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La pastorale, antica e moderna Riflessioni a partire da: Michel Foucault, Les aveux de la chair 2018.

18 Set 18

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Ci sono voluti 34 anni, dalla morte di Foucault, perché si ricostruisse definitivamente quello che avrebbe dovuto essere l’ultimo volume della sua Storia della Sessualità, il quarto. Lavoro portato a termine da Frédéric Gros, che ha ricostruito il libro – o quel che Foucault ne aveva scritto – a partire da manoscritti e da parti già edite. E’ il volume – Le confessioni della carne – in cui Foucault si confronta con le concezioni cristiane, pre-medievali, della sessualità.
            Va ricordato che, a differenza di tanti altri storici di oggi, Foucault in questa Storia non si occupa dei costumi sessuali nel mondo occidentale se non marginalmente. Non cerca di ricostruire come la gente comune si comportasse a letto, chi sposasse, ecc.; si occupa dell’elaborazione teorica – da parte di filosofi, moralisti, teologi – a proposito della sessualità. Più che Storia della sessualità, dovrebbe essere chiamata Storia dei discorsi sulla sessualità. In fondo, l’approccio di Foucault è aristocratico: quel che conta è quel che i “filosofi” in senso lato hanno elaborato sul rapporto tra soggetto e impulsi sessuali. La decisione di Foucault sembra l’equivalente storiografico della strategia missionaria dei gesuiti: questi non perdevano tempo a convertire la gente comune, ma il loro principe. Foucault dà per scontato che, poi, anche le pratiche sessuali nelle varie epoche si adeguassero prima o poi allo stato dell’arte riflessiva sull’argomento.
 

 
            Foucault mette in chiaro che l’austerità della “pastorale cristiana della vita quotidiana” non è un’invenzione cristiana, ma continua essenzialmente la morale filosofica di autori pagani, in particolare stoici, come Plutarco, Musonio, Seneca o Epitteto. (La differenza però, aggiungerei, è che mentre la morale ascetica pagana era riservata appunto alle persone molto colte, a esseri in qualche modo superiori, quella cristiana intende essere una direttiva per tutti i cristiani e quindi, in prospettiva, per tutti gli esseri umani. La morale cristiana antica popolarizzava, direi persino democratizzava, un’ascesi che nel paganesimo non intendeva educare le masse.)



            La tesi di Foucault è che la differenza del cristianesimo rispetto ad altre morali di controllo della sensualità propria e degli altri è che questo controllo si fa attraverso una confessione (e questo ancora prima che la pratica della confessione venisse istituzionalizzata come sacramento). Confessando, una verità individuale si manifesta. “Enuncia la tua colpa al fine di distruggere la colpa” diceva S. Giovanni Crisostomo. L’enunciazione esplicita all’altro del proprio peccato, quindi del proprio desiderio colpevole, è nel cristianesimo un operatore fondamentale. Per esempio, secondo S. Ambrogio Dio punisce Caino non tanto per il fratricidio da lui commesso, quanto per l’impudenza di aver mentito a Dio, di non aver ammesso il proprio delitto davanti a Lui. E la confessione (aveu) non è tanto semplice comunicazione all’altro di qualcosa che già il soggetto sa di sé, ma è prima di tutto scoperta interiore della propria colpa. Si scopre di essere peccatori, e lo si deve riconoscere di fronte a un altro o all’Altro (Dio). “Il peccato quindi, nel momento stesso in cui infrange la verità di Dio o la sua legge – scrive Foucault – fa contrarre un obbligo di verità […] Nel cuore dell’economia della colpa, il cristianesimo ha posto il dovere di dir-vero”. “Il ‘dir-vero’ della colpa occupa nel cristianesimo un posto indubbiamente ben più importante e vi gioca comunque un ruolo ben più complesso che nella maggior parte delle altre religioni […] che richiedono la confessione dei peccati”. Ciò che perde il peccatore non è il peccato in sé, ma il non confessarlo e ammetterlo. “Il dovere di verità, come credenza e come confessione, è al centro del cristianesimo”. Foucault non lo dice esplicitamente in questo testo, ma è evidente quel che pensa: che l’etica della psicoanalisi oggi – riuscire a dire il proprio inconscio, ammettere i propri inammissibili fantasmi (quel che Lacan chiamerà “parola piena”) – deriva in qualche modo proprio dalla specificità cristiana, che lega la fede a una pratica del dir-vero. Anche se inventata da un ebreo, la psicoanalisi prosegue, in chiave laica, una strategia cristiana.
 
 
            Descrivere il pensiero cristiano attorno alla sessualità significa ricostruire il modo in cui, per secoli, i teologi hanno dovuto affrontare vari puzzle; in particolare, il modo in cui cercano di rendere coerente la morale della Chiesa che si andava precisando con la lettera delle Sacre Scritture e con l’argomentazione razionale. Un puzzle era come mettere assieme l’esaltazione della verginità con una certa santificazione, più tardiva, del matrimonio.
Già con S. Paolo, la verginità e la castità erano messe su un livello superiore rispetto al matrimonio (che all’epoca non era ancora un sacramento). Ma allora: perché Dio ha dato questa istituzione agli uomini? Ora, contrariamente alla Chiesa di oggi, nei primi secoli la morale cristiana non valorizza il matrimonio come strumento di procreazione. In un’epoca in cui la fine dei tempi appariva prossima, la necessità di riprodursi non era affatto in cima alle preoccupazioni teologiche. Il matrimonio era considerato soprattutto, paradossalmente, un modo di reprimere la concupiscenza ed esaltare la castità, dato che il cristiano sposato si accontenta della propria donna ed evita la fornicazione (ovvero, rapporti sessuali con persone diverse dal marito e dalla moglie).
            Nei primi secoli, il matrimonio è un legame indissolubile grazie a cui il corpo di ciascun coniuge non appartiene più a sé stesso, ma all’altro. In una cultura in cui la donna era considerata inferiore all’uomo, il matrimonio cristiano introduce invece – straordinaria discrasia – una perfetta parità sessuale tra uomo e donna. Se uno dei due coniugi richiede l’atto sessuale, l’altro (fosse anche l’uomo!) non può sottrarvisi. Il matrimonio, insomma, è una forma di schiavitù sessuale in cui ciascuno è allo stesso tempo schiavo e padrone dell’altro. Ciascun coniuge è in debito di rapporti sessuali con l’altro, e ciascuno ha diritto di usare sessualmente il corpo dell’altro. Dato che ci si sposa per porre un limite agli eccessi della concupiscenza, si chiede all’altro di assicurare questa limitazione. “Se vuoi astenerti [dal sesso] in accordo con il tuo coniuge – prescrive san Giovanni Crisostomo – che la cosa non duri molto”. Chi ha deciso di sposarsi piuttosto che votarsi alla castità è obbligato al sesso, perché questo è il modo di evitare la tentazione della fornicazione a sé e all’altro.
            Ora, per il pensiero cristiano dell’epoca il matrimonio è effetto della caduta dopo il peccato originale: nel paradiso terrestre non c’era matrimonio, ovvero – questa è la prima tesi che si fa strada – non c’erano rapporti sessuali. Il coito implica concupiscenza, che è effetto della caduta. Questa ha condannato gli umani al commercio sessuale e alla morte individuale (il rapporto sessuale era visto come una forma di corruzione del tutto simile alla morte; l’orgasmo era visto come un andare verso il limite della morte). Ma allora, che intendeva Dio quando ha detto ai due primi umani “crescete e moltiplicatevi”? E soprattutto, perché ha creato la donna, come se non bastasse Adamo? Il genesi dice “perché la donna aiuti l’uomo”, ma non nel senso di fare sesso assieme, perché allora non sarebbe stato paradiso. E allora, come si sarebbe procreato nel paradiso? Senza rapporto sessuale? Ma se non c’era bisogno del rapporto sessuale per riprodursi, perché allora la differenza sessuale?
            Foucault mostra l’evoluzione di questa problematica, da Giovanni Crisostomo in poi, fino a quella che gli appare la sistemazione finale più sofisticata, quella di Agostino di Ippona. S. Agostino ipotizza che nel paradiso Adamo ed Eva avessero sì rapporti sessuali, ma senza concupiscenza: essi dovevano “fare sesso” così come con le mani si avvita la ruota di un carro o con i piedi si cammina, attività puramente volontarie che non implicano un desiderio sensuale alla fonte. All’epoca il proprio sesso era un organo controllato dagli umani con la pura volontà, come braccia e gambe. Perché è questo il discrimine essenziale per S. Agostino (e lo sarà poi per gran parte della Chiesa successiva): l’anima è soprattutto libera volontà, mentre la sensualità, e quella erotica in particolare, è costrizione, ha la forma del bisogno fisico. Dopo la caduta, gli umani – il maschio in particolare – hanno perso il libero uso dei genitali, che funzionano solo se stimolati da libido.
           
 
            La Storia della sessualità nel suo insieme va letta su uno sfondo che l’autore ha esplicitato solo parzialmente nel primo volume, La volontà di sapere, e che chiamerei una presa di distanza dalla cultura di denuncia liberal-libertina dell’ascetismo. Una cultura da cui Foucault stesso proveniva. Questa cultura, oggi molto diffusa negli ambienti intellettuali, trova i suoi mentori essenziali in Nietzsche, Mill e Freud: tende a vedere la vocazione ascetica, prima pagana e poi cristiana, che si prolunga fino a fine Ottocento, come un “falso pregiudizio”, per usare un termine abusato. Essa prosegue la critica illuminista dei pregiudizi: come le fedi religiose sono superstizioni che devono lasciar posto alla razionalità scientifica, analogamente la repressione – sia laica che religiosa – della concupiscenza è effetto o di un errore cognitivo (l’idea che la sensualità sia dannosa alla salute) o di una lesione psichica, ovvero effetto di una morbosa rimozione delle pulsioni. Il controllo della libido è morbigeno. L’ascetismo è errore o patologia, o entrambe le cose assieme. Questa rivalutazione della sensualità e dei piaceri corporei (non si usa più il termine carne) da un secolo e poco più a questa parte ha finito con il contagiare la stessa teologia e moralità cristiane, che oggi appaiono molto meglio disposte nei confronti della vita pulsionale (purché non si commetta adulterio, la sessualità tende a essere oggi sacralizzata). In questa prospettiva laica, che ho chiamato liberal-libertina, dei sette peccati capitali andrebbero defalcati almeno lussuria e gola, i due più intimamente connessi alla vita pulsionale. Se si pensa che a fine Ottocento i medici positivisti (non religiosi quindi) erano ossessionati dalla masturbazione infantile come causa di vari disastri psico-fisici, e che quindi occorreva usare ogni mezzo per impedirla, si misurerà la distanza della nostra mentalità attuale, improntata in gran parte alla libertà sessuale. In effetti, nell’ultimo secolo nell’Occidente cristiano prevale la filosofia utilitarista (di Bentham, Mill…), secondo la quale l’essere umano è essenzialmente tendenza ad avere piacere e a evitare dispiacere. Tendere al piacere e fuggire il dispiacere è ciò che l’essere umano in ultima istanza è, ma anche ciò che l’essere umano dovrebbe in qualche modo cercare di essere. Secondo l’etica (anche sessuale) utilitarista la contrapposizione tra anima e corpo, o tra volontà e carne, è annullata, perché piacere e dispiacere sono allo stesso tempo cosa del corpo e cosa della mente.
Così, alla nostra cultura la paura della concupiscenza appare per certi versi un enigma. In effetti, condannare la paura della concupiscenza non è ancora spiegarla. Perché, da Platone ai moralisti vittoriani, in Occidente è fiorita – senza prevalere sempre, è vero – questa cultura di condanna morale o medica della sensualità? Foucault, da storico, non avanza ipotesi esplicative. Ma la sua storiografia ci mette sulla strada se non di una risposta, almeno di una ricostruzione più perspicua dei perché delle varie “culture” sessuali.
 
 
             Quel che diceva S. Agostino, che l’atto sessuale nel paradiso terrestre era compiuto senza concupiscenza, mi pare cruciale. Perché rivela come al centro della riflessione cristiana ci sia proprio quella che, a seguito di Nietzsche, chiamiamo la volontà di potenza. (Del resto, tutta l’opera di Foucault è, in sostanza, un’applicazione al campo storiografico della dottrina nietzscheana della Wille zur Macht.) Quel che sia i filosofi pagani che i teologi cristiani temono della sensualità è il suo essere pathos, passione, sottomissione passiva al desiderio. L’anima con le sue qualità viene identificata alla volontà consapevole dell’uomo: l’intelligibile si oppone al sensibile così come la libertà della volontà umana si oppone alla servitù della sensualità. La libido è considerata una forza esterna alla volontà, che la condiziona e la annulla. L’anima come libertà della volontà è costantemente minacciata dalla “carne” che rischia di sommergerla. Dall’ascetismo stoico fino a quello cristiano si profila quindi la continuità di una concezione che identifica i desideri sensuali alla servitù, e la coscienza volontaria alla padronanza. Gran parte del pensiero antico, che si è prolungato in Occidente fino a non molto tempo fa, era una teoria-pratica che doveva assicurare il dominio del soggetto su sé stesso. Esso vedeva quindi i desideri sessuali (ma anche quelli puramente sensuali) un po’ come noi oggi consideriamo le dipendenze da sostanze, dall’alcool alla cocaina: coartazioni della libertà che provengono dal corpo stesso. In questa prospettiva, l’ascetismo di parte della cultura occidentale diventa una strategia comprensibile anche per noi moderni: declina un certo progetto che mette al centro la libertà della coscienza umana. E’ un progetto di separazione dalla propria carne in quanto bisognosa.
 
 
            Significa questo che allora la cultura contemporanea ha rinunciato alla volontà di potenza? Sarebbe assurdo affermarlo. Oggi più che mai la nostra cultura è assillata dal controllo del proprio corpo e della propria mente, anche se attraverso le tecnologie, vale a dire attraverso un trattamento che si vuole sempre più scientifico del corpo e della mente. Da qui la passione per le diete, per le palestre, per la cosmetica, per i test mentali, insomma, per la fitness. La massimizzazione dell’efficienza del corpo e della mente sono oggi parte anche della cultura popolare. Ma la differenza rispetto al passato è che questa fitness, sulla falsariga della filosofia utilitarista, si applica sia alla vita sensuale che a quella intellettuale, senza alcuna barriera etico-ontologica tra le due: bisogna massimizzare gli orgasmi così come bisogna massimizzare le proprie capacità logico-matematiche o il proprio patrimonio. Sesso, danaro, potere, sapere: tutto va massimizzato. Si deve essere ottimi amanti così come ottimi imprenditori od ottimi buongustai, od ottimi filosofi se si fa una carriera accademica. La moderna volontà di potenza non distingue più l’anima e la carne. I desideri sensuali vanno soddisfatti il più possibile, purché non danneggino la fitness generale dell’individuo.
            Significa questo che nella nostra cultura non c’è più alcuna pastorale? Foucault dedica molta attenzione al tema tradizionale, nelle culture antiche, del potere politico figurato come relazione tra il pastore e il suo gregge di pecore. Il buon re, e nel mondo cristiano il vescovo o il papa, è un buon pastore del suo gregge umano. Come nota Foucault, questo non implica affatto un’indistinzione degli individui nel gregge: il buon pastore sa che le proprie pecore non sono tutte eguali, che ciascuna ha bisogno di un trattamento specifico. Omnes et singulatim, scrive Foucault: il gregge è considerato nella sua totalità ma ogni singolo è preso in carico. E il buon pastore, come nella parabola evangelica (Luca 15, 3-7; Matteo 18, 12-14), deve saper abbandonare il gregge per recuperare la singola pecora smarrita. L’immagine del re-pastore o del prete-pastore va trasposta anche all’interno del soggetto stesso: bisogna essere anche pastori di sé stessi, se consideriamo i nostri desideri un gregge di sensualità. Allora, nelle nostre società capitaliste e liberali, non c’è più alcuna pastorale?
            Anche nella nostra cultura esiste una élite, intellettuale e scientifica. Come erano élites i filosofi antichi o teologi quali S. Crisostomo o S. Agostino – possiamo pensare che le larghe masse all’epoca, soprattutto contadine, non fossero granché ascetiche, che insomma la gente comune continuasse a comportarsi come nel passato. Foucault, abbiamo detto, analizza solo le opere delle élites. E allora, che cosa pensa l’élite liberal-libertina di oggi, incluso magari Foucault (e chi scrive)?
            Credo che l’ideale moderno sia quello della creatività. Che si stia a letto con il proprio partner, che si lavori come manager in un ente, o che si faccia lavoro scientifico o informatico, l’importante è essere creativi. Non basta insomma massimizzare orgasmi, danaro, titoli: l’importante è avere una vita intellettuale, lavorativa, sessuale, familiare creativa. In questo senso l’accento posto dallo psicoanalista D.W. Winnicott sulla creatività, o la concezione surrealista di una creatività artistica di cui ciascuno sarebbe capace se solo desse libero corso al proprio inconscio, sono espressioni eloquenti delle idealità moderne. Ci si può quindi lasciar tranquillamente andare ai desideri dei sensi, purché la loro gestione sia creativa, non piatta e ripetitiva. La libido, le pulsioni (l’inconscio) non vanno rimossi ma assorbiti e integrati come occasioni e fonte di energia creativa. Nel passato, fino a Ottocento inoltrato, il primato era dato alla forza della volontà. Oggi però il motto non può essere più quello di Alfieri, “volli, sempre volli, fortissimamente volli” ma piuttosto “creai, sempre creai, ampiamente creai”. Il creatore di opere estetiche o tecniche, il pensatore originale, lo scopritore scientifico sono tutte figure idealizzate oggi, anche se hanno condotto una vita sessuale alquanto sregolata. L’importante oggi, insomma, è essere originali, che è una ricaduta della creatività. La dicotomia non è più quindi tra sensibile e intelligibile, tra sensualità e volontà forte, ma tra creatività e ripetitività, tra originalità e conformismo.
L’ascetismo antico era, come ogni altra cultura sessuale, un tentativo di controllare il potenziale devastatore della sessualità. Siccome la sessualità umana ha un lato costruttivo (non foss’altro che come strumento di riproduzione) e un lato distruttivo, ogni cultura, ciascuna a proprio modo, cerca di ridurre al minimo questo secondo lato. Ricordiamo che anche Freud, in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, descrive la coppia innamorata come qualcosa di anti-sociale capace di sfaldare il legame sociale. Ogni cultura, dalla più primitiva alla più moderna, deve confrontarsi con un Unbehagen in der Sexualität, inscindibile dall’Unbehagen in der Kultur. La sessualità è fonte di grandi piaceri, ma anche di grandi dolori.
La morale cristiana, fondata sul matrimonio indissolubile e sulla monogamia, parte dal fatto biologico che c’è un numero quasi pari di donne e uomini: se ciascuno si contentasse di avere un partner dell’altro sesso, la vita sociale sarebbe del tutto tranquilla. Naturalmente questo è vero sulla carta, di fatto, lo sappiamo, ci sono uomini che hanno tante donne e uomini che non ne hanno nessuna, e per le donne può esser detta la stessa cosa. Di fatto, la sessualità è una mina vagante nelle società che distrugge famiglie, genera delitti passionali, fa sprecare a uomini e donne molto tempo nel corteggiamento, nei flirt, nei litigi, in penosi divorzi, ecc. Ma la morale cristiana tende all’optimum di una società sessualmente pacificata.
            Comunque, anche la morale laica moderna tende a un optimum: è disposta a pagare il prezzo di una certa anarchia sessuale, purché la sessualità venga incanalata, per dir così, verso mete creative.  In ogni caso, sia nell’ascetismo che nel permissivismo, ogni cultura sessuale tende a ottimizzare il commercio sessuale. Diciamo che la volontà di potenza liberal-libertina è più sofisticata dell’ascetismo, nel senso che è ancora più ambiziosa: bisogna lasciarsi andare ai sensi, abbandonarsi a essi, perché così il soggetto accede a una potenza superiore, quella creativa.
            Ma la creatività è un ideale per tanti, forse per i più, non meno duro da soddisfare dell’ascesi penitenziale cristiana. Tanti, forse i più, non vogliono essere creativi, a loro basta una vita tranquilla, ordinarie soddisfazioni, imboscarsi in una sorta di benessere di massa. Le élite appaiono, agli occhi dei più, portavoce di una pastorale troppo esigente. Cosa che, forse, potrebbe spiegare le svolte politiche in Occidente degli ultimi anni.
 

           
 
 
 

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