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La letteratura può salvare la psicanalisi?

11 Set 18

A cura di Antonello Sciacchitano

 

La letteratura nasce molto prima della scienza. È una banalità storica la mia, che tuttavia non è tanto banale in rapporto alla psicanalisi, la quale onestamente riconosce agli artisti il merito di arrivare prima degli psicanalisti a intuire il senso della vita ecerte verità psicologiche.

La letteratura greca esordisce con due grandi romanzi, uno collettivo, l’Iliade, l’altro individuale, l’Odissea. In Israele la letteratura produce una collezione di libri “sacri” che narrano, celebrano, addirittura anticipano la storia del popolo di Dio e dei suoi eroi. In tutte le culture la maggioranza delle produzioni letterarie esordisce come narrativa: in tutti i miti fondatori delle civiltà la diacronia prevale sulla sincronia.

Esistono però ovunque momenti letterari eccezionali – direi estatici, nel senso in cui Elvio Fachinelli parlava di Mente estatica– in cui la sincronia sopraffà la diacronia. Sono i rari momenti di singolarità assoluta in cui si afferma la poesia lirica, individuale prima che collettiva, dove però l’individuo va alla radice intima del collettivo e l’individuale sgorga dall’humus della vita comune. Allora abbiamo Saffo:
 
Tramontata la luna
e le Pleiadi a mezzanotte;
fugge l’ora
e dormo sola;
 
e Alceo in Grecia, i Salmi e il Cantico dei Cantici in Israele.

In psicanalisi c’è molta narrazione; c’è molta diacronia, almeno in clinica. Si pensi alle narrazioni edipiche, che confluiscono nei cosiddetti casi clinici. Di sincronia, invece, c’è poco o nulla. E pensare che Freud ha teorizzato l’inconscio come atemporale, zeitlos, cioè sincronico. Come si spiega la discrepanza tra teoria e pratica? La domanda peregrina è: perché nella pratica psicanalitica non c’è poesia? Perché i nevrotici raccontano ai loro analisti solo tanti romanzi familiari di livello letterario molto basso, prossimo al pettegolezzo.

Da esperto psichiatra qual è, Francesco Bollorino ha intuito il nocciolo della questione, che invece non è peregrina, intitolando una rubrica di questa rivista: “Una poesia al giorno toglie l’analista di torno”, in collaborazione con Maria Ferretti. Ben venga la poesia se, esulando da schemi dogmatici, ci libererà dai tecnocrati della psicanalisi. Nella pratica psicanalitica, invece, oggi non si pratica la sincronia; se provi a introdurla la psicanalisi sparisce.

Sulla ragione per cui la psicanalisi non fa posto alla sincronia, ho una mia teoria, che esito a esporre perché so la diffidenza con cui è generalmente accolta dai gusti umanistici prevalenti. Il campo freudiano è infatti immerso in un umanesimo deteriore, che ignora l’esistenza di un florido umanesimo matematico, tutto italiano, già ai tempi di Galilei, Luca Valerio, Guidubaldo dal Monte, Bonaventura Cavalieri, Evangelista Torricelli, e teme come la peste la possibilità che la psicanalisi diventi scienza, senza verità categoriche ma con dubbi, conferme e confutazioni. Detto in breve e in modo sommario, la mia ipotesi è che in psicanalisi non c’è sincronia, quindi non c’è poesia, perché non c’è scienza o ce n’è poca.

Il rapporto tra scienza e letteratura vive di una segreta proporzionalità: più c’è scienza, più ci sono romanzi e viceversa. Sembra che la diacronia narrativa si rinforzi con il rinsaldarsi della sincronia scientifica. Provo a dirlo meglio, perché così è criptico.

Dopo l’exploit dei poemi omerici, la letteratura narrativa classica ha ristagnato in ambito storiografico pur con grandi nomi come Erodoto, Tucidide, Plutarco, Tito Livio, Cornelio Nepote, Svetonio, Tacito… L’unico romanzo attestato è Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (III secolo). Tuttavia, quasi all’improvviso, quando si profilò l’ingresso in scena della scienza, la letteratura narrativa ebbe un guizzo, un sussulto d’orgoglio: Rabelais, Cervantes, Ariosto dissero la loro, e non erano ancora autori di fantascienza. Fu come se il profilarsi della sincronia scientifica abbia sollecitato la competizione con la diacronia, che rispose con abbondanza di narrazioni più o meno fantastiche. Da allora le due dimensioni procedono parallele, ognuna soffiando nelle vele dell’altra. Parallele vuol dire che non si incontrano mai o, come dicono i matematici, si incontrano all’infinito.

L’infinito, ecco il giunto tra letteratura e scienza. L’infinito è il punto dove diacronia e sincronia si coniugano nella parzialità. L’infinito non può essere romanzato tutto, sarebbe interminabile, né esibito tutto, sarebbe finito. In matematica si dice che l’infinito è una struttura non categorica; si intende che può essere presentato attraverso modelli tra loro non equivalenti, che colgono alcuni tratti ma non tutti della “cosa infinita”: c’è l’infinito discreto del contare e del raccontare; c’è l’infinito continuo del disegnare e dello scolpire e ci sono tanti altri infiniti, ordinati da Cantor per estensione crescente, tutti tra loro essenzialmente diversi, cioè impossibili da metterli in corrispondenza biunivoca. La cartesiana res extensa è il luogo dell’infinito, anzi degli infiniti infiniti, con cui la res cogitans se la cava come può. Il filosofo direbbe che l’infinito è una “cosa” non concettuale, perciò regolarmente fuorclusa dal discorso filosofico, che si estenua a produrre nuovi concetti (Deleuze), trascurando le cose.

L’umanista che ha cercato di seguirmi fin qui ha già perso il filo. Provo a rimetterglielo in mano. Molto probabilmente gli sfugge il nesso tra diacronia e sincronia sullo sfondo dell’infinito non concettuale. Cosa c’entra l’infinito tra diacronia e sincronia? È chiara la diacronia della narrazione, come successione di eventi, visti in avanti o all’indietro. Nel tempo della narrazione l’infinito si prolunga nell’interminabile. Meno chiara la situazione dell’infinito nella sincronia. O no? “M’illumino d’immenso” (Ungaretti), non è abbastanza illuminante? Il poeta, in due versi, meno dei 15 di Leopardi, [1] fa vedere che l’infinitamente presente è tutto lì, fuori dal tempo. La sincronia è l’extratemporalità, su cui la storia non fa presa ma la poesia (o la mistica) può gettare uno sguardo statico-estatico, quotidiano ma eternizzato.
 
Sono saltati giù dai piani in fiamme –
uno, due, ancora qualcuno
sopra sotto.
La fotografia li ha fissati vivi,
e ora li conserva
sopra la terra verso la terra.
Ognuno è ancora un tutto
con il proprio viso
e il sangue ben nascosto.
C’è abbastanza tempo
perché si scompiglino i capelli
e dalle tasche cadano
gli spiccioli, le chiavi.
Restano ancora nella sfera dell’aria,
nell’ambito di luoghi
che si sono appena aperti.
Solo due cose posso fare per loro –
descrivere quel volo
e non aggiungere l’ultima frase. [2]
 
E la scienza come fa? Sì, la scienza ce la fa ad approcciare l’infinito sincronico: lo spazializza. È una storia affascinante, sconvolgente per l’intelligenza ontologica classica, fissata alla diacronia di essere e tempo.

Chi non conosce il paradosso di Zenone della freccia ferma? Scoccata dall’arco in posizione A, la freccia diretta verso il bersaglio B non lo raggiunge mai. Infatti, prima di raggiungere B deve raggiungere il punto medio tra A e B, (A+B)/2 in coordinate cartesiane; ma prima ancora deve raggiungere il punto medio tra A e il punto medio tra A e B, in formule il punto (3A+B)/4, prima ancora il punto (7A+B)/8, poi (15A+B)/16 e così via all’infinito. Dovendo attraversare infiniti punti (sempre più vicini), la freccia non raggiunge il bersaglio in un tempo finito; staziona indefinitamente in un intorno di A, arbitrariamente piccolo. (Lo si vede bene ponendo A=0). Il costrutto teorico della diacronia, intesa come successione di eventi, non consente di pensare il dato empirico del movimento. La cultura classica non concepì, infatti, la nozione di velocità; la sua fisica era una statica; tipicamente fu la meccanica delle leve in Archimede, di certo un progresso rispetto alla fisica antropomorfa di Aristotele, ma non ancora scientifica nel senso moderno.
Per pensare la velocità, in particolare l’istantanea, occorre spazializzare il tempo, riducendo la diacronia alla sincronia. Come? Come tangente alla traiettoria del mobile. Da fatto temporale la velocità diventa spaziale, un vettore nello spazio, la freccia diretta dal punto A al punto B, che curiosamente in geometria e in fisica una volta si scriveva a rovescio B–A. Il tempo in sé non esiste; esiste lo spazio misurabile e calcolabile. Infatti nel XVII secolo nasce il calcolo infinitesimale che tratta il tempo come lo spazio; una bestemmia per il filosofo di ogni secolo, in particolare penso al Bergson del secolo scorso che si accanì contro Einstein. [3]

Ma ecco la sincronia: nello spazio tutti i punti – gli infiniti punti dello spazio – sono sincronicamente co-presenti, almeno in un intorno abbastanza piccolo del mobile e almeno fino ad Einstein. Il tempo è definitivamente dissociato dall’essere, che diventa una peculiarità atemporale, come l’inconscio freudiano, che viene a mancare all’essere, giusta l’intuizione di Lacan. Mi fermo qui, sperando di non aver frastornato troppo l’umanista, per il quale questa topologia, i cui invarianti per trasformazioni di Lorentz – i quadrati degli intervalli spazio-temporali – non trovano sbocchi apparenti nella narrativa o in poesia. Sul tema dell’assenza del tempo assoluto in fisica rimando al fisico teorico Carlo Rovelli e in particolare al suo L’ordine del tempo. [4] Stabilito che il tempo è un artefatto contradditorio del pensiero ontologico, torno a Freud.

* * *
L’invenzione di Freud dell’inconscio sincronico fu scientificamente strepitosa. Preparò la strada all’innovazione lacaniana dell’inconscio strutturato comeun linguaggio: la langueabita la sincronia, la parolesi muove nella diacronia, insegna de Saussure. La scienza e la poesia, forse la psicanalisi, usano la parola per riportare la diacronia alla sincronia. Si chiama interpretazione. Purtroppo Freud non aveva gli attrezzi intellettuali per sviluppare la propria intuizione. Ci provòcon la Nachträglichkeit– l’azione differita – ma poi gettò la spugna. [5] L’assetto eziologico della metapsicologia, dove la causa determina necessariamente l’effetto, non gli consentì di pensare la retroazione dell’effetto sulla causa, a sua volta effetto del proprio effetto.

Questi due grandi autori, Freud e Lacan, che pure non furono uomini di scienza in senso stretto, essendo uno più vicino alla medicina, l’altro alla filosofia, hanno tuttavia nella loro tecnica conservato due tratti autenticamente scientifici, che privilegiano la sincronia sulla diacronia: il setting poltrona/divano in Freud e le sedute brevi in Lacan.

Al di là delle problematiche giustificazioni psicoterapeutiche, tanto patetiche quanto le simmetriche obiezioni,[6] tali aspetti, apparentemente solo tecnici della psicanalisi, rientrano perfettamente nella sincronia della meccanica galileiana, in questo diversa dall’archimedea. Voltando le spalle all’analista, l’analizzante – il parlante – non gli racconta una storia, perché non lo pone in posizione di interlocutore: non si rivolge a lui, ma a qualcosa di indefinitamente presente che aleggia nel suo intorno, gleichschwebend, ugualmente fluttuante, cioè uniformemente distribuita nello spazio, come la probabilità che si scopra una faccia qualunque lanciando un dado. L’analista freudiano è una presenza-assenza diffusa nella stanza d’analisi: una sorta di materia oscura ma trasparente, che interagisce apparentemente poco con la materia dell’analizzante; l’analista non è una persona cui riferire un resoconto; la sua attenzione ugualmente sospesa riempie lo spazio, ma non percorre il tempo. Il setting freudiano apre uno spazio poetico senza tempo, dove ha senso introdurre sedute brevi, magari senza neppure il tempo di sedersi, perché l’interazione tra analista e analizzante non è quella della fisica classica; l’accoppiamento transfert/controtransfert ha molte affinità con la correlazione quantistica, o entanglement,tra particelle elementari, che non dipende né dallo spazio né dal tempo. Grazie all’entanglement psicanalitico l’analizzante riesce a pensare in analisi quel che non aveva mai pensato, per esempio di sognare.

“Ho fatto un sogno”.
“Torni domani”.

Non è un dialogo; è pura enunciazione senza enunciato; apre uno spazio, non inaugura l’origine dei tempi; togliendo il tempo alla parole inaugura lo spazio della langue. È come “M’illumino d’immenso”, poetico nel senso di poietico, creativo: nel tempo di un lampo crea lo spazio dell’analisi.
Lo aveva già intuito Eraclito: Ta de panta oiakìzei keraunòs, [7] “il fulmine governa tutte le cose”.

Nonostante sia illuminante dal punto di vista epistemico, la seduta breve non esiste sul piano psicoterapeutico (ontologico), dove si vendono storie che curano, cioè manipolano l’Io; la validità dell’abbreviazione non è pratica ma teorica: senza tempo c’è lo spazio; tutto procede come nel calcolo della velocità istantanea su un intervallo di tempo infinitamente piccolo, dove il mobile sembra fermo; in realtà – non sfugga la differenza! – ha velocità costante, data dalla tangente alla sua traiettoria in un dato punto. Il calcolo differenziale, inteso come determinazione delle tangenti, è un calcolo lineare; introduce la teoria euclidea delle proporzioni nell’infinitamente piccolo, dove il curvo si rettifica, inaugurando un calcolo originale, ignoto a Euclide, vagamente preconizzato da Archimede, attraverso l’equilibrio delle leve (a loro volta strumenti lineari). Le equazioni differenziali della fisica classica non sono ambientate nello spazio cartesiano reale ma in uno spazio ad esso duale e isomorfo, lo spazio tangente.

Dal punto di vista medico sembrano astrusità tendenziose. In realtà le sedute brevi furono il trucco che permise a Lacan di guadagnare un sacco di soldi: 1 diviso va all’infinito, se va a zero. Ma va considerato anche il guadagno teorico dell’operazione concettuale lacaniana, che non si monetizza e su cui vorrei soffermarmi, a prescindere dal suo valore terapeutico pressoché nullo (giustamente, infinitesimo). Dal punto di vista terapeutico le sedute brevi hanno il valore della battuta di spirito fulminante. Si può curare una nevrosi con le spiritosaggini? Eppure Freud scrisse un saggio (noiosissimo) sul rapporto tra Witz e inconscio.

Ho parlato di vettori come frecce. Matematicamente parlando, un vettore è una traslazione rigida di tutto lo spazio – si parla anche di “trasporto parallelo” dal punto A al punto B. “Traslazione” è la traduzione ufficiale italiana di Übertragung(transfert) nelle Opere di Sigmund Freud, curate da Cesare Musatti. Il vettore transferale è la tangente del percorso di cura diretto dall’analizzante all’analista. Si scrive B–A. Questa scrittura suggerisce l’esistenza del contro-vettore A–B, diretto dall’analista all’analizzante, detto da Freud Gegenübertragung (controtransfert). 

Quando non sono esattamente collineari, cioè non si prolungano l’un l’altro, con versi concordi o discordi, i due vettori definiscono il piano della cura; fissano le coordinate in cui si trova la coppia analista-analizzante in base a qualcosa di simile alla regola del parallelogrammo; giustapposti uno accanto all’altro i due vettori determinano il clinamendella cura, perciò detta clinica. Quando il transfert è resistenza, si oppone alla cura, azzerandone il clinamen; ma esiste anche la resistenza dell’analista, come ha ben dimostrato Freud che, dopo il cosiddetto caso clinico dell’Uomo dei Lupi, ha cessato di parlare di controtransfert. Senza controtransfert o con controtransfert negativo, senza desiderio dell’analista – direbbe Lacan – non c’è lavoro psicanalitico, che è sempre lavoro collettivo. Non esiste la psicanalisi individuale, tanto meno l’autoanalisi.

A questo punto l’umanista ha perso per la seconda volta il filo. Dove è finito il riferimento alla letteratura? Dove sono finiti i due infiniti, quello diacronico e quello sincronico? Calma, non li abbiamo persi; sono ancora lì da 102 anni, dal poeta ligure fissati una volta per tutte nella poesia:
 
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

 
C’è l’infinito sincronico nel “meriggiare”, indicazione meteorologica “che abbaglia”, affacciata sul cronologico (nel doppio significato di “tempo”), ma in realtà statica, addirittura “assorta”; e c’è “questo seguitare una muraglia”, che restituisce una diacronia più umana e familiare, parallela alle “file di rosse formiche”. Il punto problematico, che finora ci è sfuggito, per incapacità strutturale dell’analista di parlarne, non inferiore all’impotenza dell’antico geometra, che non sapeva scriverla con una lettera, è la nozione di variabile, intesa come insieme finito o infinito di valori, dati nella sincronia.
Galilei correla due variabili, l’infinito dello spazio e l’infinito del tempo, sincronia e diacronia, nella parabola del moto uniformemente accelerato: 2s = at**2, che inaugura la meccanica moderna. Le variabili galileiane, st, “rappresentano” le due variabili infinite: quella sincronica dello spazio e quella diacronica del tempo, regolate secondo una legge algebrica di secondo grado dalla costante di accelerazione a.

E le variabili freudiane, se esistono? Il termine Variable non ricorre nelle 7000 pagine delle Gesammelte Werkefreudiane e neppure nei 13 libri degli Elementi di Euclide. Freud si arrabattava con il termine Quantität in modo puramente qualitativo a proposito della sua cervellotica termodinamica libidica.La lingua tedesca, dove incognita si dice “grandezza incognita” (unbekannte Größe), per la verità non lo aiutava. Ma senza variabili non si fa scienza alla Galilei. 

La variabile sincronica o spaziale di Freud è l’inconscio, in generale la provincia psichica. L’apparato psichico è esteso, secondo Freud, anche se di estensione non sa nulla. [8] In realtà è Freud a non saper poco o nulla di estensione, cioè di infinito. 
È una falla che la letteratura può sanare? Credo proprio di no, per ragioni quantitative. Si faccia un giro tra i banconi di una libreria. I libri di narrativa – infinito diacronico – superano di gran lunga i libri di poesia – infinito sincronico. Lo stesso è in psicanalisi; in tutte le sue scuole parlare di infinito come fatto poetico o scientifico fa orrore come la peste.

Concludo con una precisazione. Non è solo una preoccupazione teorica quella che mi fa mettere sul tavolo la questione del rapporto “infinito” tra sincronia e diacronia. Se la psicanalisi non recupera la dimensione sincronica, non perde solo la dimensione poetica della propria pratica, perde innanzitutto l’aggancio al soggetto collettivo in cui il soggetto individuale è immerso e che costituisce lo schermo su cui l’inconscio individuale proietta – direi collettivizza – i suoi fantasmi. Ultimamente la sincronia è il collettivo, cioè il soggetto dell’individuale. È un fatto: senza collettivo, cioè senza sincronia, anche il soggetto individuale diacronico evapora. 

E con lui va in afanisi anche la psicanalisi.

 

[1] Leopardi fu poeta filosofante e filosofo poetante, mi scrivono sul diario fb.
[2] W. Szymborska, “Fotografia dell’11 settembre”, in Id., La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), a c. P. Marchesani, Adelphi, Milano 2013, p. 607.  
[3] V. H. Bergson, Durata e simultaneità(1922), trad. F. Polidori, Cortina, Milano. La differenza tra il filosofo e l’uomo di scienza è che il primo si pone la questione del senso, mentre il secondo è indifferente al senso delle proprie teorie. Nel testo citato il senso filosofico risiede nella distinzione tra tempo fisico e tempo psicologico (o durata), il primo misurabile, il secondo no. Per il filosofo eracliteo “la cosa o lo stato [della sincronia] sono solo delle istantanee prese artificialmente sulla transizione; e questa transizione, l’unica a essere sperimentata naturalmente, è la durata stessa”. (Ivi, p. 45). Per Freud non c’è il tempo psicologico. Esiste solo il tempo epistemico, per venire a sapere quel che non si sapeva di sapere.
[4] Adelphi, Milano 2016.
[5] Cfr. il mio post In differita all’indirizzo http://www.psychiatryonline.it/node/7539.
[6] Curiosamente i termini Ruhebett Diwan non ricorrono nel Gesamtregister delle Sigmund Freud gesammelte Werke né il termine “divano” negli indici delle Opere di Sigmund Freud, curate da Musatti per Boringhieri. Tuttavia nel Gesamtregister ricorre l’espressione Liegen während Analyse (“giacere durante l’analisi”, SFGW, V, 4).
[7] Diels, 94.
[8] “La spazialità potrebbe essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun altra derivazione è verosimile. Invece delle condizioni a priori di Kant del nostro apparato psichico. La psiche è estesa; di ciò non sa nulla.” S. Freud, “Ergebnisse, Ideen, Probleme” (Risultati, idee, problemi, Londra, giugno 1938), in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVII, p. 150).
 

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