat., Paris, 1950.
38. Alludo ai Colleghi che citavo nel testo Medici e Sciamani fratelli separati, Lombardo Editore Roma, 1997, indicandoli come "Gruppo di neofedericiani": Salvo Inglese, Giuseppe Cardamone, Pino Schirripa, Roberto Beneduce, Salvatore Geraci, Virginia De Micco, Alfredo Ancora, Tommaso Esposito (pp. 388 e infra).
39. Danilo Cargnello Ambiguità della psichiatria (Dal volume: “Scienza, linguaggio e metafilosofia. Scritti in memoria di Paolo Filiasi Carcano”, Guida Editori, Napoli, Via Ventaglieri n. 83, 1980. Il passo è tratto da un saggio dello psichiatra filosofo di Castelfranco Veneto, che Lorenzo Calvi ripropone ai lettori di “Comprendre” (n. 9/1999) con una breve introduzione che si conclude col seguente auspicio «Spero che questa ristampa possa essere giudicata superflua soltanto dai profondi conoscitori della psicopatologia tedesca e che tutti vogliano accettare l’invito di Cargnello agli psichiatri [a] sopportare [tale] situazione ambigua».

 
 

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