Sul migrare Parte Seconda. Lo abbiamo imparato dalla nostra storia

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10 ottobre, 2018 - 13:58
…popolo di eroi, di santi, di poeti,
di artisti, di navigatori, di colonizzatori,
di trasmigratori.
Sul “colosseo quadrato”
 
 

 
 
 
(10) La scoperta mediatica dell’invasione delle orde delle povertà degli altri.
 
Al festival cinematografico di Venezia del settembre 2012, il regista di Daniele Vicari, ha proiettato il suo film-documentario La nave dolce. [024]. La pellicola racconta un episodio realmente accaduto 21 anni fa, che giova ribadirlo, può essere assunto, per la diffusione mediatica di allora, non solo come icona dell’immigrazione straniera in Italia, ma anche come proiezione emblematica delle fobie nazionali d’invasione: la grande sindrome di Attila, ossia la paura di essere soverchiati e annientati da turbe di selvaggi, incivili, feroci assassini, sostanzialmente “gli altri”, “i diversi”, spregiativamente denominati “extracomunitari”.
La “Nave dolce” era la “Vlora”, un vecchio cargo albanese uscito dai cantieri genovesi degli anni Sessanta adibito al trasporto dello zucchero tra Cuba a Durazzo. Fu presa d’assalto durante le operazioni di scarico nel porto albanese da una turba di disperati che speravano di trovare una vita migliore nell’Italia che vedevano in televisione di traverso il Canale d’Otranto. Era il 7 agosto del 1991.
Il giorno successivo, nonostante il motore in avaria, senza cibo né acqua, ma con tanta canna da zucchero, erano di fronte a Bari, scortati dalle forze aeronavali italiane, che avevano seguito con minaccioso sospetto la navigazione del natante “comunista” in avvicinamento. I rivoltosi albanesi, avevano costretto il comandante a fare rotta verso l’Italia. Il carico umano – forse ventimila persone, che alzavano le braccia con l’indice e il medio gioiosamente allargate a vu in segno di vittoria – apparve, a coloro che erano accorsi nel porto di Bari a guardare dal molo e a quanti erano incollati alle televisioni, che ripresero ampiamente l’accaduto, un alveare impazzito, un viluppo di corpi intrecciati e protesi verso il paradiso. I malcapitati finirono nello Stadio della Vittoria, ironia della sorte, prima di essere respinti a casa loro. Fu il primo clamoroso atto muscolare di respingimento dell’immemore popolo italico.
Si potrebbe dire che gli anni ’90 sono stati quelli delle grandi paure e delle grandi illusioni: essere accerchiati da “orde barbariche” di immigrati; essere depredati  dalle ruberie dei politici scoperte da tangentopoli; essere sconcertati dall’esilio di Bettino Craxi coperto di monetine [025]; illudersi del ventennio di finta prosperità berlusconiana, che in realtà dissimulava un patto scellerato tra Stato e mafia.
Il 1991, comunque, resta un data storica per l’immigrazione in Italia: nel mese di agosto, in piena vacanza consumistica il nostro paese “scopre” l’immigrazione degli altri.
Sul grande circuito mediatico (la televisione soprattutto) si diffondono le drammatiche immagini di una nave albanese alla fonda nel porto di Bari. Si chiama “Vlora”: brulica letteralmente di persone disperate che sbarcano con ogni mezzo, si calano lungo gli ormeggi, le cime, le catene delle ancore, si lanciano in acqua. Sono Albanesi, dopotutto, non molto stranieri per noi. A parte i gruppi stanziali che da tempo immemorabile abitano le montagne delle Calabrie, della Lucania, del Salento e della Sicilia, i non più giovani si rammentano che questi Albanesi provengono dal “Paese delle Aquile”. Riaffiorano vecchi riti celebrativi del ventennio fascista: i sussidiari dell’epoca ritraevano una statua equestre di Roma dedicata a Scanderbeg, Giorgio Castriota (1403-1467), l’eroe schipetaro che aveva combattuto i Turchi.
Enorme è la sorpresa e anche lo sgomento per un passato rimosso che riemerge alla vista di questo dolente carico umano, vero e proprio medium [026] della prima immigrazione straniera in Italia. Ad un operatore della protezione civile intervistato nella circostanza venne chiesto di commentare l’evento. Rispose emozionato: “Come noi!” Il ricordo di ciò che eravamo stati, è evidente, ma non c’è spazio per i sentimenti, la moltitudine preme. Ha bisogno di tutto, soprattutto di quel posticcio che aveva immaginato, facile e veritiero, guardando la nostra televisione dai nidi delle “Aquile” situati sulla sponda orientale dell’Adriatico.
Gli Albanesi sbarcati sono ammassati provvisoriamente nello Stadio di Bari. La gara di generosità, pur lodevole nei primi momenti, cede lentamente all’assuefazione, perché manca una politica dell’accoglienza. Nessuno sa cosa si debba fare. Regna sovrana l’improvvisazione. Si comincia a parlare di emergenza. Molti pensano che l’immigrazione sia un problema italiano, anzi pugliese. L’Unione Europea finge di crederlo, cosicché abbiamo iniziato (in proprio) la politica dei rimpatri forzati. Ancora oggi le cose non sono molto cambiate.
Questa per sommi capi la cornice storica della migrazione che, fino al 1974, ha visto l’Italia fra i protagonisti mondiali dell’esodo per indigenza. Successivamente si è scoperta ambigua meta di approdi, se possibile, ancor più indigenti. Riluttante contrada ospite, l’Italia, per un’accoglienza che non c’è mai stata, perché “nessuno li ha formalmente chiamati” [027] – è stato ricordato sopra – questi immigrati.
Ebbene, così commentavo l’accaduto di Bari nel 1997: «Nell'ultimo dei grandi sbarchi sui porti pugliesi del miraggio e della disperazione del popolo albanese, impietosamente ripreso dalla televisione, un solerte cronista chiedeva ad un Agente della Protezione Civile (un uomo di mezza età che si prodigava sulla banchina per recare aiuto e sollievo agli stranieri sbarcati o tratti dall'acqua) quale fosse la sua opinione su questo fenomeno migratorio così minaccioso, così imponente, così straccione. L'Agente si fermò, restò pensoso un attimo, poi guardando fisso "in camera" disse con un sospiro dolente, quasi sfuggito da un archetipo collettivo del Mezzogiorno d'Italia, due semplici parole: - "Come noi!" » [028].
Straordinaria efficacia di queste parole, praticamente una sintesi della continuità di tutte le nostre e le altrui migrazioni. Quell'Agente italiano si era riconosciuto in loro e probabilmente "loro" intuivano di essere pensati come esseri umani, di essere riconoscibili come persone, nel disprezzo generale, da almeno uno di noi Italiani che, probabilmente, era stato "come loro".
 
 

(11) Pregiudizi e preconcetti sullo straniero. Ne abbiamo? Se sì di che tipo?
 
È fondamentale porsi il problema di come vediamo l’altro in casa nostra, iniziando a parlare di immigrati, o per meglio dire, di “extracomunitari”, come ancora li sentiamo nominare. Evidentemente, chi usa questa locuzione spregiativa e desueta, ha una visione dell’Europa ben diversa da quella che ebbero i padri fondatori della Comunità Economica Europea [029]. Si dirà che la storia cambia, ma la pigrizia e l’ignoranza sono vizi antichi.
Dal punto di vista delle conseguenze pratiche nessuna differenza sembrerebbe esistere tra stereotipi o luoghi comuni e pregiudizi o preconcetti. Infatti, dire che gli Scozzesi sono tirchi, i Marocchini maschi sono maggiorati sessuali, oppure pensare che gli Africani siano primitivi, che i Levantini siano imbroglioni e gli "extracomunitari" portino la droga, la prostituzione e le malattie è ugualmente inesatto, confondente, offensivo e per giunta di facile suggestione.
Invece, riflettendo più approfonditamente sulla questione – a parte che Hans Georg Gadamer (1900-2002) campione dell’ermeneutica filosofica, ritiene utile il pregiudizio, fondamentale in ogni processo cognitivo, dunque non debba essere eliminato, ma abitato, semmai, con una certa prudenza, poiché ciascuno nel formulare un giudizio è influenzato dalla propria visione del mondo (Weltansicht) – ci si accorge che dal punto di vista teoretico il pregiudizio è una dimensione culturale incompiuta o meglio una visione del mondo parziale (spesso extracosciente) che ci preclude ogni ulteriore speculazione scientifica, ogni altro tipo di conoscenza. In particolare per ciò che concerne l'ambito psichiatrico, l'unificazione dello stereotipo e del pregiudizio vanifica l'indagine psicopatologica, l'approccio interculturale, la progettualità etnoterapeutica.
Detto in altri termini è più facile correggere un luogo comune che curare un pregiudizio ossia una pre-nozione. Chiunque, dopo aver conosciuto un turco atabagico, cesserà immediatamente di usare la locuzione "fumare come un turco". E' anche possibile che taluno dopo aver detto di un etilista che "beve come una spugna", si corregga leggendo un trattato di botanica, allorquando venga a scoprire che lo scheletro corneo, elastico e flessibile, dei poriferi (metazoi acquatici) non "beve", ma assorbe. Forse più difficile è cercare di far recedere l'imbecille dalla convinzione che un chilo di ferro pesi più di un chilo di piume "... Perché se te lo do in testa!!..."
Fin qui sembrerebbe tutto facile, perché ci si mantiene sul piano linguistico, ma quando si passa dal livello della vita psichica, della elaborazione mentale, del simbolico e della convinzione catatimica o del pensiero francamente psicotico, alle condotte pratiche, appare arduo recedere dalla credenza che alcune "razze" siano "superiori", "elette", “destinate al comando”, rispetto ad altre “inferiori” “neglette” “dannate” “destinate alla schiavitù” [030].
Ambedue codeste categorie: quella degli stereotipi e quella dei pregiudizi hanno la caratteristica di essere spesso inconsce e di richiedere una interrelazionalità per essere agite, cioè per divenire manifeste.
Ciò significa che vengono esplicitate più facilmente quando si costituisce un gruppo che osserva e denomina (di solito dominante) e un gruppo che è osservato ed è connotato (di solito una minoranza o una maggioranza senza potere). Nell'interfaccia di questo rapporto si sviluppa lo stereotipo, il pregiudizio e anche la reazione difensiva (per usare un linguaggio psicodinamico), dove ciascuno guarda ed è guardato, meglio, immagina ed è immaginato, senza che si renda conto o che tenga in considerazione l'angolo visuale della parte speculare. C'è in proposito una ricchissima letteratura, che va da Lo specchio del non Sé di Marcella Delle Donne [031], al Sé diverso mutuato dalla Self Psychology [032], la quale si propone di cogliere in profondità tutto ciò che passa davanti agli occhi, nella mente, attraverso il corpo di coloro che vengono da noi "osservati" nella condizione di immigrati.
 
 

(12) Confini d’insicurezza.
 
I confini che dividono le società opulente da quelle indigenti del pianeta, sono stati trasformati, negli ultimi 20-30 anni, in altrettante linee Maginot erette a protezione arcigna e feroce delle prime dalle seconde. Veri e propri muri di separazione tra popoli ricchi e popoli poveri del mondo.
La realtà confinaria di tale situazione mondiale, d’interdizione della povertà, è fotografata da alte recinzioni, vigilanze armate, campi minati, cancelli telecomandati, reti percorse da correnti elettriche, minacciose torrette di sorveglianza, cani da guardia, ed altri deterrenti. Ne citiamo tre clamorosi e, a vario titolo, anche vergognosi. Si possono fare numerosi esempi: ciascuno ha il proprio nemico e sigilla le proprie paure, da Est a Ovest, da Nord a Sud.
Il confine che divide il Messico dagli Stati Uniti d'America (e viceversa) è stato marcato, pressoché nella sua interezza, dall’Oceano Pacifico all’Oceano atlantico, con un muro che si estende per circa 3.000 chilometri: lambisce quattro Stati americani e sei Stati messicani. Gli Ispanici stanno soverchiando gli Wasp, gli afro-americani e ogni altro meticciato.
Tra Marocco e Sarawi il confine è stato blindato in otto fasi successive a partire dal 1982. Il muro marocchino o muro del Sahara Occidentale è un insieme di otto muri difensivi con una lunghezza superiore a 2.720 km costruito dal Marocco nel Sahara Occidentale. È una zona militare con bunker, fossati e campi minati, edificato con l'obiettivo di proteggere il territorio occupato dal Marocco dalle incursioni del “Fronte Polisario”. Tutti sanno che lì c’è in gioco lo sfruttamento degli enormi giacimenti di fosfati.
L’Italia ha confini naturali molto vasti. Soltanto l’estensione delle proprie coste, ha una lunghezza che è più del doppio dei confini messico-americani e circa il triplo di quelli marocco-sahariani. Lo sviluppo costiero della nostra penisola e delle sue isole si aggira sui 7.458 km. Non c’è nulla da difendere, né da sfruttare, tranne gl’immigrati, che solitamente usano il territorio nazionale come passaggio dall’africa e dall’Oriente per passare le Alpi ed entrare in nordeuropea. Non c’è vigilanza armata, ma vige la politica dei respingimenti e ci sono le prigioni note come “CPT”.
L’Italia ha appena la decima parte della barriera di separazione israeliana che si estende per circa 700 km. Il muro costruito da Israele in Cisgiordania a partire dalla primavera del 2002, denominato “chiusura di sicurezza” (security fence), consiste in una successione di muri, trincee e porte elettroniche. Ufficialmente impedisce l'immigrazione di palestinesi nel territorio israeliano.
Può essere di qualche consolazione sapere che non sempre dalle divisioni confinarie sigillate per oltre mezzo secolo, ne deriva anche un danno ambientale. Chi ricorda la guerra di Corea ed il pericoloso coinvolgimento USA - Cina dei primi anni Cinquanta, non può non ricordare anche l’insubordinazione del pericolosissimo generale Douglas Mac Arthur (1880-1964), rimosso dal presidente Truman nel 1951, poco prima che usasse l’arma nucleare contro la Cina. Non può aver scordato l’ancor più temibile 38° parallelo, le due Coree, Nord, Sud, Pyongyang, Seul. Ebbene notizie recenti di quotidiani c’informano che “Lungo la striscia demilitarizzata che divide le due Coree è nato un parco unico per la flora e per la fauna. Tanto che l’Unesco vorrebbe proclamarlo patrimonio dell’umanità” [033]. Non si tratta di un miracolo. La cosiddetta terra di nessuno di un conflitto pietrificato, dimenticata anche dagli uomini, appena 248 chilometri di separazione di ciò che resta della guerra fredda tra comunismi e anticomunismi, ha riscaldato un parco naturale di eccezionale valore – “Riserva DMZ”, demilitarizzata, è stata chiamata – dove i biologi contano di trovare flora e fauna che forse si pensava estinta.   
Ciascuno sceglie le proprie difese. Nella guerra di Corea, ha prevalso la non belligeranza e la natura, ma nelle guerre di migrazione le incomprensioni restano esplosive. Viene in mente la “Fortezza Bastiani” del Deserto dei Tartari [034],  apparentemente inespugnabile. Essa reclude il tenente di prima nomina Giovanni Drogo insieme col mondo che deve difendere. Una specie di accidia mista a patologia dell’attesa inerte, imprigiona gli uni (domestici) nel momento in cui li allontana dagli altri (inconosciuti, pertanto nemici). I primi, ai giorni nostri, visti dal di dentro, sono tragicamente asserragliati in caveau, bunker, rifugi antiatomici, spazi blindati e inaccessibili, prigioni dopotutto, in un vissuto da stato d’assedio nel timore di essere invasi dagli ultimi. Che, forse, giungono ad esigere la refurtiva.
 
 
(13) Alienità mentali e alterità culturali.
 
Nelle culture della migrazione, sovente può capitare di prendere fischi per fiaschi, nel campo della salute e, in particolare, nell’area della salute mentale.
Si possono fare numerosi esempi di fraintendimento (misunderstanding) sul piano della cultura, della psicologia, della psicopatologia, della sintomatologia, della semeiotica e della clinica psichiatrica. Scambiare, cioè, ciò che è consentaneo alla cultura di un gruppo, con ciò che gli è abnorme, e viceversa. La formazione psicoanalitica è utile, ma non indispensabile.
Invece, l’alleanza con l’antropologia culturale, l’antropologia medica e la psicopatologia antropofenomenologica, può essere preziosa e strategica: tutte queste competenze risultano fondamentali per il lavoro di ricerca sul campo quando si studino i guaritori tradizionali e i fenomeni patologici orientati dalle credenze e dalle tradizioni popolari. Sotto questo profilo sono fondamentali le ricerche di Ernesto de Martino e quelle di Clara Gallini in Lucania e in Sardegna. Come osserva l’antropologo medico Tullio Seppilli si può eseguire un’ottima ricerca anche “at home“ ossia lavorando in casa, senza fare spedizioni lontane presso le cosiddette “popolazioni primitive” come si chiamavano un tempo.
Potremmo citare, dalla nostra esperienza, l'adolescente nigeriana di etnia Yoruba con un quadro che si presume essere una "psicosi adolescenziale", ricoverata nel reparto di Neuropsichiatria Infantile di via dei Sabelli. Successivamente, a seguito di una riflessione più accurata di carattere etnopsichiatrico e con l'aiuto di un mediatore culturale, si viene a sapere che si tratta di un disturbo etnico chiamato "Abiku", dove sono presenti dispercezioni e atteggiamenti pitiatici, molto frequente presso i Yoruba e curabile dai guaritori tradizionali con tecniche che ricordano molto da vicino le nostre psicoterapie. Apprendiamo anche che, come si conviene ad ogni "terapia" (in questo caso ad impronta fortemente olistica), essa viene opportunamente preceduta da un approfondito accertamento ("rituale") semeiologico e diagnostico-differenziale (il riconoscimento di quale sia e da quale luogo provenga lo spirito che è penetrato nel paziente e lo possiede). Tale accertamento, nel caso qui descritto, vale a dire presso l'etnia Yoruba, viene eseguito per solito da altri operatori che non necessariamente saranno poi i terapeuti. Può essere interessante segnalare che in un'altra etnia nigeriana (diversa, ma molto simile perché contigua geograficamente), quella degli Ibo o Igbo, la stessa disturbanza viene indicata come "Obange" e il trattamento, come pure il cerimoniale diagnostico, è pressoché analogo [035].
L'anziano pastore sardo ospedalizzato per aver evirato un maiale e bevuto il sangue dallo scroto che induce lo psichiatra a fare diagnosi di demenza senile. In seguito ci si accorge che la patologia mentale non si desume da questo atto cruento che, in certe zone barbaricine è "normale" in quanto consentaneo alla cultura e alla costumanza locale, bensì dal fatto che esso sia stato "decontestualizzato", vale a dire consumato da solo e non nel contesto di un rituale di gruppo, agito per solito in ambito cerimoniale (festivo o venatorio).
Gli operai meridionali italiani emigrati nella Svizzera degli anni '60, ricoverati presso la Clinica Psichiatrica dell'Università di Berna per un delirio inconsueto e strano: il Verexungsvahn (influenzamento esterno da fattura, da malocchio, da somministrazione di filtri o pozioni magiche).  Risso e Böker lo studiano a fondo e dimostrano come questo fenomeno sia un disturbo culturalmente determinato. I medici svizzeri, invece, bollavano spregiativamente la fenomenica esibita da questi immigrati, definendola con superficialità "Zartlichkeit Des Leibs" (una sorta di esseri inferiori, primitivi, deboli, mammoni, mollaccioni, superstiziosi e pigri).
Un pregiudizio inconscio, non di tipo medico né diagnostico, ma certamente curioso è emerso durante un seminario sulle dinamiche psicologiche interpersonali messe in moto dagli stranieri immigrati. Un giovane funzionario di banca di una filiale di Sesto S. Giovanni, la “Stalingrado” della cintura milanese, fa amicizia con il Console del Senegal, cliente di quella banca. Ebbene, mentre il funzionario frequenta normalmente i bar della zona per le sue necessità quotidiane scopre con sorpresa che il Console senegalese li disdegna e per prendere l'aperitivo si reca al "Biffi".
 
 
(14) Il Centro “Michele Risso” a Torrespaccata 157.
 
Michele Risso (1927-1981), uno psichiatra cuneese di Boves, è stato un pioniere degli studi transculturali presso i lavoratori italiani emigrati in Svizzera e a lui abbiamo intitolato il nostro “Centro” di studio, ricerca e assistenza ai migranti nel territorio del Dipartimento di Salute Mentale dell'Ottavo Municipio del Comune di Roma, all’inizio degli anni Ottanta.
Abbiamo avuto fortuna, nel senso che non abbiamo mai dovuto registrare episodi di razzismo manifesto o situazioni comparabili. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuto aspettare, abbiamo sempre avuto l’impressione che, malgrado la non buona fama di certe zone cittadine, vi fosse una certa tolleranza verso lo straniero in generale e la spiegazione era semplice.
Questa periferia della Capitale vedeva da molto tempo una grande affluenza di giovani soggetti della migrazione interna e di rimpatriati dalle ex colonie di quella che un tempo si chiamava “Africa Orientale Italiana”. Un meticciato formato in prevalenza da giovani madri, neonati, bambini, adolescenti, giovanissimi e giovani adulti. A questi nuclei si erano aggiunti, progressivamente gli altri protagonisti della recente immigrazione italiana: i cosiddetti "extracomunitari". La storia del luogo, l'abitudine al cambiamento, la facile adattabilità delle persone che vi s'insediavano, aveva fatto innalzare l'indice demografico di natalità più che in ogni altra Circoscrizione del Comune di Roma. L'antica tradizione del territorio (non a caso vi è una zona intitolata a San Vittorino, patrono dei migranti), aperto alle varie ondate migratorie, aveva fatto scoprire ai residenti, vecchi e nuovi, che in fondo c'è sempre un posto per tutti.
Un esempio emblematico di questa tendenza. Sempronio si trova in un ambulatorio della USL di Torrenova in attesa di fare un controllo oculistico. Gli siede accanto una donna un po' più anziana di lui con cui aveva attaccato discorso. La donna sta raccontando della sua vita dura, che a 65 anni suonati, la costringe ancora ad alzarsi prestissimo per aprire il banco di frutta di cui è titolare al mercato. Ad un tratto entra una graziosa ragazza nera dai lunghi capelli ricci con uno zainetto da studentessa. La donna sessantacinquenne, attratta dalla nuova presenza, dà di gomito a Sempronio, accennando con la testa e lo sguardo preoccupato all'improvvisa intrusione della giovane, che, nel frattempo si è accomodata sulla panca di fronte. Poi, sottovoce – come negli "a parte" teatrali – commenta scuotendo il capo contrariata: - "Eh! Sapessi quante ne sono qua in giro... alla stazione ancora peggio!" – Sempronio cerca allora di spiegarle che probabilmente si tratta di una meticcia figlia di italiani, frutto di quei tanti matrimoni italo-eritrei-somalo-etiopi maturati durante le nostre emigrazioni in Africa in oltre cento anni di storia. Da quel momento la donna anziana si rasserena e, distolta l'attenzione dalla ragazza, incomincia a frugare con familiarità nella sua memoria. – "Si, si, ai tempi del Duce, dell'Abissinia, come no! Dio mio quanti ne semo andati, in tutto il mondo! Pensa che mia sorella è sposata in Canada, mio fratello sta in Australia e una mi' cognata, sorella del poro mi' marito, c'ha una gelateria in Inghilterra" –  
Qui si potrebbe dire che il riconoscimento dell'identità del diverso e la sua accettazione nel we-group (secondo la terminologia di Marcella Delle Donne [036] sono stati facilitati da un piccolo intervento pedagogico-culturale, quello di Sempronio, per l'appunto di livello ambulatoriale.
 L'unico vero pregiudizio (una contraddizione in termine, data la zona), il solo grande ostacolo con cui ci siamo dovuti scontrare in una piccola porzione del territorio, è stata la sollevazione dell' intera popolazione della località denominata San Vittorino (tra l'altro, nome di un Santo con una complessa storia di migrazioni personali e di impegno sociale). Il viso dell'armi fu fatto dai Sanvittorinesi allorché il Dipartimento di Salute Mentale pensò di collocare nella Condotta Medica del luogo una Comunità Terapeutica per pazienti psichiatrici. Il rifiuto del "matto" è stato netto, deciso, categorico. Vogliamo pensare che ciò sia stato dettato dall'ignoranza e proprio in favore dell'ignoranza desideriamo tessere un piccolo apologo, avendo in mente Denis Diderot, forse il più eclettico, geniale, anticonformista degli Enciclopedisti e probabilmente il più originale pensatore del "Secolo dei lumi". Ebbene, Diderot soleva dire che l'ignoranza è più vicina alla scienza del pregiudizio. Infatti. A distanza di un bel po’ d’anni, dove abbiamo seminato noi, a Tor Bella Monaca, sovente citata nella cronaca nera, il Tg regionale, all’inizio dell’anno scolastico 2018-19, porta un esempio di scolarizzazione primaria eccellente e perfettamente integrata.
 
 
(15) La “psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria”: un metodo anche terapeutico.
 
Il proponimento di ritagliare uno spazio di ricerca all’interno delle dinamiche psicologiche, psicopatologiche e socio- psichiatriche della migrazione dei più poveri, nasce, nello scrivente, agli inizi degli anni Settanta riflettendo sulla condizione degli ex emigrati sardi incontrati in Sardegna, a Villa Clara e a Dolianova, due manicomi di Cagliari centro e della Provincia. Da questa riflessione ha preso spunto quella metodologia di lavoro che successivamente è stata meglio definita col termine “psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria”.
Alla base di ogni vicenda migratoria vi è il viaggio. Un viaggio molto particolare quello degli emigranti, è stato già rimarcato sopra, mai un diporto, quasi sempre una separazione, un distacco, una rinuncia crudele, ingiusta, sofferta. Qualunque ne sia la causa, è innanzitutto uno strappo delle radici con tutto ciò che tale amputazione comporta, nelle infinite declinazioni esistenziali di esperienza della perdita: fuga dalla fame, scelta senza potere di scelta, decisione imposta, esodo, espulsione, deportazione dalla terra dei padri e degli antenati. In quanto tragitto periglioso, attraversamento di confini, ritorno incerto, il viaggio (questo particolare viaggio dell’emigrazione) è anche rischio mortale, messa a repentaglio del mondo della vita.
Nei migranti manicomializzati della Sardegna, le difficoltà dei transiti culturali durante queste escursioni/incursioni migratorie in territorio straniero e ostile, non erano evidenti. Inesplicitate, giacevano come buchi neri in un interdetto nascosto della mente: gravosi pedaggi psicologici inevasi, impossibilità di adattarsi, di mimetizzarsi, incapacità di co-esistere accerchiati dal minacciante. Tali vuoti s’intuivano, tuttavia, dalle narrazioni spezzettate dei protagonisti. Pesavano come macigni ma non avevano diritto né di parola, né di ricordo. Questa strana afasia della memoria, è risultata presente in ogni altra esperienza migratoria successivamente osservata altrove dal punto di vista della psichiatria clinica e della psicopatologia antropofenomenologica [037].
La psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria si basa sul presupposto che un evento traumatico (o un’esperienza vissuta come tale) provochi sempre (e comunque) una soluzione di continuità sul fluire dell’esistenza individuale. L’evento – nel nostro caso, la migrazione – produce una frattura, una lacerazione, talvolta un “buco”, una cesura temporale del vissuto. L’evento migrazione (e il vissuto che da tale esperienza deriva) diviene tanto più significativo e comprensibile, se interpretato e letto nel senso propriamente biografico (ossia storico-personale) della continuità dell’esser-ci del soggetto migrante.
Evento traumatico può essere qualunque situazione (accidentale o prodotta dall’intenzionalità di una “scelta necessitativa”) di perdita, costrizione psichica, impedimento fisico, ostacolo alla realizzazione di un progetto forte, elaborato intensamente, per soddisfare un bisogno primario. In questo caso rientrano le migrazioni per lavoro, per fame, guerre, carestie, calamità naturali. Su questa tipologia di reazioni fenomeniche soggettivamente irripetibili, abbiamo centrato le nostre osservazioni, i nostri studi, le nostre strategie terapeutiche. Va in ogni caso sottolineato che un evento traumatico “personale” come quello migratorio, si realizza in un duplice contesto “sociale” e comporta un elevato coinvolgimento emotivo. Esso, infatti, implica sempre una disarmonica intersoggettività (ospite/ospitante) più o meno conflittuale. La criticità relazionale del migrante non si verificherà soltanto con la collettività del paese di approdo (la tradizione “rifiutata”), ma anche con quella che si è lasciata (la tradizione “tradita”), come abbiamo già sopra accennato.
In questi funambolici equilibri d’incontro con l’alterità, il compito dello psicoterapeuta è quello di valutare molteplici opzioni delicate e complesse. Secondo la nostra esperienza, egli ha l’obbligo di ricorrere a tutte le tecniche di cui dispone e deve intervenire prevalentemente (almeno nei primi approcci) sulla parte cosciente del paziente. Va precisato che non stiamo parlando di “etnopsicoterapia” secondo i canoni in cui oggi questa disciplina viene internazionalmente riconosciuta e accreditata  [038].
Lo scopo principale della nostra “psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria” è sempre stato quello di operare seguendo la traccia di una complessa tessitura di ascolti reciproci. Il difficile lavoro terapeutico (all’interno di situazioni costantemente difformi l’una dall’altra) si è esplicitato artigianalmente in un’azione di ricongiungimento di quel tratto di storia personale danneggiata (mancante, lacerata o distrutta), fra il prima e il dopo l’esperienza di “malattia” connessa alla migrazione. Quando è stato possibile, la riparazione è avvenuta con una sfuggevole, incerta, imprevedibile operazione di “rammendo” della trama esperienziale dissoltasi nell’attraversamento di confini, non solo culturali, del mondo vissuto della presenza migrante. Nei nostri casi, andava peraltro tenuto presente che questa lacerazione traumatica, poteva anche aver prodotto una psicosi vera e propria, o costituirne l’anticamera. Dunque, ci saremmo potuti trovare di fronte non una mera alterità culturale, bensì una vera e propria alienazione mentale di un’altra cultura di cui si aveva scarsa conoscenza [039].
L’attingere da varie discipline dell’uomo può spiegare i numerosi cambiamenti di rotta per aggiustare un metodo terapeutico empirico. Libera da teoresi assiomatiche, la psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria è stata sempre adattata al caso specifico. Il principio pragmatico che la guidava era quello di ri-tarare il registro del pensiero analitico (che è tipico dell'indagine psicopatologica) e ri-formulare l'agire terapeutico (che è proprio del Clinico).
Psicoterapia etnica domestica, autarchica, discutibile? Forse, in ogni caso l’unica possibile, data la penuria di “risorse” disponibili nei luoghi (CSM) dov’è stata sperimentata. Un tale indirizzo e la conseguente elaborazione di un dispositivo etno-terapeutico non sono certamente le uniche procedure metodologiche per scrutare gli assetti della futura creolizzazione della cultura europea. Tuttavia è verosimile che contengano concretamente le linee più accessibili per tentare di tracciare i confini di quell’area ambigua salute/malattia entro cui individuare, definire e dibatterne i problemi peculiari, non ultimi quelli della convivenza polietnica, multiculturale, plurireligiosa.
 
 
(16) Immigrazione - Salute mentale - Convivenza. Riepilogo temporaneo di una sfida tuttora aperta.
 
Anche in ragione della mia lunga militanza tra i Servizi di salute mentale è stato possibile constatare che ogni qualvolta si è potuto raccogliere la sfida della transculturazione e rispondere correttamente, si sono raggiunti risultati sorprendenti. Proprio nei Servizi è stato possibile amalgamare virtuosamente quella pluralità di radici storiche, di identità geografiche, di culture della salute, che si agitano, si scontrano, si confrontano, si mescolano dentro il crogiolo policromo delle coesistenze meticcie.
Le trasformazioni culturali della psichiatria imposte dai nuovi soggetti dell’immigrazione e le ricadute nei CSM (nei Servizi), debbono sempre essere comprese prima di essere agite. Una volta che si siano afferrate le dinamiche di questo processo di cambiamento (e soltanto allora) sarà possibile tentare di innovare. Basterà semplicemente riadattare con profitto i modi di fare accoglimento (se non proprio accoglienza), ascoltare le nuove narrazioni della sofferenza psichica, imparare a leggere le nuove disturbanze della mente, prepararsi ad incontrare persone “diverse”.
Negli incontri terapeutici con gli immigrati abbiamo sempre attribuito al termine multiculturale [040]  il valore di una continua transazione di saperi e di visioni dell’area salute/malattia/cura o presa in carico. Tali sono state le nozioni di partenza, condite sempre con un pizzico di realistico etnocentrismo critico alla de Martino. Possiamo aggiungere che non ci è stata mai estranea una sana consapevolezza della fallacia categoriale di talune certezze psichiatriche e di esasperati relativismi culturali, succhiati dalla medicina, dalla psichiatria convenzionali e dalle antropologie accademiche in cui siamo stati rispettivamente allevati. Pur tuttavia, con la ricchezza di questo “privilegio” aporetico, abbiamo cercato di fissare qualche transazione minima condivisa per la tutela della salute mentale di tutti: stanziali e immigrati.
Inizialmente s’era pensato di dover agevolare il transito culturale della persona straniera giunta da noi, aiutarla a ricomporre una lacerazione tra ciò che era stato abbandonato e ciò che era stato trovato. In seguito ci siamo accorti che la ricaduta di questa operazione era vantaggiosa anche (e soprattutto) per gli autoctoni.
In conclusione, ciò che emerge dall’esperienza di lavoro nei Servizi di salute mentale per immigrati, e che appare di fondamentale importanza nell’approccio sanitario con questi nuovi soggetti sociali, è la flessibilità e la duttilità dell’ascolto (attenzione selettiva, attenzione flottante) del gruppo curante. Si deve saper cogliere, infatti, il punto critico significante, poiché è proprio nel percorso migratorio che il trauma principale scolpisce la sofferenza. Proprio da quel momento una serie di cambiamenti catastrofici [041] inizierà a fragilizzare l’esistenza migratoria.
In questo contesto provvisorio, mutano i punti di riferimento, si trasformano gli orizzonti, vacillano le visioni del mondo. Bisogna re–imparare tutto: il luogo, il territorio, il contesto, il modo di lavorare, mangiare, pregare, osservare la legge, il giorno di riposo settimanale. I segnali e i significati dei rapporti umani divengono incerti e incomprensibili, proprio in quanto nuovi. Il punto d’approdo può trasformarsi da attrattivo a repulsivo, un progetto fortemente desiderato (e pagato carissimo) in un fallimento. L’accoglimento è quasi sempre un annusamento, un gesto ruvido e sospettoso. L’intersoggettività è spesso un’articolazione mondana inibita; le nuove interrelazionalità sono impossibili da gestire poiché si presentano all’insegna dell’ostilità. Da qui la necessità (per l’immigrato) di mimetizzarsi, almeno nei primi tempi, se non addirittura sfuggire, celarsi, darsi alla clandestinità.
Chi ha lavorato nei Centri di Salute Mentale, chi ha dovuto avvalersi del prezioso aiuto del Servizio Sociale Psichiatrico, chi ha conosciuto direttamente la disumanità di queste situazioni precipitanti e la difficoltà di emendarle il più rapidamente possibile, sa perfettamente che certe priorità vengono prima della dissertazione sull’approntamento del setting. Sono radicalmente precedenti – absit iniuria verbis – rispetto alla ricerca della “stanza della terapia”, magari con tanto di cartello (Non disturbare. Terapia in corso!). Nessun avvertimento ingiuntivo dovrebbe sottrarre al fisiologico trambusto vociferante di una normale attività ambulatoriale i contenuti, i contenenti e i protagonisti tutti, non solo della sofferenza migratoria, ma anche di quella stanziale. Un divieto di manifestare il proprio disturbo in un presidio di psichiatria equivarrebbe a destoricizzare tutti quelli che vi fanno ricorso. Quante volte dovremmo invitare non solo i lettori ma anche gli amici dei lettori ad “aprire ed ascoltare” la serie d’interviste che lo psichiatra  e la psichiatria gentile di Eugenio Borgna ha concesso a  Bollorino. ("EUGENIO BORGNA, Autoritratto di un Maestro gentile" raccolti in una Playlist raggiungibile seguendo il link).
Il compito di cui attualmente si debbono far carico i Servizi (sanitari e sociali) è una richiesta generale di salute che proviene da realtà sociali in continua evoluzione. Essenzialmente essi debbono rispondere a due tipi di bisogni complementari disegnati dalle ondate migratorie e dall’invecchiamento della popolazione autoctona. Entrambe queste necessità sono facce della stessa medaglia, causa ed effetto di uno stesso problema. Da un lato l’aumento delle attese di vita dei nativi riduce la loro capacità di lavoro e di autonomia, dall’altro l’aumento di flussi migratori allogeni e giovanili incrementa la disponibilità di forza lavoro a basso costo.
Se poi si aggiunge il record nazionale della disoccupazione nostrana, generalizzata e diffusa, la distruzione del lavoro, che ha raggiunto punte spaventose, il micidiale affollamento delle mense Caritas, il numero di persone che frugano nei cassonetti della spazzatura, la miscela è esplosiva. In questa situazione e con queste prospettive aumenta il malessere sociale perché non sempre le relazioni umane sono regolate da legalità, equità e giustizia e da troppo tempo l’accrescimento delle collettività post-coloniali si fonda su crescenti e intollerabili disuguaglianze sociali, non più nelle propaggini degli Imperi, bensì nel cuore delle loro Capitali.
Col mutare delle culture di provenienza dei soggetti (i possibili pazienti dei Servizi), con la pluralità dei sistemi di cura, con la diversità delle convinzioni religiose e delle tradizioni, cambia il livello di complessità della situazione clinica, ma non cambiano le dinamiche del vulnus migratorio, non le sofferenze, non il disagio che esso produce.
Malessere, disagio, conflitti incubano silenziosamente nelle soggettività anomiche e marginali delle periferie delle grandi metropoli. Si trasferiscono insospettatamente nelle dis-partecipi collettività-mosaico, per poi esplodere improvvisamente nelle cosiddette “società complesse”, ostili e discordi, della multi-indistintualità. Tuttavia, a saperli cogliere, ci si accorge che i segnali di questa disgregazione (le disperazioni, le rivalse, le rabbie) sono già transitati dai Servizi. Essi – proprio in quanto sensori di un’interfaccia sociale altamente conflittuale – si vedono sempre più coinvolti in una sfida plurima, polivalente, multisignificante della salute.
Dopo quasi trent’anni, la pressione sui Servizi è aumentata perché le risposte sono state insufficienti, paurosamente tagliate e la forbice delle sperequazioni si è allargata. La politica dei Servizi ha bisogno di essere rilanciata con maggior vigore, impiego di risorse, nuove assunzioni di personale, stabilizzazione di quello precario (o volontario) e con strategie sempre più mirate, pena l’imbarbarimento dell’homo homini lupus [042].
 
Note al testo (parte seconda)
[024]. La nave dolce, Italia Albania, 2012, colore, durata 90’, con Eva Karafili, Agron Sula, Halim Milaqi, Kledi Kadiu, Robert Budina, Eduart Cota, Alia Ervis, Ali Margjeka, Giuseppe Belviso, Nicola Montano, Domenico Stea, Fortunata Dell'Orzo, Luca Turi, Raffaele Nigro, Maria Brescia, Luigi Roca, Vito Leccese - Produzione: Indigo Film, Ska-ndal Production; in collaborazione con Rai Cinema, Telenorba. Regia: Daniele Vicari
[025]. Il 30 aprile 1993, una folla inferocita aspetta Bettino Craxi all’uscita dell'Hotel Raphaël, la sua residenza romana. Il sorriso beffardo del primo ministro che si fa sulla soglia, è smorzato da una pioggia di spiccioli che gli vengono scagliati contro. Grande metafora della pancia di una grande nazione che spesso dimentica di avere memoria e cervello ma solo intestini. Cfr. Franz Krauspenhaar. Le monetine del Raphaël. Gaffi Editore, Roma, 2012.
[026]. “Il medium è il messaggio”, cfr. Gli strumenti del comunicare, di Marshall McLuhan, Il Saggiatore, Milano, 1967.
[027. Franco Foschi, in Sergio Mellina. Medici e sciamani, cit., p. 134.
[028]. Mellina, Medici e sciamani, cit., p. 8.
[029].  La Comunità economica europea [CEE, poi UE, poi CE] nasce il  25 marzo 1957 con la firma del trattato di Roma dei sei Stati fondatori (Italia, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Germania) ed entra in vigore il 1º gennaio 1958. Sottoscrissero nell’ordine rispettivamente Antonio Segni per l’Italia – Christian Pineau per la Francia – Paul-Henri Spaak per il Belgio – Joseph Luns per i Paesi Bassi – Joseph Bech per il Lussemburgo – Konrad Adenauer per la Germania Ovest.
[030]. Una sterminata letteratura dell’Ottocento (secolo dell’imperialismo), ha teorizzato queste posizioni in maniera accattivante ma insidiosa fra gli adolescenti [La capanna dello zio Tom; Il libro della giungla; Robinson Crusoe, tanto per fare qualche esempio] e c’è quella sinistra, pseudoscientifica, necrofila degli anni Trenta [Mein Kampf, Manifesto della Razza, Eugenetica, ecc.] che ci ha trascinati all’olocausto. Si potrebbe discutere a lungo sul razzismo delle parole.
[031]. Delle Donne Marcella. Lo specchio del "non Sé". Liguori, Napoli, 1994.
[032]. Cfr. Luigi Ruggiero. Nevrosi e salute psichica. L'ossessività e la psicologia del Sé. Lombardo, Roma, 1996.
[033]. Così titolava La Repubblica di venerdì 7 settembre 2012 p. 37. Invece 6 anni dopo, gli USA con un presidente “piazzista” alla Berlusconi, giunto all’incredibile quasi pace con Kim Jong-un, dopo minacce terribili, riapre i giochi di guerra con la Nord Corea all’ONU. Donald Trump a New York dichiara ufficialmente: "Sanzioni resteranno fino a denuclearizzazione completata", titola il Corsera del 25 settembre 2018.
[034]. Dino Buzzati Il deserto dei Tartari suggestivo e allusivo romanzo del 1940 consacrò l’autore come uno dei grandi italiani del Novecento.
[035]. Si rinvia a Mellina, Medici e sciamani, cit., pp. 73-74 e infra. Sulla medicina  tradizionale africana, suggeriamo: Coppo P. Interprétation des maladies et leur classification dans la médecine traditionnelle Dogon (Mali). Psychopathologie Africaine, 26, 1, 33-60, 1994; Beneduce R e Collignon R. (a cura di) Il sorriso della volpe. Ideologia della morte lutto e depressione in Africa. Liguori, Napoli, 1995; Losi N. (a cura di) Lo specchio del Mali. Istituto Italo - africano, Roma, 1991.
[036]. Delle Donne M., Melotti U., Petilli S. Immigrazione in Europa. Solidarietà e conflitto. Cediss, Roma, 1993.
[037]. Il Convegno di Varese sulla “Migrazione Interna” fu la sede giusta per tentare di raccontare questo inespresso coacervo di sofferenza degli ex-migranti manicomializzati. Il fatto che a nessuno fosse venuto in mente di ascoltarli, di comprenderli, mi convinse a tentare di dar loro voce tramite il mio primo saggio sulla migrazione - Sergio Mellina. Analisi fenomenologica dello spazio antropologico nell’emigrante sardo. Una memoria presentata al Convegno “Psicodinamica e Sociodinamica della Migrazione Interna”. Varese 19-20 Ottobre 1974., Atti del Convegno a cura di C. Romerio, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 1975, pp. 221-225 – successivamente con il mio primo testo: La nostalgia nella valigia. Marsilio, Venezia, 1987).
[038]. Tobie Nathan, per esempio, utilizza sostanzialmente dispositivi etno-psicoanalitici.
[039]. Maggiori dettagli sulla psicoterapia biografica dell’esperienza migratoria si trovano in Sergio Mellina. La tutela della salute mentale degli immigrati e il progetto “Michele Risso” nell’ASL Roma B. in Anna Rotondo e Marco Mazzetti “Etnopsichiatria e psicoterapie transculturali. Il carro dalle molte ruote”, pp. 13-45. Dibattito con Sergio Mellina, pp. 21-25 e infra. Ibidem pp. 47-64, L’Harmattan, Torino, 2001. Id. Gente di passaggio. In: Natale Losi (curatore) “Vite altrove. Migrazione e disagio psichico”, Feltrinelli, Milano, 2000 pp. 236-64, pp. 248-55.. Id. Se l’altro è un immigrato. Aspetti multiculturali della salute e dell’incontro con l’altro. In: “L’incontro con l’altro. Psicoanalisi e culture”. Rivista “Psicoanalisi e metodo” 1/2001, pp. 57-97, Edizioni ETS, Pisa, 2001.
[040]. È stata accordata la preferenza alla dizione multiculturale perché i termini transculturale o interculturale sono meno pertinenti alla “psichiatria delle migrazioni”.
[041]. Per la nozione di cambiamento catastrofico si veda Salvatore Inglese La psicopatologia dell’emigrazione: un’esperienza di cambiamento catastrofico individuale e collettivo. In Mellina S. “Medici e sciamani fratelli separati”, cit., pp. 85-93; cfr anche Bion WR. Il cambiamento catastrofico. Loescher, Torino, 1981; Thom R. Parabole e catastrofi. Il Saggiatore, Milano, 1980; Id. Stabilità strutturale e morfogenesi. Einaudi, Torino, 1980.
[042]. Ciascuno vede un nemico nel suo prossimo. Solo il timore reciproco regola i rapporti tra umani mediante le leggi. La locuzione latina ("l'uomo è lupo dell’uomo"), riferita all'uomo nello stato di natura, è antichissima. La usa Plauto, il commediografo latino di Sarsina, in Asinaria, nel II, sc., a.C.; Erasmo nel ‘500; Bacone e Hobbes nel ‘600. Nel ‘900, il concetto, nella sua più disincantata ed essenziale brutalità, viene ripreso da Freud (l'uomo non è spirito ma istinto). Più articolata e indicata come necessità di organizzare e difendere la polis, lasciando fuori la barbarie, è l’analisi di un recente saggio sul potere di Marco Revelli che si segnala per interesse e cultura: I demoni del potere, Laterza, Roma-Bari,

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