Si tratta della prima e unica intervista articolata in 15 sezioni rilasciata da Borgna in video
Quando oggi ci troviamo di fronte a film a lieto fine (il cosiddetto happy ending), in cui ogni dissidio narrativo viene risolto e sussunto entro l’onnipotenza sintetica della coppia di innamorati, non possiamo non covare un certo sospetto e chiederci “ok, il film mi sta dicendo che da questo momento in poi la coppia di amanti vivrà felice e contenta, ma per quale motivo dovrei credergli sulla parola? Per quale motivo, anziché sbrigarsela con una simile frase fatta, ciascun film non si conclude dando allo spettatore uno scorcio di quello che succederebbe alla stessa coppia, ad esempio, cinque anni dopo? O addirittura la settimana successiva?” Questa utopistica tendenza a rinserrare le complesse vicende sentimentali in un ordine sistematico e chiuso rischia infatti di sacrificare il (singolo) reale ad una totalità (universale) astratta e fittiziamente ultimativa. Questa logica della non-conciliazione degli opposti – se non nella mera apparenza – rispecchia la principale critica mossa da Kierkegaard al razionalismo hegeliano. La macchina hegeliana, denuncia infatti il filosofo danese, concepisce la realtà come il progressivo dispiegamento dello spirito assoluto. Quest’ultimo, nel suo manifestarsi, darebbe sì luogo a successive e progressive contraddizioni, ma ognuna di esse verrebbe di volta in volta superata dalla conciliazione di tesi e antitesi. In poche parole, a dire di Kierkegaard, la dialettica hegeliana, non cogliendo la categoria della singolarità, rimarrebbe schiava di uno schema razionalistico inadeguato a afferrare la situazione umana nella sua profonda tragicità. Possiamo estendere questo discorso della pseudo-conciliazione anche alla maggior parte dei film a sfondo rivoluzionario: il problema principale di pellicole come V per Vendetta (2005), ad esempio, è che il loro estatico potenziale sovversivo tende ad arenarsi nel momento di massima celebrazione emancipativa (la marcia verso il parlamento di migliaia di londinesi con indosso la maschera di Guy Fawkes, il popolo che infine prende il potere), per poi spegnere i riflettori e smorzare qualunque impressione post-rivoluzionaria. Della serie: che cosa accade una volta che la rivoluzione è stata compiuta ed il popolo ha preso il potere? In che modo quest’ultimo gestirebbe i postumi emancipativi del giorno dopo? In altre parole, arrestando il climax rivoluzionario al suo momento di massima effettuazione e scotomizzando i propri “sintomi del giorno dopo”, qualunque iniziativa che si prefigga di abolire il discorso del Padrone rischia clamorosamente di ricadere in esso. A riguardo, sono lapidarie le parole pronunciate da Lacan agli studenti che lo contestavano durante il Seminario XVII: “l’aspirazione rivoluzionaria ha solo una chance, quella di sfociare sempre nel discorso del padrone. È ciò di cui l’esperienza ha dato prova. Quello a cui aspirate come rivoluzionari è a un padrone. L’avrete.”[i]
Secondo Marvin Goldfried, questo falso rovesciamento sarebbe in corso di attuazione anche nel mondo della Sanità mentale. In un suo articolo di qualche anno fa,[ii] l’autore smontava l’apparente impresa rivoluzionaria attraverso cui il NIMH[iii] si stava apprestando a ridefinire l’asse di interesse nella ricerca psicoterapeutica e psicodiagnostica tout court. Come scrive Goldfried, il NIMH avrebbe previsto un re-indirizzamento dei fondi di ricerca, spostando questi ultimi dall’ordinario target dei monodimensionali studi RCT[iv] al più vasto e pluralistico ventaglio offerto dall’approccio multidimensionale del RDoC[v]. Passando in rassegna una serie di ragioni soggiacenti a questo importante cambio di rotta (volto in primis alla rivalutazione dell’eziopatogenesi dei disturbi psichici), la principale vittoria cui il NIMH dichiara di puntare è la destituzione del totalitarismo dei manuali, incapaci di esaurire la complessità del soggetto, a favore di una più ampia prospettiva. In questo senso, il miope punto di vista dei criteri diagnostici verrebbe sostituito da una più ampia referenza, in grado di riabilitare tanto le componenti psicosociali, quanto quelle neuroscientifiche della nosografia tradizionale. Eppure, secondo Goldfried, tale apparente emancipazione dalla monarchia del DSM avrebbe degli scopi tutt’altro che democratici: la principale conseguenza di una simile virata non farebbe altro, all’indomani dell’emancipazione dal manuale APA, che ristabilire un’ennesima dittatura sorretta (ora surrettiziamente) dalle neuroscienze. In poche parole, per Goldfried i circuiti neurali designanti specifiche configurazioni psicopatologiche finiranno, nel tempo, per prendere il posto dei criteri diagnostici del DSM, ristabilendo così, a seguito di un formale salto sul posto, la dittatura precedente: stessa corona, diverso tiranno. Condivisibile o meno, questa tesi finirebbe per rinforzare quello che potremmo definire, in riferimento al noto film di consumo Disney Pirati dei Caraibi, il “paradigma olandese volante”, ovvero: la nave deve avere un capitano. In questo caso, l’influenza esercitata dal controverso manuale sul mondo della sanità mentale non dipenderebbe esclusivamente dal suo contenuto concreto, quanto piuttosto dalla sua esistenza puramente formale, da quella che gli strutturalisti avrebbero definito la “casella vuota”. A confermare questa tesi, si potrebbe citare la notoria logica dell’antagonismo intrinseco, cui a quanto pare il DSM sarebbe più che avvezzo: il limite ultimo della critica al DSM è il DSM stesso, nel senso che sarebbero proprio queste critiche a costituire la sua produttività auto-repellente. D’altro canto, è anche lecito ammettere che finché esisterà il DSM (o qualunque altro manuale o entità di sorta che incarni la sua funzione) ci sarà dissidio: ironicamente – ma non troppo – se si rimuovessero i dissidi e i malcontenti attorno al DSM, non ci sarebbe più bisogno di esso. Ciò dimostra come questo ostacolo, tale antagonismo interno, sia la sola condizione di possibilità dell’intero dispiegamento di una lingua comune che possa mettere (preliminarmente) d’accordo i clinici e gli psichiatri di tutto il mondo. Uno dei punti di forza di questa operazione, a riguardo, è la disposizione di un esperanto, una sorta di lingua universale comune che mi permetta, ovunque io sia, di poter parlare, ad esempio, di disturbi d’ansia senza dover preventivamente definire cosa io intenda per disturbo d’ansia. Insomma, secondo tale prospettiva, è proprio perché manca un originario consenso su cosa si intenda quando si fa riferimento a certi determinati disturbi che c’è il DSM.
È proprio a questo livello che quanto sto cercando di spiegare diviene evidente: se eliminiamo l’ostacolo, la contraddizione intrinseca al DSM (o chi per lui), perdiamo proprio la raison d’être che simultaneamente giustifica e frustra l’esistenza del manuale: se rimuoviamo il blocco, è lo stesso potenziale in gioco ad essere perduto. Ma, verrebbe da chiedersi, è tutto qui? La questione del gigante dell’APA può veramente essere ridotta ad una (mansueta) questione di necessità strutturale? Non proprio. Ciò di cui la casella dell’occupante di turno non riesce a tener conto è il supplemento ideologico eccedente che, come un’ombra, raddoppia il semplice valore nomotetico del manuale.
Infatti, siamo spesso portati a credere che il DSM, attraverso un’imposizione egemonica senza scrupoli, abbia messo la sua politica arida, diretta e fortemente burocratica al posto di una politica mascherata da illusioni ideologiche e politiche. A questo punto, un althusseriano direbbe che è proprio questa riduzione alla brutale realtà nosografica a generare una spettralità tutta sua, che insomma sarebbe proprio questo apparato oggettivo, sistemico e anonimo il primo strato della buccia ideologica che avvolge il mondo della Sanità mentale e i suoi retroscena politici. Peccato che un simile intervento, per quanto arguto, mancherebbe il punto fondamentale di qualsiasi concezione “distorta” della realtà sociale: non basta infatti considerare questo pallore ideologico supplementare alla stregua di un’astrazione (come a dire: l’apparente e arida oggettività del DSM non è altro che un miraggio ideologico, un distorsore che turba la nostra percezione di come le cose stanno veramente). È necessario assumere questa concezione distorta come inesorabilmente “reale” nella misura in cui essa determina materialmente la realtà dei rapporti sociali e dei destini effettivi della Sanità mentale mondiale. Qui può tornare utile il riferimento di Marx al feticismo delle merci, concetto stipato in un capitolo del Capitale (il primo) che, non a caso, Althusser suggeriva ai suoi uditori di saltare: il discorso comune, a riguardo, propende per dire che, apparentemente, una merce potrebbe sembrare un sintetico accumulo di messaggi subliminali e significati sovradeterminati, ma non è così. Essa è un puro, insulso oggetto che viene solo superficialmente caricato di un valore mistico-interpretativo. Si pensi al denaro ad esempio. Al di là del suo valore estrinseco, esso non è che carta straccia infarcita di significato, tradizioni e vincoli culturali, ovvero: il denaro in sé non è altro che un oggetto inerte carico ideologicamente, merce allo stato puro. Ma ridurre questa sua spettralità ad un insulso alone immaginario, vorrebbe dire non tener conto degli effetti puramente reali che un simile miraggio speculativo produce nel nostro modo di relazionarci ad esso. Come ha ben notato Octave Mannoni isolando la formula del diniego feticistico (“so benissimo che la donna è priva di fallo, ma nonostante tutto mi comporto come se essa lo avesse veramente”), è proprio la nostra superficiale consapevolezza a farci cadere vittima di un’evidenza talmente eclatante da essere rimossa, ovvero: “so benissimo che la merce non è altro che un inerte oggetto privo di qualsivoglia surplus concreto, che la sua consistenza esteriore è data da una mera proiezione imposta dai rapporti di scambio vigenti nel mercato post-industriale, ma nonostante tutto mi comporto come se questa patina ideologica fosse reale.” Nella formula del diniego infatti, mentre il primo termine (“so benissimo che”) è conscio ed è parte integrante della nostra conoscenza dichiarativa, è il secondo passaggio (“ma nonostante tutto mi comporto come se….”), in quanto rimosso ma inesorabilmente presente nelle mie azioni e nel mio modo di gestire le relazioni interpersonali, a sortire effetti puramente reali.
Tornando al DSM, il problema è che questa “astrazione” impropria non esiste solamente a livello della nostra concezione distorta del mondo della Sanità (“so benissimo che il DSM è solo un manuale, e che pertanto il suo apparente doppio fondo ateorico è solo una proiezione ideologica, un prodotto esasperato del complottismo post-moderno”), ma è reale proprio perché determina la struttura effettiva della concezione sanitaria globale (“ma nonostante tutto il mio comportamento è oggettivamente condizionato da questa patina speculativa”). È il destino di interi Paesi del mondo a pesare su questa beata indifferenza perché, che lo si voglia ammettere o meno, la diagnosi è sempre e comunque, per definizione, ideologica, culturalmente mediata.[vi] Affinché il vero contributo politico che il DSM fornisce all’ideologia psichiatrica venga recepito nella sua estrema immediatezza, bisogna superare due posizioni dicotomiche e assolutistiche che vengono convenzionalmente prese nei confronti del manuale:
- Quella dei suoi totali detrattori, la posizione “anarchico-dissidente” che vede in esso una gigantesca operazione politica volta al foraggiamento spietato delle case farmaceutiche (che però non è in grado, pur attaccando spietatamente il manuale, di formulare un’alternativa plausibile ad esso)
- Quella dei suoi più fedeli “esegeti”, la posizione naif la chiamerei, che vede in esso un neutro agglomerato di criteri diagnostici e nozioni psichiatriche che deve essere letto alla lettera
Ma questa intima scissione non rispecchia forse la differenza lacaniana tra realtà e Reale secondo cui la prima è la realtà “sociale” delle persone in carne ed ossa che sono (simbolicamente) coinvolte nell’utilizzo/somministrazione del manuale, mentre il secondo è proprio questa logica spettrale e astratta che determina gli effetti del DSM come scienza moderna? O meglio, questa situazione non riproduce forse l’attuale quadro etico che vede contrapporsi da un lato la cieca insistenza di una pulsione che segue imperterrita il proprio corso, sbarazzandosi di ogni argine possibile (la jouissance scientifica che, slegata da qualsiasi scopo comunitario, trova soddisfazione nel mero atto di riprodurre se stessa) all’etica della prudenza come misura e contenimento subordinati ad una visione simbolica, umanistica del “Bene” (i tentativi della bioetica, ad esempio, di reinscrivere l’attuale fuga epistemofilica in un reticolo morale che la umanizzi)?
E non è forse questo, al di là della sua convenzionale lettura proustiana, il senso intrinseco de Il posto delle fragole (1957), capolavoro di Ingmar Bergman?
Isak Borg, eminente medico ormai al crepuscolo della propria vita, deve percorrere un lungo viaggio in auto per partecipare ad una cerimonia accademica in suo onore. L’intreccio superficiale e cronologico del viaggio viene raddoppiato da una seconda linea narrativa onirica e atemporale (una sorta di freudiana contrapposizione tra processo secondario e primario) che, letteralmente, espone gradualmente gli ingranaggi della psiche del protagonista[vii] e il modo in cui essi riattualizzano, retroattivamente, la storia della sua vita. Il punto focale del film è molto probabilmente il momento in cui, nel bel mezzo del sogno dell’esaminatore, quest’ultimo chiede a Isak quale sia il primo e inderogabile dovere di un medico (quello di “chiedere perdono”). L’incapacità di Isak di rispondere a questa domanda costituisce il punto di capitone, la grossolana impunitura che arpiona e riscrive après-coup la sua vita in un desolante orizzonte di senso: la sua solitudine è frutto dell’egoismo e della spudorata freddezza con cui egli ha condotto la sua (seppur eminente) carriera di medico. Possiamo allora intendere la restante parte del film come una (ri)significativa sostituzione dell’asettico corpus medico-scientifico (la disperata crescita delle tecnologie che disumanizza ciò che vi è di più intrinsecamente umano: il perdono) all’ascolto e alla risonanza della verità soggettiva. O meglio, lacanianamente parlando, la seconda parte del film è deputata alla sostituzione del “vuoto” discorso scientifico alla parola piena del desiderio. Da questo punto di vista, l’uso feticistico che Isak ha fatto per una vita del proprio oggetto scientifico si rivela essere lo schermo per evitare il confronto con lo svelamento radicale dell’enigma del desiderio dell’Altro. In questo caso, il discorso della scienza di cui l’emerita carriera di Isak è l’epitome, non deve essere ridotto alla scienza ontica tout court: che esso trascenda la mera logica oppositiva tra scienza-religione, razionalismo-spiritualismo è esemplificato dall’estraneità di Isak all’acceso dibattito tra i due giovani (il medico e il teologo). Allora, lungi dal ridursi ad un mero reindirizzamento dell’illimitata pulsione tecnico-scientifica entro i confini umanizzanti (ma comunque ad essa immanenti) della prudenza etica umana (discorso che ricadrebbe, in ambo le versioni, nella trappola del diniego feticistico summenzionato), Il posto delle fragole si impone piuttosto come la denuncia dell’impossibilità, nell’era forsennata della tecnica, di condurre un’esistenza genuinamente significativa. Del resto, non possiamo riportare lo stesso perdono al salto di fede (inteso come atto non sorretto da alcuna tematizzazione preventiva) necessario per aprirci al confronto abissale col desiderio dell’Altro? La vicinanza tra il perdono (nella sua evenemenzialità) e l’apertura epocale al desiderio dell’Altro viene rimarcata dal fatto che entrambi, per quanto apparentemente soggettivi, si basano su di una fondamentale de-soggettivazione: la loro assunzione passa per un coinvolgimento esistenziale che non può mai essere assunto dal soggetto come verità su se stesso, ma deve rigorosamente scaturire da una sospensione della storicità, infatti
- Il perdono autentico, nel senso levinasiano del termine, per essere tale, deve avere luogo dinnanzi l’abissalità del volto altrui, ovvero non può mai passare per la garanzia del terzo simbolico (tribunali, pubblici amministratori e giustizia tout court) e, pertanto, serba lo status di una conoscenza che non può mai essere soggettivata – motivo per cui esso non avviene mai una volta per tutte, ma deve essere continuamente rimesso in atto
- Il desiderio dell’Altro, nella sua apertura traumatica, mi de-soggettiva nella misura in cui, dinnanzi alla totale inassimilabilità dell’alterità, il mio essere soggetto si riduce ad essere, tutt’al più, oggetto del desiderio dell’Altro (e, sempre rimanendo in territorio levinasiano, è qui che sta, di converso, la reciproca responsabilità dell’Altro nei miei confronti).
Mi sembra di poter dire che per Eugenio Borgna invece, questo fondo non formalizzabile, questo qualcosa che significa senza essere esso stesso significato, sia la speranza. Sebbene il suo ultimo testo, L’arcobaleno sul ruscello, non sia denso come altri suoi importanti scritti, il costrutto della speranza emerge da esso con tersa chiarezza. Ci sono alcuni punti cruciali che ci permettono di accostare la colpa psicoanalitica di Benvenuto alla speranza di Borgna (non ultimo il fatto che entrambe trovino il loro principale riscontro psicopatologico nella melanconia):
- Prima di tutto, possiamo accostarci ad entrambe esclusivamente per mezzo di analogie e (ri)costruzioni: se infatti la prima è rinvenibile solo a partire dalla sua supposizione analitica, ossia dal fatto che il soggetto ponga retroattivamente i suoi presupposti come necessari (si pensi alla seconda fase della fantasia di percosse esposta da Freud in Un bambino viene picchiato, che è inconscia e oggetto di costruzione analitica, così come al passaggio de L’Io e l’Es in cui, anni dopo, “ammette l’impossibilità che il soggetto riconosca la colpa (…) a meno che non si tratti della colpa dell’Altro a cui si è identificato, cioè di una colpa ‘presa in prestito’”[xii]), la seconda è da intendersi come una serie di immagini infinite (“le immagini della speranza sono infinite”[xiii]) che “si dispiega nel solco di infiniti orizzonti di significato”[xiv], lasciando intendere che la sua essenza può essere colta solo nella supposizione retroattiva del suo potere causale
- In secondo luogo, e in stretta considerazione con il punto precedente, entrambe le nozioni, pur traendo la propria serie esemplificativa après-coup, assolvono la loro funzione etico-politica attraverso l’irriducibile apertura all’avvenire che il loro carattere non-formalizzabile comporta: sebbene da un lato la colpa come principio dell’accadere psichico tragga il proprio senso solo in riferimento alla ripetizione, è il riconoscimento a precedere paradossalmente la conoscenza (si pensi, ad esempio, al ritorno del rimosso che certifica l’avvenuta rimozione), anche la speranza di Borgna è, fondamentalmente, “memoria del futuro”[xv] (quando Borgna, più avanti, parla di “speranza creatrice”, questo secondo attributo è da intendere nel senso puramente kantiano del giudizio analitico: possiamo districare la speranza – come principio rivelatore semi-trascendentale – da le speranze nel senso ontico e corruttibile del termine solo mediante una preventiva sospensione delle attribuzioni di significato ordinarie e quotidiane). Ma questa emancipazione della speranza dall’ordinario (“poterci avvicinare [al] mistero della speranza (…) è possibile solo se in vita riusciamo a liberarci dalle nostre quotidiane occupazioni”[xvi]) non è da intendersi come una trascendenza assoluta (sebbene il discorso di Borgna sia, a mio parere, più riconducibile ad una sistematizzazione in chiave psichiatrica della teologia kierkegaardiana e levinasiana, più che alla fenomenologia minkowskiana): lo svincolarsi della speranza da un’esistenza programmatica è non la causa, quanto l’effetto della sua intrinseca anteriorità, in cui “quotidiano” non è sinonimo di ontico, esistentivo, ma di già-avvenuto e, pertanto, già (ingabbiato dal processo di) significazione. Anche il saggio di Benvenuto, che dopo una rigorosa dissertazione identifica la ripetizione al sintomo, termina con una tesi che, prescindendo dalla sua chiave psicoanalitica, è non dissimile: “la ricorrenza del sintomo è quindi sempre lo scacco di un’interpretazione, cioè un riconoscimento interminabile”.[xvii]
Al di là del luogo comune dell’ospedale come luogo di cura, da intendere come sede contingente che ospita la somministrazione di determinate pratiche medico-psichiatriche, anziché come il foucaultiano apparato curante che genera i suoi stessi “utenti”, e di una psichiatria non dei fatti ma orientata “all’interiorità dei pazienti”,[xviii] secondo cui lo spazio esistenziale della malattia-come-sofferenza (e non come bruta etichetta nosografica) si aprirebbe solo attraverso “un [bisogno di] ascolto che non si limiti a dare senso”, a chiudere gli argini medico-biologici, ma che “apr[a] i confini” del colloquio “all’interiorità dei pazienti”[xix], e non alla loro piatta riduzione fenomenica, mi sembra di capire che l’intero programma di Borgna si regga su di una frattura inconciliabile, uno spazio aperto tra la dimensione medico-psichiatrica e quella fenomenologico-esistenziale: l’abissale differenza tra “da una parte la fragilità della ricchezza umana dei pazienti” e dall’altra “la freddezza tecnica astratta degli psichiatri”, “la violenza della psichiatria e la fragilità estrema (…) di chi soffriva”.[xx]
A detta di Borgna, questo abisso spalancato dalla frattura tra il pedante organicismo e l’inenarrabile fragilità dell’umano (concetto che negli studi umanistici ricorre con inesauribile insistenza, sebbene in forme e schematizzazioni differenti: si pensi all’Hilflosigkeit freudiana come non-adattamento di base dell’homo sapiens o all’Entwesung marxiano dell’impoverimento pre-soggettivo dell’animale umano come sua costitutiva indeterminazione) sarebbe particolarmente presente nel panorama psichiatrico italiano e questo in virtù dal suo scollamento dalla tradizione di lingua tedesca (psichiatria tedesca, svizzera, ma anche olandese). Mentre quest’ultima infatti avrebbe offerto un più solido contraltare all’imperversare del medicalismo scientifico (sorretto dalle radici idealiste e dalle susseguenti correnti filosofico-letterarie, che si sono concentrate sulla riflessione sulla sofferenza umana senza imprigionarla in una forma nosografica aprioristica), la psichiatria italiana avrebbe scotomizzato il panorama antropologico ed umanistico ripristinando un dualismo cartesiano tra cosa pensante e cosa estesa che ha trovato nella “degenerazione irrispettosa della sofferenza”[xxi] un terreno fertile alla clausura nosografica. Il “continuo dialogo tra i risvolti di una esteriorità comportamentale (…) e di una interiorità decisiva”,[xxii] che ha visto in Jaspers il suo principale maestro e promotore (non a caso uno psicopatologo di grandi doti filosofiche), ha permesso di compiere un’inversione cruciale: sebbene infatti la doxa veda in queste dottrine l’inedito sguardo all’interiorità dei pazienti, la verità epistemica del contributo di Jaspers risiede piuttosto nell’estensione di questo sguardo introspettivo agli stessi psichiatri (concetto non dissimile dalla visione lacaniana del primato del controtransfert rispetto al transfert). Per Borgna, questo prevalere dell’istanza teorica su quella antropologica ha segnato l’Italia quale paese incagliato in una psichiatria come luogo teorico, eccessivamente arpionata all’esperienza patologica come “un evento biologico da distruggere”.[xxiii] Questo peccato originale ha aperto la strada all’instaurazione semi-dogmatica delle politiche del DSM, per il Maestro il principale agente di scotomizzazione della persona, che anziché predicare la propria (presunta) ateoricità in maniera neutrale (ovvero non interferendo materialmente nel qui ed ora della situazione terapeutica), finisce per ipostatizzarsi come concreto ostacolo alla colloquialità.
In questo senso, a partire dal DSM, la psichiatria italiana non ha fatto altro che affossarsi ancor di più nel paradosso: il DSM, che avrebbe dovuto incarnare il “diritto nosografico” dell’uomo per eccellenza, emancipando la psichiatria dalla condizione di “parente povera” delle altre branche mediche, “una disciplina primitiva del tutto impastoiata in sistemi speculativi ben poco scientifici”,[xxiv] oltre a far trionfare un approccio meccanografico, ha finito per rinunciare ad ogni ambizione scientifica. Come puntualizza Benvenuto infatti, a fare problema nel DSM, l’odierno esperanto della psichiatria, sarebbe proprio il fraintendimento originario della nozione di scientificità. Questo non solo perché “quando si rinuncia programmaticamente a formulare teorie, o a confrontarsi con teorie già formulate, si rinuncia ad ogni ambizione scientifica”[xxv] (con il detrimento eziopatologico che una simile mossa comporti), ma anche per il pantomimico rovesciamento che avviene nel connubio tra psichiatria e psicofarmacologia rispetto alla medicina propriamente detta. Infatti, scrive Benvenuto, la psichiatria-cervello-rotto si fonda sul fatto che “il carro farmacologico è stato messo davanti ai buoi dell’eziologia”.[xxvi] Difatti, attraverso questa impostazione, la psichiatria attuale nega il nesso causale convenzionale secondo cui “si scopre prima la causa di una malattia e poi, a partire da questa conoscenza, si lavora alla cura”[xxvii] a vantaggio di un meccanismo pseudo-scientifico che fa derivare le proprie ipotesi dalla pratica farmacologica, anziché il contrario (ovvero far sì che sia la pratica farmacologica a derivare dalle ipotesi scientifiche).
Ma al di là della critica alla psichiatria strutturale o oggettivista (di cui il DSM costituisce solamente un caso, per quanto esemplare), credo che il nocciolo della rassegna, gli argomenti solitamente sottovalutati che essa lascia emergere, siano da rintracciare a livello della discussione e ai riferimenti, passim, a Basaglia e alla concezione di manicomio come Lager. È risaputo che la psichiatria sociale, così come alcune branche dell’anti-psichiatria di Laing e Cooper, avvicinino la cultura manicomiale ai campi di concentramento. Ad oggi, 40 anni dopo la 180, ritengo che non sia possibile affrontare un simile discorso senza chiamare in causa la componente bio-politica della separazione morfologica greca tra zoé (il semplice fatto di vivere) e bios (la forma di vita, propria di un individuo o gruppo particolare). Il lager come epitome dello stato di eccezione (quello in cui la nuda vita biologica è revocata da ogni sua investitura simbolica) apparirebbe analogo al manicomio in quanto entrambi trasformano tale stato eccezionale in norma permanente: in entrambi, la nuda vita diventa la forma di vita dominante, l’eccezione si fa norma. Se per Basaglia infatti “il malato [internato] è un uomo senza diritti”[xxviii], per Agamben è il musulmano a rappresentare “la più estrema figura”[xxix] dell’abitante del campo di concentramento. Entrambe le figure, accomunate dalla loro radicale de-simbolizzazione, verrebbero ridotte ad uno stato grigio “in cui nuda vita e vita politica entrano (…) in una zona di assoluta indeterminazione”.[xxx] Se infatti la dinamica di de-simbolizzazione del soggetto a nuda vita del lager passa per la realizzazione giuridico-politica dell’eccezione, per Basaglia è “il perfezionismo tecnico-specialistico [a] far accettare l’inferiorità sociale dell’escluso”.[xxxi] Insomma, la principale comunanza tra le due dimensioni risiederebbe nella loro logica di “inclusione esclusiva”, tramite cui i soggetti interessati, per essere deprivati del proprio valore simbolico (Agamben chiama l’inscindibilità tra zoé e bios “forma-di-vita”), e dunque ridotti a “pura vita biologica senza alcuna mediazione”, devono prima essere integrati nello stato (di diritto) d’eccezione. In altre parole, per Basaglia, il rovesciamento del sistema scientifico e istituzionale (quella che ai tempi de L’istituzione negata chiamava crisi del sistema psichiatrico) può essere “messo in discussione [solo] dalla presa di coscienza del campo specifico, particolare in cui si opera”.[xxxii]
Eppure, se è risaputo che il pensiero tanto chiaro quanto radicale di Basaglia fosse votato ad una ri-umanizzazione intransigente della follia (che 10 anni dopo L’istituzione negata si sarebbe concretizzata nella 180), che ha trovato unanime consenso nella cessazione di interventi barbarici come l’elettroshock e le contenzioni, la posizione di Borgna, a riguardo, nonostante molte sue letture tendano a farne una sorta di gemello eterozigote della psichiatria sociale, è più sfumata e problematica. Nel frammento 7 della rassegna, La legge 180 e Basaglia, lo psichiatra accenna ad una nostalgia non ancora cancellata nei riguardi “di un modo di fare psichiatria prima della 180”.[xxxiii] Infatti, per quanto Borgna si schieri assolutamente a favore della 180 come atto giuridico-politico (un favoloso modo, da parte di Basaglia, di trasformare i principi esistenziali dei discorsi fenomenologici in un atto in grado di cambiare il mondo), la sua totale adesione alla chiusura aprioristica dei manicomi è tutt’altro che definitiva e, oggi, assume particolare importanza per rivoltare la sedimentazione aforistica con cui si tende a schiacciare la nozione di manicomio su quella di lager. Questa analisi critica del manicomio come non-tutto demonizzato, per quanto meriterebbe di essere ulteriormente sviluppata, si fonda su di un presupposto essenziale: la tesi di Borgna, che ci deve invitare a riflettere sul significato dell’istituzionalizzazione, è tanto (apparentemente) controversa quanto (inequivocabilmente) chiara: se il manicomio, se abbandonato nelle mani sbagliate, costituiva un campo di nevralgica dissoluzione dei diritti umani (dei folli ridotti a forme di vita neutralizzate e impietosamente ammucchiate), in cui la vita perdeva la propria dignità simbolica e diveniva pertanto “uccidibile”, d’altro canto, nota Borgna, era possibile destinare questo spazio “anomico” ad una dimensione di sospensione contingente (nei termini di Basaglia, il suddetto “campo specifico, particolare”) in cui il tempo terapeutico venisse sganciato ed emancipato dal tempo cronologico prefissato e prefigurato della malattia come concepita a livello ospedaliero o istituzionale. In altre parole, la zona grigia manicomiale favoriva quello spazio di “colloquio autentico” necessario a mettere tra parentesi l’esperienza e la stessa malattia e, pertanto, fertile per la manifestazione della speranza come passione della possibilità di ciò che è impossibile.[xxxiv] Il fatto che, come ammesso dallo stesso Borgna nell’ultimo frammento, egli non sia mai stato in grado di radunare il suo prezioso retaggio in un insegnamento formale (il fatto che, in breve, non abbia fondato la sua Scuola), ostacola la possibilità di condurre questo discorso sino infondo. Ma, d’altro canto, la sua tesi è, biopoliticamente parlando, estremamente chiara: se lo spazio anomico del manicomio rischiava di spazzare via l’esistenza umana e di ridurre il folle ad un musulmano della psicopatologia, non per questo deve apparirci scontata la legittima istituzionalizzazione della follia ad opera della burocrazia nosografica attuale. Se sviluppiamo ulteriormente questo discorso, portandolo alle sue estreme conseguenze, ci accorgiamo però che il programma di Borgna non si distanzia troppo da quello dello stesso Basaglia. Quest’ultimo infatti, in Le istituzioni della violenza, scrive: “l’unico atto possibile da parte dello psichiatra [è] quello di non tendere a soluzioni fittizie, ma di far prendere coscienza della situazione globale in cui si vive, contemporaneamente esclusi ed escludenti.”[xxxv] Nel frammento 7, dice invece Borgna: “le rivoluzioni, seppur indispensabili, spengono le poche braci di rispetto, salvaguardia, valori non sempre rispettati, seppur fuori dai manicomi…”.[xxxvi] Portando ad un’ipotetica sintesi i due discorsi, notiamo come sia lo stesso Basaglia, in primis, ad opporsi non solamente alle soluzioni anomiche, ma a qualunque soluzione fittizia. A riguardo, considerato anche quanto detto sinora sul DSM e i limiti ideologico-politici delle attuali frontiere della psichiatria, dobbiamo prendere coscienza da un lato di come la rivoluzione di Basaglia sia stata sì un eccezionale evento rivoluzionario, ma dall’altro anche di come, affinché la portata di una simile conquista non venga sottostimata e lasciata riposare nel concetto hegelo-kojeviano di fine della storia (ovvero di un tutto già compiuto e della tirannica sussistenza della stasi nichilistica), essa venga considerata come un inizio, e non una soluzione ultimativa dell’umanizzazione della follia.
Detto in termini controversi, ma utili: è oggi necessario mantenere una certa distanza scettica dalla storica impresa di Basaglia perché, altrimenti, rischieremmo di compiere lo stesso errore in cui inciampa ciascuna grande rivoluzione che si voglia dir tale. Solo questo distanziamento oggettivante dall’estasi della vittoria ci permetterà di poter guardare al fantomatico “giorno dopo” della rivoluzione e di trarre, da esso, un chiaro segnale di come l’imposizione della psichiatria post-manicomiale possa affermare la radicale diversità del nuovo ordine rispetto al vecchio. Indugiare nel già compiuto, cosa che Borgna ci dissuade dal fare, rischia di spegnere quelle braci di continuo rinnovamento, quelle braci di speranza, che l’etica – psicoterapeutica o psichiatrica che sia – assume come suo fondamento imprescindibile.
Di conseguenza, Basaglia sarebbe stato messianico nel senso che Walter Benjamin aveva dato a questo termine (colui che realizza uno stato di eccezione rimasto, fino a quel momento, solo virtuale), ma Borgna, oggi, ci può ricordare che la 180 non è da confondersi con l’Ereignis di Heidegger, l’evento ultimo che rivela il principio storificante della storia, errore che avrebbe il sapore del nichilismo o, in chiave ancor più ingenua, di hegeliana fine della storia (della psichiatria), ma che dobbiamo piuttosto guardare ad essa come ad un evento che fondi, in chiave quasi-teologica, l’inizio del “tempo che resta”.[xxxvii] Solo questa prospettiva, a mio avviso, è in grado di perseguire un principio etico della psichiatria come sempre-migliorabile, come attivamente votata al superamento delle sue stesse impasse e, come direbbe Borgna, votata ad assumere su di sé il principio affermativo della speranza come “passione del possibile, ovvero [il] rintracciare come possibilità ciò che è impossibile”.[xxxviii]
In questo, Borgna e Basaglia condividono la comune testimonianza di come sia solo il mantenere accese le braci (il lacaniano attraversamento del fantasma, che deve essere compiuto più e più volte) a far sì che la nozione di follia si scrolli continuamente di dosso le rigidezze ideologiche e i facili fraintendimenti che il suo tragico terreno comporta. Ma non è esattamente questo che voleva dire lo stesso Basaglia quando nel ’68, al di qua della rivoluzione, scriveva che è necessario “prendere [continuamente] coscienza della situazione globale in cui si vive”?[xxxix] Come in quegli stessi anni scriveva anche Pasolini, “ciò che è importante non è il momento della realizzazione dell’invenzione, ma il momento dell’invenzione. Invenzione permanente, lotta continua.”[xl]
Bibliografia
Agamben G.,
- Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005.
- Mezzi senza fine. Note sulla politica, Boringhieri, Torino 2013.
Benvenuto S.,
- DSM-5. Psicofarmaci e “cervello rotto” in Sistemi Intelligenti / a. XXXVIII, n. 2 agosto 2016, pp. 423-440.
- Riconoscimento e ripetizione, in Giornale storico di psicologia dinamica. 7 gennaio 1980, Liguori, Napoli, pp. 168-186.
Borgna E., L’arcobaleno sul ruscello, Cortina, Milano 2018
Lacan J., Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi 1969 – 1970, Einaudi, Torino 2001.
Pasolini P.P., Saggi sulla politi
Ho dovuto leggerlo piu’ volte
Ho dovuto leggerlo piu’ volte per cercare di capire .
Articolato su piani di discipline diverse con una legatura fra loro senza interruzione di continuita’ e contemporaneamente di grande scientificita’ e di respiro umanistico .
Non puo’’ essere solo letto, senti il bisogno di meditarlo. Grande pezzo che induce veramente a tenere accese le braci.
Complimenti e ringraziamenti al dr, Giole Cima.
Termino con le parole di Borgna: “Ma non c’e’ comunicazione in psichiatria, e non solo in psichiatria, se non quando si abbiano parole capaci di creare un ponte tra la soggettività di chi parla, e quella di chi ascolta, la soggettivita’ di chi cura, e la soggettività di chi e’ curato; e quando ci siano corrispondenze fra il tempo interiore dell’una e quella dell’altra.”