Come note a margine della sezione “180×40”, l’autore propone alcuni personaggi e bozzetti di come erano i manicomi prima della chiusura, alla quale anch’egli ha partecipato. Qui egli racconta il Santa Maria della Pietà di Roma, costruito sulla collina di Sant’Onofrio in campagna su iniziativa del senatore Alberto Cencelli (1860-1924), denominato ufficialmente Manicomio Provinciale di Santa Maria della Pietà, che iniziò a funzionare il 28 luglio 1913, ma fu inaugurato ufficialmente da Vittorio Emanuele III il 31 maggio 1914. Nei momenti della grande riforma, qualcuno ebbe a dire e a pensare, affrettatamente e superficialmente: “i manicomi sono tutti uguali, basta vederne uno”. Niente di più erroneo. Ciascuno ha il suo carico di dolore e di sofferenza. I soggetti che vi sono stati imprigionati (ma anche coloro che li hanno condotti fuori) hanno avuto storie e motivazioni personali diversissime, uniche e irripetibili.
Francesco Bollorino, scrive sulla sua rivista telematica POL.it Psychiatry on line Italia, che la sua iniziativa di una «settimana dedicata ai 40 anni della legge Basaglia» “180×40” ha avuto termine «con una grande festa nell'Aula Magna dell'Università di Genova» che vede presenti «le istituzioni, lo psichiatra e storico relatore della 180 Bruno Orsini … premiato con la Medaglia d'Argento del Comune di Genova». Sette giorni di maggio dal 7 al 13, che sono volati. Soprattutto per chi, a suo tempo, vi ha partecipato, senza distinzione di ruoli, sia detto senza retorica, a partire dai pazienti e loro familiari, per giungere agli eponimi, che come dimostrano gli ultimi riflettori puntati su Bruno Orsini, sono anche molti altri, oltre a Franco Basaglia e il suo gruppo, cui generalmente si associa il patronimico della 180 del 13 maggio 1978.
Tutto ciò sia detto senza critica alcuna, anzi! Il fatto è che quando si dà la stura ai ricordi, agli accadimenti, alle congiunture, ai fatti, ai vissuti, il presente s’ingolfa, si accende al fuoco delle emozioni e dunque occorre attendere che la cenere si depositi al suolo, per un abbozzo di prospettiva storica. Nella Grecia antica, la mitologia dava ampio credito alla dea Mnemosine, personificazione della memoria. Figlia di Gea e di Urano, splendida compagna di Zeus, madre delle nove muse, presiedeva alla conversazione, alla socialità alle arti del canto, della danza e custodiva ciò che ci deriva dalla tradizione. Prima di essere ammessi all’oracolo di Trofonio (vado a memoria su ciò che resta dei ricordi liceali sulla teogonia di Esiodo), bisognava abbeverarsi nel fiume Lete, giusto la dea contraria per dimenticare tutto, ossia purificare la memoria dal malanimo. Oggi diremmo dalle fake news. Poi bere l’acqua di Mnemosine, per mantenere ricordo di ciò che si era ascoltato e si era visto nella settimana di “180×40”.
Fuor di mitografia sarebbe utile ricordare, per chi non c’era, un prima e un dopo. Rendere memoria di come siamo stati, di ciò che ci era spacciato per terapeutico e da dove giungiamo. Sarei tentato, insomma, di compilare una sorta di “note a margine”, di codesta “180×40” di Francesco Bollorino, che forse si giustifica (e si legge) anche oltre i termini canonici delle celebrazioni.
La prima cosa che mi cade sotto gli occhi è un brogliaccio, contenente una serie di miei appunti, appena finiti di essere ricopiati a macchina da Cesare (un “malatino” della Direzione). “Malatino”, nel linguaggio istituzionale delle suore, erano quelli che potevano girare liberi per il manicomio in quanto sapevano fare un lavoro utile all’ospedale. Cesare era una specie di dattilografo aggiunto nella segreteria dell’ospedale che, dietro compenso di sigarette, era disponibile a ricopiare appunti sulla splendida e bianca carta “quadrotta di Fabriano”.
Il titolo, di per sé, anticipa tutte le mie velleità
“Diario dal manicomio Provinciale “Santa Maria della Pietà” di Roma 1970-71”
Il sottotitolo rivela una moda del tempo.
Tentativo di scrivere un libro sull’Istituzione manicomiale del Santa Maria della Pietà.
Ne propongo qualche pagina
MURALE
Tracciato ordinatamente a matita e in calligrafia, con mano sicura da computista, su un “Foglio delle Consegne“ sotto una lastra di vetro e incorniciato – almeno fino al maggio 1978, epoca di promulgazione della ”180” – nel corridoio del secondo piano che portava alle stanze dei medici di guardia, si poteva osservare la composizione seguente.
«Papi, Re, Regine, Imperatori, Imperatrici, Principi e Principesse, Ereditari dei Troni, Ambasciatori, Consoli, Ministri Plenipotenziarii, Grandi Cancellieri, Patrizi, Presidenti di Ministri, Ministri, Ministresse, Segretarii Generali di Stato, Senatori, Deputati, Giudici, Magistrati, Questori, Uscieri, Questurini, Avvocati, Impiegati, Aguzzini delle Tasse, Generali dell‘Esercito, Cardinali, Prelati, Nunzii Apostolici, Monsignori, Missionarii, Preti, Frati, Seminaristi, Predicatori, Abbadesse, Monache, Bigotti, Esercenti, Commercianti, Artigiani, Professionisti, Industriali, Studenti, Professori, Maestri, Artisti di Pittura, di Scultura, di Musica, Ufficiali, Architetti, Ingegneri, Meccanici, Sensali, Strozzini, Ruffiani, Puttane, Giornalisti, Spioni, Briganti, Omicidiarii, Galeotti, Stracciaroli, Accattoni, Ladri, Giocolieri, Prestidigitatori, Soldati, Girovaghi, Falliti, Bancarottieri, Monetarij Falsi, Paraculi, Carabinieri (tutti allucinati)».
Si noti che tutte le categorie elencate iniziano con la maiuscola, mentre il breve e tagliente denominatore comune, messo alla fine tra parentesi, è scritto in minuscolo. A distanza di quasi un secolo la forma del messaggio di questo paziente della “Lungara“, poi salito a Sant’Onofrio in campagna (la collina di Monte Mario) può risultare insignificante; le parole scritte, della follia, senza valore, appunto. Un elencazione di vocaboli del non senso. Eppure la lapidarietà del testo resta incisiva, diretta e inquietante.
(Chissà dove sarà finito).
CARMINE D’ANGELO, UGO CERLETTI E IL LEONE DELLO ZOO.
Che io sappia, dobbiamo la conservazione del reperto sopracitato, al Primario di istopatologia Carmine D’angelo (Roma 1918+2006 ivi a 92 anni), il quale amava raccogliere e mettere in mostra codeste bizzarre produzioni artistiche degli ospiti manicomiali. Con D’Angelo, che ho conosciuto personalmente, c’era una reciproca simpatia per via di una comune passione: quella della pesca alle foci dei fiumi con un attrezzo che si chiama “rezzaglio” o “sparviero” o “iacco” una rete da lancio per patiti, che si effettua anche da riva. Il Primario Carmine D’Angelo, persona erudita e geniale, era tra l’altro, uomo di lettere, come lo erano, normalmente, i medici del tempo passato. Fu anche direttore del laboratorio di istologia e di anatomia patologica del Santa Maria della Pietà e insegnò neuropatologia all’università Cattolica del Sacro Cuore intitolata ad Agostino Gemelli, altro personaggio storico (si veda Giorgio Cosmacini Gemelli. Il Machiavelli di Dio. Rizzoli, Milano 1985, pp. 328)
Carmine D’Angelo, ospitò Ugo Cerletti [Conegliano (TV) 1877+1963 Roma], nel laboratorio del S. Maria della Pietà, quand’era ormai professore emerito. A dire il vero, allorché alla “Neuro” di Roma giunse Mario Gozzano, per quanto liberale ed ospitale, era di vedute completamente opposte a quelle di Cerletti. Perciò la stanza all’ultimo piano della Clinica riservata agli emeriti, insieme a quella dei medici di guardia e di coloro che facevano internato a Roma da altre università, andava stretta al geniale inventore dell’el. predecessori gli andava stretta l predecessore. Fu così che D’angelo, fiutando al volo e astutamente l’opportunità, invitò Cerletti a salire a Monte Mario nel suo laboratorio, che era stato all’avanguardia fin dalla fondazione (1913). Divennero a amici, coltivarono un’amicizia sincera, di quelle che sbocciano quando l’esistenza s’affaccia al tramonto, la stima era reciproca e lavorarono insieme. Tra noi giovani assistenti del manicomio circolava una malignità. Allo zoo di Roma c’era un leone che aveva problemi di umore per la difficoltà di ambientazione. Poiché erano state viste autorità de Comune e della Provincia di Roma salire in visita al Direttore del Manicomio, dicevamo furtivamente tra noi «Vuoi vedere che son venuti da Cerletti e D’Angelo per chiedergli di fare l’elettroshock al leone».
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PADIGLIONE LAVORATORI. QUELLI DELLA TERAPIA ERGON.
Uno dei due tempietti che l’ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà aveva dedicato ai rituali dell’ergoterapia, era contrassegnato dal numero romano XXXII. Si trovava al centro di tutto il complesso ospedaliero e si affacciava insieme ad altri fabbricati, per i servizi generali su di un vasto parco circolare nel mezzo del quale campeggiava una grande vasca di pesci rossi. Naturalmente, trattandosi di un padiglione di sesso maschile, si trovava sul lato destro di chi entra. Sull’altro lato gli faceva pendant, con quella tipica ossessività che è la simmetria strutturale dell’istituzione manicomiale, il padiglione XXX che ospitava pazienti lavoratrici donne.
Quando nell’autunno del 1971, dopo essere stato giubilato dal XVI, giunsi a1 XXXII esso contava poco più di 25 pazienti, 7 infermieri, 2 operai specializzati, 4 operai qualificati e 2 suore. Vi avevano anche sede la tipografia e la legatoria dell’ospedale.
La principale caratteristica di questo padiglione consisteva nel fatto che fin dalla fondazione dell’ospedale, avvenuta nel 1913, era stato adibito a funzioni di ergoterapia, in perfetto accordo con quelle che erano le esigenze scientifiche dell’epoca.
La terapia lavoro – dopo le prime esperienze di Pinel al1’Ospedale “Bicêtre” di Parigi e quelle di Chiarugi all’Ospedale “San Bonifacio” dl Firenze – agli inizi del Novecento, aveva ormai ottenuto un consenso sempre più entusiastico de parte degli allestitori di manicomi tanto che Hermann Simon, nel 1905 riusciva addirittura ad impiegare i suoi malati nella costruzione dell’ospedale di Warstein. Le statistiche relative ai primi decenni del ‘900 riportavano con un certo compiacimento che il 90% dei malati era impegnato in lavori produttivi, ma non indicavano con sufficiente chiarezza chi, in definitiva, avesse tratto maggior vantaggio da questo lavoro produttivo.
Era dunque comprensibile che ogni ospedale psichiatrico, sorto in quell’epoca, ponesse l’ergoterapia fra le attività di maggior prestigio, in ciò seconda soltanto alla ricerca istologica sul sistema nervoso.
L’ospedale dove io lavoravo era stato perfettamente in linea con questa necessità e la testimonianza più tangibile era rappresentata da un attrezzatissimo laboratorio di istopatologia e da due padiglioni per l’ergoterapia.
Dunque il XXXII aveva una tradizione di prestigio pur ospitando lungodegenti. I suoi abitanti avevano lavorato nell’azienda agricola, nella vaccheria, nel forno, nella correzione delle bozze della rivista scientifica edita dall’ospedale, nella tipografia, nella legatoria, nella lavanderia, nella biblioteca, nei servizi amministrativi; inoltre avevano recato un cospicuo contributo ai fabbri, ai falegnami, ai muratori, agli idraulici, agli elettricisti.
Di tutte queste attività, ben poche erano sopravvissute quando, sul finire del 1971, fui destinato al Padiglione lavoratori. In particolare, già da tempo erano scomparsi: l’azienda agricola, gli animali, la stalla, che l’amministrazione dell’ospedale aveva ritenuto li doversi alienare. Anche questa volta in perfetto accordo con la moda dei tempi e soprattutto degli affari.
Nel seminterrato del padiglione era sistemata la tipografia. Vi lavoravano un operaio specializzato, che aveva la responsabilità del servizio, 4 operai qualificati e 6 pazienti. I macchinari non erano moderni, ma in ogni caso soddisfacevano molte esigenze dell’amministrazione provinciale: bollettari, registri, stampati e schede varie.
Al piano rialzato era sistemata la legatoria. La responsahi1ità di questo servizio era affidata ad un operaio specializzato, che si avva1eva dell’opera di un coadiutore e di 5-6 pazienti. La legatoria aveva il compito di assemblare ciò che veniva prodotto dalla tipografia e inoltre fabbricava cartelle, contenitori e rilegava libri contabili, verbali di sedute, registri, albi ed altro materiale amministrativo da conservare in volumi.
Era consuetudine che una volta 1’anno tutti coloro che prestavano servizio nella legatoria si riunissero in un ristorante, naturalmente fuori dell’ospedale, per partecipare ad un pranzo che si potrebbe anche definire “sociale”.
Sempre al piano rialzato c’era la sala refettorio e un soggiorno con la televisione. Al primo e anche ultimo piano, erano sistemate le camerate con i letti e la stanza delle suore. Dei pazienti che non erano impiegati in tipografia o in legatoria, sei si recavano in direzione per lavori amministrativi. Uno si occupava di un piccolo orticello e di una conigliera, uno aiutava al forno e i restanti provvedevano alle pulizie dei locali. La porta restava aperta per tutto il giorno e in generale il clima del padiglione appariva disteso, tranquillo, perfino un po’ monotono.
La mia funzione di medico dell’istituzione qui risultava tutt’altro che chiara; anzi non capivo proprio in che termini si potesse utilizzare uno specialista psichiatra in un padiglione di lavoro. Il fatto che ogni tanto Bruno, un ragazzo cresciuto nell’ospedale, litigasse con. Carlo (detto “riccetto”) a motivo di Vincenzo; oppure che Amedeo avesse una crisi epilettica (una o due volte l’anno), che Vittorio (uno dei due fratelli muti) mi chiedesse periodicamente di controllargli l’evoluzione, peraltro favorevole di una lieve emiparesi; o ancora il fatto che dovessi prescrivere qualche lassativo o qualche sonnifero, controllare qualche glicemia o tranquillizzare Giovanni, un geometra nato a Addis Abeba che mi chiedesse spesso: – «Non sarò mica schizofrenico, per caso?» –, non era sufficiente a convincermi che il mio ruolo professionale fosse effettivamente adeguato alle necessità del padiglione e che la mia presenza in quel contesto corrispondesse ad una reale esigenza terapeutica.
D’altra parte, non possedendo specifiche capacità di ergoterapista e forse, anche un po’ scottato dagli avvenimenti del XVI (c’era stato un richiamo della direzione per l’attività assembleare che vi avevo avviato per la prima volta agli inizi del 1969), ritenni strategicamente prudente non modificare alcunché di una situazione che tutto sommato era in buon equilibrio e dove il lavoro per conto dell’istituzione scorreva apparentemente senza drammi e senza problemi.
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La monotonia, il buon equilibrio, il quieto “provincialismo” istituzionale del XXXII dipendeva in buona misura dal fatto che lì, tutto era “cronico”. Perfino il lavoro era cronico. Anzi, a dire il vero, non sono mai riuscito a capire se l’ergoterapia istituzionale fosse una dimostrazione di lavoro cronico o piuttosto un esempio di cronici al. lavoro. Per quanti sforzi facessi mi risultava difficile comprendere se l’aggettivazione del cronico attenesse alla categoria della cura, cioè del lavoro oppure alla dimensione del paziente, cioè del lungodegente.
Certo la prospettiva professionale non era delle più brillanti, ma se avessi avuto sufficiente temperanza per rinunciare a fare “lo psichiatra dell’istituzione”, avrei sicuramente trovato uno stimolante materiale speculativo.
Dimenticati al XXXII, impigliati nelle pastoie dell’ergoterapia, anche qui in fondo all’istituzione, c’erano abbondanti reperti di retrovia: oggetti, soggetti, pensieri, progetti, prassie.
I pazienti della terapia ergon, le loro storie personali, le loro cartelle cliniche, il loro stare a lungo, costituivano gli elementi più interessanti che poteva esibire il padiglione.
Quasi tutti contavano una lunghissima affiliazione istituzionale di tipo lavorativo che non infrequentemente superava perfino i quarant’anni. Per quanto mi risu1ta nessuno di loro era però riuscito ad ottenere l’onorificenza di “Cavaliere del Lavoro”. Si trattava, comunque, di personaggi straordinari.
Di solito familiarizzavo con loro nella “guardiola” della legatoria che era anche un po’ il locale dove si dava convegno una certa popolazione “meno esigente”. La mia visuale poteva essere definita in qualche modo una visuale etologica; infatti, avevo la possibilità di “osservare il 1ungodegente ne1 suo ambiente naturale”. C’era poi anche da considerare il non trascurabile valore storico del mio punto di osservazione: l’accesso alle cartelle cliniche da aggiornare con tanto di “foto segnaletica” in bella evidenza e annotazione in lapis rosso su particolari tendenze del soggetto.
Ascoltare i racconti e leggere la scheda del lungodegente del XXXII, significava rivivere molti anni di storia istituzionale e nazionale, verificare di quanto fosse cambiata la psichiatria, toccare con mano quegli oggetti sui quali nessuna mutazione sociale si era potuta esprimere.
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LE PRESENZE LUNGODEGENTI HANNO UN NOME
Carlo era uno dei frequentatori più assidui della “guardiola” della legatoria un po’ per curiosità, un po’ per obblighi attinenti alla sfera ergonomia. Ufficialmente era in forza a questa sezione del padiglione, ma, in effetti, vi svolgeva solo mansioni minori di fattorino e divideva il suo tempo tra la “guardiola” degli infermieri e quella degli operai della legatoria. Teneva puliti i locali, preparava il caffè, portava il cestino del pranzo ed era molto garbato con tutti. Usciva anche spesso dall‘ospedale per brevi commissioni.
Per via del1a sua capigliatura era soprannominato “Riccetto”. Aveva 30 anni e poteva considerarsi un figlio delle istituzioni. Fino a 6 anni era stato in brefotrofio (istituzione anch’essa controllata dall’amministrazione provinciale), poi, non si sa come, era stato inviato alla Clinica Neuropsichiatrica e di la trasferito al XC, che era il padiglione dell’ospedale per i bambini handicappati. La diagnosi sulla cartella era: «frenastenia cerebropatica». Al XC, una logoterapista, si era occupata di Carlo poco dopo il suo arrivo dalla “Neuro” ed è interessante conoscere il. giudizio che aveva espresso sul bambino: «gravissimo caso di logopatia: disartria pressoché totale. Mancano i fonemi labio-dentali fa e va, i gutturali ca e ga, i palatali cia e gia». Dopo tre anni di ortofonia Carlo veniva escluso dal corso dl riabilitazione con questa nota della terapista: «nonostante i diversi tentativi il bambino non riesce a seguirmi e quindi il suo linguaggio è sempre pessimo».
Le osservazioni riportate sulla cartella clinica erano davvero singolari. Nessuno si era chiesto se oltre ai fonemi, a Carlo mancasse qualcos’altro. Nessuno si era domandato se fosse Carlo a dover seguire la terapista oppure il contrario.
Ora il suo linguaggio era discreto, si faceva comprendere e comprendeva perfettamente gli altri. Quando litigava con Bruno – a motivo di qualche regalo che questi faceva a Vincenzo (un giovane paziente arrivato da poco) – era perfino in grado di pronunciare le famigerate labio-dentali va e fa; dimostrando con ciò, quanto più efficace fosse stato l’insegnamento dell’istituzione, rispetto a quello della permalosa logoterapista degli anni ‘40.
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Vittorio e Ugo erano due fratelli sordomuti che già prima dell‘ingresso in ospedale esercitavano il mestiere di rilegatori di libri.
Il primo era stempiato, di corporatura robusta, il secondo esile con un marcato valgismo. Lavoravano sempre in coppia e, a loro modo, “parlavano” affabilmente con tutti. Erano molto informati sulle cose del1‘ospedale.
Vittorio era un artigiano rifinito, un artista nel suo genere. Contava 55 primavere ed era entrato in ospedale nel 1941 quando ne aveva 25. Secondo la moda del tempo all’ingresso gli avevano misurato il cranio e l’avevano qualificato come “macrocefalo”. Sui motivi del ricovero, la cartella clinica riportava inoltre le seguenti annotazioni: «Frenastenico, sordomuto, di professione legatore di libri. Va soggetto a frequenti crisi di eccitamento durante le quali tenta prodursi autolesioni. Tendenza al furto». È superfluo dire che nei suoi 30 anni di lungodegenza nell‘ospedale di Roma – salvo una “breve” parentesi di 4 anni, subito dopo la guerra in cui era stato dirottato nell’ «Ospizio per cronici» di Ceccano – non aveva mai confermato le «propensioni» di cui veniva accusato, specialmente la seconda. L’unica «tendenza» che mi risultava, con una certa insistenza, era la sua golosità nei riguardi dei dolciumi in genere e delle paste alla crema in particolare. Alcune volte, infatti, mi ero dovuto occupare del suo diabete e dei suoi disturbi enterici causati, appunto, dagli eccessi alimentari.
Lo status all’ingresso del fratello Ugo – di un anno più giovane di Vittorio – e che, forse anche per questo, era entrato nell’istituzione un anno dopo, cioè nel 1942 – era più interessante perché riportava alcuni dettagli raccolti direttamente dalla madre: «Sordo-muto, lavorava all’Istituto Sordomuti di Via Nomentana. In un primo tempo assiduo, diligente al lavoro, poi avendo contratto una amicizia con un compagno divenne svogliato, capriccioso. Il medesimo lo deviava dal lavoro; il paziente acconsentiva tanto per istare in sua compagnia. La madre non approvando il suo modo di agire spesso lo richiamava al dovere ed egli rispondeva con parole arroganti. Dietro il consiglio di un medico è stato condotto al Policlinico per passare una visita e da lì è stato trasferito in questo reparto». Il giudizio diagnostico conc1usivo era «lieve stato di eccitamento in sordomuto».
Anche questa storia aveva caratteristiche singolari. Si poteva dare per scontato che gli anni ’40 fossero anni in cui si richiamava (non solo dalle madri, c’era anche il richiamo alle armi, ovviamente non per i sordomuti), ma non si riusciva proprio a capire come Ugo, sordomuto, potesse rispondere «con parole arroganti». Sta comunque il fatto che un’amicizia aveva deviato il suo corso esistenziale dall’Istituto Sordomuti di Via Nomentana all’Istituto Manicomio di Monte Mario. Vittorio e Ugo erano da molti anni l’asse portante della legatoria: precisi, metodici, efficienti, affidabili, come si direbbe in termini industriali. La loro presenza al padiglione lavoratori poteva anche rappresentare una verifica positiva dell’idea ergoterapeutica di Pinel, secondo cui «un moderato impiego ed un regolare esercizio, cooperando con le energie della natura stessa, reintegrano in breve tempo al pieno godimento delle facoltà del malato». Tuttavia, a giudicare almeno dai risultati, alla reintegrazione delle facoltà non era seguita anche una reintegrazione sociale. Eppure ormai da 30 anni Vittorio non si eccitava, non si produceva autolesioni, non rubava e Ugo non faceva amicizie che lo deviassero dal lavoro. Dunque avevano fatto una terapia cronica che in definitiva non li aveva poi nemmeno completamente guariti, giacché restavano ancora in ospedale. Questo può significare almeno tre cose. La terapia ergon non serve a guarire il malato psichiatrico istituzionalizzato; serve semmai all’istituzione manicomiale per mantenere se stessa e perpetuarsi. La dimissibilità psichiatrica dal manicomio, al contrario di quanto avviene per gli altri ospedali – contraddicendo una delle regole auree della medicina – non corrisponde mai alla dimissione effettiva. Vittorio e Ugo erano semplicemente passati, traumaticamente, da un lavoro opzionabile in una istituzione aperta, ad un lavoro coatto in una istituzione chiusa.
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Amedeo, un ex tornitore meccanico di 67 anni, aveva la funzione di cucire i quinterni dei registri e di piegare la carta. Mite, tranquillo, piuttosto taciturno, appena da qualche anno presentava una forma di epilessia tardiva che gli procurava crisi convulsive generalizzate, fortunatamente rare. Solo se si insisteva per ottenere un parere circa le sue convinzioni religiose, rispondeva di essere lo “Spirito Santo”. Era stato internato nel 1936 con diagnosi di «paranoia mistica». «I primi segni della pazzia – si poteva leggere nella cartella – si erano manifestati molto presto con una insistente pseudovocazione a farsi prete contestatagli un po’ da tutti i familiari e con la profonda convinzione di avere una importante missione divina da compiere». La cosa stranana però è che si decise di internarlo in manicomio quando Amedeo a 30 anni suonati e con una discreta anzianità psicopatologica, pensò di cambiare contenuto alle sue fantasie e – forse anche sotto la spinta dell’ondata di paranoia collettiva degli anni ’30 – prese a dire di essere certo che «Giulio Cesare si era incarnato in Benito Mussolini». Evidentemente i familiari, che in precedenza si erano mostrati tolleranti verso le bizzarrie mistiche di Amedeo, ora reputavano più prudente dirottare sul manicomio1a sua ideologia politica. E’ vero che si trattava di un elogio, anche 1usinghiero del capo di allora, ma per quei tempi esprimere una ideologia politica era, pur sempre un fatto “pericoloso”.
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Sandro aveva 35 anni e stava in manicomio da appena 11 anni. Nella legatoria aveva il compito di manovrare una macchina che fa i buchi sui registri e sui bollettari per rendere possibile lo strappo del modulo-figlia dal modulo-madre. Ora era attento, vivace, presente a se stesso e ag1i altri. Estremamente ossequioso, garbato, discreto, amava parlare di politica. Si proclamava fascista e ricordava una infinita serie di slogan di Mussolini. Il suo poeta preferito era D’Annunzio, ma più che la musa ne apprezzava il volo su Vienna e l’impresa fiumana. Non si accalorava mai nella discussione, anche se era contraddetto. Aveva sempre un sorriso enigmatico che non cambiava nemmeno quando sentenziava che «lo sfacelo attuale è la conseguenza della crisi lei valori fondamentali: Dio, Patria, Famiglia». Non mi risulta che leggesse i giornali o ascoltasse la radio, ma era informatissimo su come e dove i movimenti di destra andassero al potere nel mondo (sapeva tutto sui golpe dei colonnelli in Grecia e in Argentina). La cartella clinica raccontava la sua lunga storia di perdente. Aveva ardentemente desiderato anche una piccola vittoria da offrire al padre, ma non aveva avuto fortuna. Per quanti sforzi avesse fatto nessuna delle aspettative paterne era stata confermata. Il cerchio della disfatta si era ben presto chiuso sulla vita ancora acerba di Sandro fino a privarlo di ogni capacità ed entusiasmo di esistere con gli altri. «Sul finire dell’adolescenza – si legge nella cartella – aveva manifestato una estrema lentezza nella esecuzione dei suoi doveri e dei suoi compiti. Si applicava moltissimo allo studio, ma i risultati erano scarsi. A scuola aveva collezionato una serie di bocciature. Partito per il servizio militare aveva anche tentato di fare un corso speciale in Aeronautica ma ben presto era stato rinviato a casa per malattia». Subito dopo era iniziato il pellegrinaggio in quattro cliniche psichiatriche dove aveva ricevuto numerose sedute di elettroshock (anche con la “tecnica di annichilimento”). Quando, nel 1960, giunge in ospedale psichiatrico con la diagnosi di “schizofrenia” il suo status è: «catatonico, sudicio, mutacico, sitofobo, ostile verso i famigliari. Bisogna vestirlo, spogliarlo, imboccarlo, lavarlo».
Ormai da tempo l’accadere storico di Sandro aveva ripreso a scorrere con un’accettabile continuità. La sua originaria ostilità verso il padre era scomparsa, mangiava con buon appetito, si pettinava con cura e parlava volentieri con chiunque. Forse l’istituzione l’aveva “guarito”, forse era “guarito” perché ormai nessuno si aspettava più alcunché da lui, ma poteva anche essere benissimo che non fosse “guarito” affatto. La mia impressione era che ora, avesse finalmente trovato il modo di declinarsi come presenza accettabile, soprattutto a se medesimo. Ma quel suo assentire, quel suo chinare il capo, quel suo totale appiattimento sui tempi della lungodegenza (il mondo rigido della conservazione dell’istituzione), poteva considerarsi effettivamente il risultato di una guarigione? Non erano forse stati la cronologia astorica della lungodegenza e la scarsa efficacia della terapia ergon a nientificare il suo mondo interiore, perfettamente adattato a quello istituzionale, a sommergerlo; ad afflosciare definitivamente la sua esistenza? La sua “catatonia” (l’immobilità) non poteva costituire il rifiuto di declinarsi in un certo ordine? Bisognava chiedersi che cosa fosse accaduto durante la sua lungodegenza istituzionale. Ora che nessuno si aspettava più alcunché da lui, poteva vivere con tranquillità. Ora che nessuno gli rammentava il “dovere” (il-dovere-di-essere-per), lui stesso poneva il massimo impegno per svolgere il proprio compito nella legatoria. Ora che il padre aveva preso atto della sua “sconfitta” e lo considerava “perso”, Sandro poteva pensare in qualche modo di aver finalmente raggiunto una “meta”, di avere “vinto”. In cosa consisteva, però, questa “vittoria” di Sandro? Il mancato adattamento a quei “valori” sociali imprescindibili cui gli era stato imposto di obbedire come soggetto (quando era oggetto di speranze/proiezioni paterne), si era trasformato (conformato) in supina e totale adesione ai “valori” istituzionali (pseudovalori subiti), ora che era divenuto mero oggetto di custodia. Può essere considerato “guarito” colui che dopo aver rifiutato il ruolo di “cittadino obbediente”, ha finito con l’accettare il ruolo (cronico) di malato esemplare dell’istituzione? Si potrebbe supporre, in questo caso, che non vi sia stata né guarigione né vittoria. In realtà, solo il potere, anzi tutti i poteri della società e quelli normalizzatori dei suoi meccanismi, avevano vinto.
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Carmine (detto “Picchio”, un malatino) e Umberto erano due deboli di mente intorno alla sessantina che pur essendo in forza alla tipografia non disdegnavano di venire spesso a fare una capatina in legatoria. “Picchio” era il più furbo dei due. Entrato giovanissimo ne1l’ospedale, ne conosceva i meccanismi, i segreti, le persone che contano. Insomma aveva bene in mente i rapporti di potere che vigono all’interno dell’istituzione. La sua furbizia consisteva nel sapersi adattare sempre al meglio in ogni circostanza. Un piccolo segno della sua astuzia istituzionale? Non sono mai riuscito a capire per quale squadra di calcio tenesse poiché si professava “romanista” coi romanisti, “laziale” coi laziali. I motivi della sua istituzionalizzazione a vita potevano anche apparire accettabili, secondo i canoni asilari tardomedievali di raccogliere indistintamente pellegrini, bisognosi, accattoni, ciechi, deformi, lebbrosi, ecc. “Picchio” aveva una grande quantità di malformazioni congenite: polidattilia, valgismo, piedi piatti, dislessia, acromegalia. Tuttavia non era chiaro come mai la sua lungodegenza dovesse essere necessariamente psichiatrica.
Umberto, invece, aveva più l’aria svagata e credulona di un sempliciotto. Di professione libraio, era entrato in ospedale nel 1936 quando aveva 25 anni con la diagnosi di «Stato depressivo in debole di mente». Nello status all‘ingresso erano riportati i motivi del suo ricovero: «aveva minacciato di picchiare la sorella perché diceva di odiarla. Prima che facesse qualche cosa di male, la madre aveva provveduto a farlo ospedalizzare». Di queste sue intenzionalità manesche non si rinveniva traccia né durante il periodo di osservazione, né nei quasi quarant’anni successivi di degenza in ospedale. Il giudizio clinico e le note anamnestiche erano radicalmente diverse, anzi lo dipingevano tutt’altro che un individuo minaccioso: «Ha paura di tutto e di tutti. È un grave psicastenico che non riesce a lavorare. E’ timido e pauroso. Teme che gli facciano del male appare tremante. Riconosce spontaneamente di essere stato sempre un po’ tardivo. Ha prestato servizio militare, ma sotto le armi era lo zimbello dei commilitoni lo chiamavano “signorina”, gli tastavano il sedere. Non ha mai reagito per timidezza». Nemmeno quello “stato depressivo” di cui si faceva menzione nella diagnosi d’ingresso era più rintracciabile. Umberto era sì timido e pauroso, ma non triste. Nei suoi grandi occhi nerissimi, in tutto il suo atteggiamento, c’era un forte sentimento d’attesa per un gesto di rassicurazione, una parola di conforto e di conferma della sua presenza.
Aurelio aveva fatto il meccanico e la sua esistenza precedente al ricovero era stata di gran lunga più piena di quella dei suoi compagni di “terapia ergon”. Contava 76 anni ed esattamente la metà li aveva trascorsi in ospedale a lavorare in tipografia. Ora, data l’età avanzata, era stato sospeso dall’ergoterapia ed era stato anche cancellato dal “compenso” mensile elargito ai “malati lavoratori”. Sempre affabile, gentile, di educazione garbata – si toglieva il berretto quando rispondeva al saluto – era tuttavia inquieto per il fatto che l’istituzione dopo averlo tanto riabilitato con “il lavoro”, adesso lo aveva disabilitato negandogli quel compenso che avrebbe potuto essere ancora elargito a titolo di pensione. Era sposato e aveva due figli che raramente venivano a visitarlo. Perfettamente lucido, raccontava con un certo compiacimento la propria storia: – «Io sono stato uno del primi pazienti ad essere sottoposto ad un intervento di neurochirurgia! Il professor Chiasserini, nel 1934, mi operò per una aracnoidite cistica al chiasma ottico e così mi salvò la vista». Il ricovero in ospedale psichiatrico era avvenuto a poco più di un anno di distanza perché «era residuato un difetto di iniziativa e una alterazione del tono dell’umore prevalentemente sul versante depressivo-disforico». Non era più uscito e lui stesso accettava la sua condizione «la vista mi è costata la libertà». Lo diceva con filosofia, mantenendo un giudizio sereno sulla sua vicenda. Non aveva alcunché da recriminare, né contro i1 destino, né contro i medici. Quello, però, che non riusciva proprio a tollerare era la mancata corresponsione di una pensione dopo 38 anni di “terapia-lavoro”.
Armando era entrato nel 1931 proveniente dalla “Regia Clinica delle Malattie Nervose e Mentali” con diagnosi di «Frenastenia cerebropatia, epilessia». L’esame obiettivo effettuato all’ingresso riportava una cospicua serie di misurazioni somatiche al termine delle quali veniva concluso che si trattava di «soggetto picnico, stenico, scafocefalico». Poiché il dato dell’epilessia non era stato confermato, Armando aveva avuto quasi subito una prescrizione di ergoterapia ed era stato inviato a lavorare presso il forno dell’ospedale. Qui sarebbe rimasto fino a quando l’amministrazione non avrebbe deciso di comperare il pane già confezionato da una ditta esterna. Per 30 anni non era mai uscito, ma nel 1961 i famigliari furono convinti a portarlo a casa per qualche giorno. L’esperimento fu poi ripetuto negli anni successivi ma gli esiti non furono soddisfacenti. Non solo non si riuscì in alcun modo a cancellare dallo stile di vita di Armando l’impronta della lungodegenza, ma fu riscontrato un elevato livello di ansietà ogni volta che i parenti vennero a prelevarlo.
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Questa galleria di protagonisti della lungodegenza potrebbe continuare con un’infinita gamma di sfumature fino al venticinquesimo personaggio; tanti, cioè, quanti erano quelli della “terapia ergon” del Padiglione XXXII Non so se Gioacchino, Sergio (sospettato di cleptomania), Otello (detto “il sagrestano”), Cesare (che mi ha aiutato moltissimo interpretando con precisione la mia grafia nel ricopiare a macchina quanto andavo scrivendo sui “fossili” dell’istituzione), se Enzo e Mario e tutti gli altri se n’avranno a male perché non ho raccontato anche la loro storia, oppure se saranno contenti che abbia rispettato la loro privacy, ma mi sembra che il panorama dei pazienti fin qui tracciato sia più che sufficiente per dare un’idea di quella che era la condizione e la vita dei 1ungodegenti. Vale invece la pena – per completare il quadro del Padiglione XXXII – di interrogarsi un po’ sul significato dell’ergoterapia e di gettare uno sguardo sugli ergoterapisti.
Nei trattati si legge che l’ergoterapia dovrebbe essere una «attività di tipo lavorativo o ricreativo prescritta in modo ben definito e strutturata nei suoi procedimenti tecnico-sanitari, svolta dal paziente sotto controllo, intesa a favorire ed acce1erare la reintegrazione psicosomatica e sociale dell’invalido di qualunque tipo per qualunque ragione».
Ebbene, l’ergoterapia manicomiale – almeno così come io l’ho vista e vissuta – non avrebbe potuto in alcun caso definirsi una prassi terapeutica. Troppe carenze (oltre all’ideologia di base cha la sostiene) la rendevano incongrua ai fini che si proponeva di raggiungere.
In primo luogo la terapia era totalmente orientata verso la polarità lavorativa ad esclusivo tornaconto dell’istituzione; inoltre era priva di un salario, una ricompensa che non fosse una elargizione simbolica (come simbolica era, peraltro, la terapia, ma non il lavoro); infine mancava totalmente il riposo, il dopolavoro o comunque in alternativa una qualche attività ricreativa. Il significato del lavoro era assente come pure la funzione pedagogica.
In secondo luogo la prescrizione e le procedure tecnico-sanitarie erano assolutamente indefinite e non strutturate. Solo una piccolissima quota di lungodegenti aveva imparato un lavoro nuovo. La maggioranza dei ricoverati del XXXII era stata arruolata perché prima di essere internati avevano svolto un lavoro che avesse una qualche attinenza con la funzione svolta dal Padiglione, che era poi quella di produrre stampati, registri, bollettari, schede per l’amministrazione provinciale. La procedura di selezione era elementare. Innanzi tutto il “malato” doveva dare sufficienti garanzie di tranquillità, insomma doveva essere “cronico”. Se, nella vita civile, fosse stato tipografo, avrebbe fatto il tipografo, se fosse stato rilegatore di libri avrebbe fatto il rilegatori di libri e così via.
In sostanza si trattava di pazienti che già preistituzionalmente avevano dato prova di saper svolgere quel lavoro in cui sarebbero stati utilizzati all’interno del manicomio. Molto sbrigativamente, dunque, e senza alcuna fantasia, questa utilizzazione, più che frutto di una procedura terapeutica mirata e progettata nei suoi fini ultimi (la riabilitazione), risultava, in concreto, la più banale delle applicazioni ergoterapeutiche. Quando un buon artigiano si fosse “calmato” e non, aveva ormai più, alcuna possibilità di dimissione (perdita di asilo in famiglia), poteva essere inviato dai Padiglione di primo livello (Osservazione, Cura) al Padiglione lavoratori. In nessun caso, tutte queste procedure ergoterapeutiche avrebbero, non dico accelerato, ma nemmeno favorito una reintegrazione sociale.
Un altro punto molto ambiguo dell’ergoterapia era la retribuzione di cui è stato fatto cenno sopra. I compensi corrisposti apparivano risibili per compensare la fatica di un lavoro e il lavoro stesso si dimostrava troppo alienante per giustificare una finalità terapeutica. Tutto sommato, sarebbe stato abbastanza difficile dimostrare l’ipotesi più ovvia e cioè che il destinatario ultimo dei vantaggi dell’ergoterapia fosse proprio il paziente. Al contrario era facile confermare un indiscutibile e concreto tornaconto dell‘istituzione, dall’impiego dei lungodegenti del XXXII nei servizi generali dell'ospedale e nell’allestimento del materiale di cancelleria per tutta l’amministrazione provinciale di Roma.
Certamente non erano soltanto quelli del XXXII ad essere cooptati in questo ibrido miscuglio di “terapia” e di “lavoro” dalle spiccate caratteristiche “oblative” (se la parola “sfruttamento” può risultare un termine troppo forte). Per completezza bisogna mettere nel conto anche le donne del XXX, adibite alle attività di sartoria, gli uomini del XX impegnati nella lavanderia, le lungodegenti del XXIII utilizzate nella pulitura degli ortaggi, quelli della materasseria, e via dicendo.
Mi piace concludere, infine, con Renato (anch’egli un malatino). Lo voglio ricordare per ultimo, perché mi sembra un personaggio emblematico della oblatività (diciamo così) istituzionale, che merita di essere una citazione a parte, senza far torto a tanti altri personaggi della lungodegenza. Renato, era convocato (soprattutto dalle suore che conoscevano la sua abilità, ma non soltanto da loro) quando nel Manicomio di Santa Maria della Pietà, c’erano da risolvere problemi urgenti di elettricità e di una certa importanza. Renato, uomo serioso, viso accigliato, si era guadagnato una solida fama in tutto il manicomio. Si recava immediatamente sul posto, quando convocato. Segno evidente che la faccenda era seria e urgente. Talvolta mugugnava. Ma mi viene da pensare che, con una sua valigetta molto professionalmente, quando si recava dov’era atteso ansiosamente da chi l’aveva chiamato (la suora capo-padiglione), fosse l’unico a giustificare l’esistenza del padiglione per la terapia ergon. Ma per suo merito, non per quello dei terapeuti.
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