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DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ O DISSOCIAZIONE TRAMAUTICA?

28 Ott 18

A cura di AISTED - Associazione Italiana Studio Trauma e Dissociazione

di Camilla Marzocchi, psicoterapeuta, psicotraumatologa, consiglio direttivo AISTED

L’inquadramento psicotraumatologico fornisce una cornice di comprensione e analisi funzionale dei sintomi attuali del paziente, con particolare attenzione alla sua traiettoria di vita e agli eventi negativi e traumatici che l’hanno costellata. Come esseri umani la nostra identità non è semplicemente il risultato dei traumi che abbiamo vissuto e il trauma non ci definisce interamente come individui; tuttavia le emozioni soverchianti collegate a quei traumi – se irrisolte – possono condizionare profondamente alcune risposte, strategie, difese, risorse e contribuire a sviluppare modalità di relazione e reazioni emotive rigide, automatiche e stereotipate, che tendono nel tempo ad acquisire la forma di aspetti “caratteriali”, “tendenze umorali”, tratti di personalità o, talora, veri e propri disturbi di personalità.

La psicotraumatologia non offre un’ottica deterministica, spesso molto temuta e rigettata da pazienti e terapeuti, ma propone al contrario di integrare nell’inquadramento diagnostico della persona sofferente la storia dei suoi eventi traumatici proprio allo scopo di differenziare alcune riposte post-traumatiche dagli aspetti più caratteriali, biologici e innati della personalità. Includere un’accurata anamnesi delle esperienze traumatiche infantili, può piuttosto aiutare a ridurre i vizi dell’etichettamento diagnostico e fornire una chiave di lettura più ampia e utile all’evoluzione della persona.

I teorici della Dissociazione Strutturale propongono la loro definizione di personalità (Van der Hart, Nijenhuis e Steele, 2013) come “l’organizzazione dinamica all’interno dell’individuo, di quei sistemi bio-psico-sociali che determinano le sue caratteristiche azioni mentali e comportamentali”. In altri termini, il concetto di personalità sana prevede l’idea d’integrazione nella quale gli elementi neurobiologici, psicologici e sociali sono vicendevolmente correlati in maniera coerente, flessibile e adattiva (Mosquera, Gonzalez, 2016). La psicopatologia si manifesta dunque per la mancanza di un’adeguata integrazione fra tali sottosistemi, che possono operare in modo anomalo, non essere modulati o trovarsi addirittura in un conflitto interno. Sulla base di queste considerazioni, i teorici della Dissociazione Strutturale si riferiscono al concetto di dissociazione non come sintomo, ma come meccanismo che sta alla base di molti quadri sintomatologici: lo spettro dei sintomi post-traumatici va dal Disturbo Acuto da Stress e Disturbo da Stress Post Traumatico (Dissociazione primaria o Trauma semplice), include i Disturbi Somatoformi e Disturbo Borderline (Dissociazione secondaria o Trauma complesso), fino alla sua estrema e più grave manifestazione nel Disturbo Dissociativo dell’Identità (Dissociazione terziaria).


 

Disturbo Borderline di Personalità: come rileggerlo in chiave psicotraumatologica?

Uno dei disturbi di personalità più complessi e di difficile inquadramento diagnostico è quello definito nel DSM 5 come Disturbo Borderline di Personalità. I pazienti riferibili a questa categoria diagnostica, presentano spesso aspetti caratteriali ‘difficili’ sin dalla prima infanzia, ma raccontano spesso anche molte esperienze sfavorevoli e traumatiche soprattutto in ambito relazionale e soprattutto nella prima infanzia. Allora cosa determina cosa? Il dubbio è lecito, la risposta ad oggi non è univoca.

La ricerca ha confermato negli anni una stretta correlazione tra trauma precoce e sviluppo di DBP in adolescenza o in età adulta: il 40-70% dei pazienti con DBP ha subìto abusi sessuali nell’infanzia (Zanarini, 2000); il 73% dei pazienti DBP ha subito abusi sessuali e l’83% ha vissuto una grave trascuratezza nella prima infanzia (Battle et al., 2004); i pazienti BPD vittime di abusi sessuali infantili sono tra il 40% e il 70% (Goodman e Yehuda, 2002); il 60-80% dei pazienti DBP riferisce abusi fisici e verbali, abusi sessuali e trascuratezza (Graybar e Boutilier, 2002).

Accanto a questi eventi traumatici, va inoltre indagata dettagliatamente la storia di attaccamento e delle relazioni primarie, proprio perché nel corso dell’infanzia molte delle più frequenti minacce percepite vengono dai segnali emotivi e dall’accessibilità al caregiver, piuttosto che dal livello di pericolo fisico di per sé e da una reale minaccia per la sopravvivenza (Schuder e Lyons-Ruth, 2004). Tra le forme più trascurate di traumatizzazione c’è secondo Schuder e Lyons-Ruth il “trauma nascosto”, ovvero gli effetti negativi dell’incapacità del caregiver di modulare la disregolazione emotiva all’interno della relazione con il bambino (Schuder e Lyons-Ruth, 2004). Crescere in un contesto relazionale minaccioso e avere caregiver spaventosi e spaventanti, genera una disorganizzazione del sistema di attaccamento, che tenderà a manifestarsi in gravi difficoltà relazionali e comportamenti contraddittori, poiché l’individuo che ha vissuto traumi nelle prime relazioni vivrà tutte le successive relazioni con paura, sfiducia, rabbia e vergogna.

Nell’ottica psicotraumatologica l’approfondimento del quadro diagnostico non può dunque prescindere da una raccolta dei principali eventi traumatici di vita (violenze, malattie, lutti, incidenti) e da un’analisi dettagliata della qualità dei primi legami di attaccamento in termini di sintonizzazione emotiva, corrispondenza dei bisogni primari di cura, nutrimento e protezione, presenza di vissuti di pericolo o minaccia nelle relazioni intra-familiari. Al netto di queste informazioni si può iniziare a differenziare tra reazioni post-traumatiche e aspetti di natura biologica e orientarsi tra i diversi possibili inquadramenti diagnostici: il clinico deve porsi l’obiettivo clinico e diagnostico di ricollocare i sintomi del presente in una traiettoria evolutiva appropriata e completa di tutti gli elementi necessari a dare significato e senso a quello che accade al paziente e alle sue difficoltà nella vita quotidiana.


 

Il caso di Linda: tra DBP e trauma complesso, un’ipotesi di inquadramento diagnostico partendo dal DSM

Un approfondimento interessante in questo ambito è costituito da una recente pubblicazione di Dolores Mosquera e Annabel Gonzalez (2016), che offre moltissimi spunti clinici utili al lavoro con pazienti che presentano una storia di traumatizzazione complessa e tratti borderline di personalità.

L’analisi proposta di seguito – e ispirata all’analisi presente in Mosquera e Gonzalez (2016) – riguarda la concettualizzazione di un caso clinico in ottica psicotraumatologica, a partire dai sintomi principali descritti nel DSM 5 come Disturbo Borderline di Personalità. La descrizione del caso che segue non vuole essere esaustiva della complessità e della varietà delle situazioni cliniche, ma può offrire alcuni spunti per integrare l’inquadramento categoriale ad un’ottica psicotraumatologica ed evolutiva.

Linda è una paziente di 47 anni, che giunge in consultazione a seguito di un periodo di depressione maggiore, in cura farmacologica con antidepressivo da 6 mesi, iniziato a seguito della separazione dal suo compagno con cui conviveva da 15 anni avvenuta circa 3 mesi prima dell’esordio. Linda si descrive come una persona da sempre forte, autonoma, indipendente, riconosciuta come brillante nel lavoro e capace di ricoprire un ruolo di responsabilità in una importante azienda della sua città. Non ha mai avuto episodi depressivi, ma solo occasionali attacchi di panico e insonnia gestiti con farmaci e molto sport. In consultazione si mostra arrabbiata e molto critica verso il suo ex compagno e riesce a raccontare molti aspetti problematici della loro relazione, mostrando estrema lucidità nel delineare le difficoltà che avevano portato alla rottura; accenna ad episodi di conflitti molto intensi e aggiunge che si aspettava questa situazione e anzi era sollevata all’inizio e oggi non si spiega il motivo di questo suo grande malessere.

Nel corso dell’anamnesi e durante l’approfondimento dei momenti più critici di vuoto e solitudine della settimana, lo scenario tuttavia cambia improvvisamente: Linda sembra perdere tono ed energia, la rabbia si trasforma in una tristezza profonda e inconsolabile. Si mostra fragile e letteralmente accasciata sulla sedia della terapia; riferisce di sentirsi in realtà disperata e senza risorse e nutre da mesi sentimenti di disperazione e colpa, pensieri di morte di cui non riesce a liberarsi e una costante voce critica che le ricorda quanto la sua vita sia un bluff. Fatica a volte a riconoscersi allo specchio. La sua richiesta è di tornare forte e autonoma come prima, non vuole più tormentarsi per la fine della sua storia e vuole strategie comportamentali veloci perché non ha intenzione di fare un percorso lungo e doloroso, né parlare della sua famiglia d’origine.

Nei due incontri successivi, durante la raccolta anamnestica emergono alcuni eventi traumatici recenti (1 anno prima): il lutto di una zia, cui era molto legata sin dall’infanzia, e successivamente una diagnosi di cancro al seno, per cui ha subìto un intervento e una cura chemioterapica ad oggi conclusa con successo. Il racconto di Linda rispetto a questi due eventi è molto dettagliato, ma freddo e distaccato; racconta di aver sofferto qualche giorno, ma che “nella vita non bisogna lamentarsi”. L’approfondimento dell’infanzia e della sua storia di attaccamento subisce continue interruzioni rispetto alle urgenze del presente, ma a poco a poco emerge uno scenario caratterizzato da estrema trascuratezza emotiva, elevato criticismo genitoriale e alcuni eventi molto traumatici: il lutto del padre quando lei aveva 5 anni per un incidente d’auto, le molestie di un vicino di casa e il rapporto difficile con una madre depressa, alcolista e ipercritica e che poteva diventare violenta improvvisamente e senza controllo. Il racconto di tutte queste situazioni è anche in questo caso molto sbrigativo e razionale: riconosce di essersela sempre dovuta cavare da sola e ritiene anzi di aver preso forza dalla sua storia e di esserne uscita anni prima con l’arrivo all’università e di una nuova vita. Considera la sua storia comune a tante donne e dice che “le cose succedono e non serve fare una tragedia per tutto”. Solo brevemente e al termine del terzo incontro accenna ad un suo tentativo di suicidio avvenuto in adolescenza, su cui però tende a ironizzare velocemente liquidandolo come un “tentativo penoso di attirare l’attenzione”. Nessuno della sua famiglia aveva preso sul serio l’evento. Solo la zia materna ha mostrato empatia e interesse per lei, orientandola sullo studio e sul diventare presto autonoma per fare la sua vita lontana dalla madre e mettersi in salvo. Non ha mai intrapreso né allora, né successivamente alcun trattamento psicoterapico fino al giorno del nostro incontro.

Inquadramento Diagnostico e Psicotraumatologico.

Rileggiamo la storia di Linda, secondo i 5 principali criteri del DSM 5 per il Disturbo Borderline di Personalità

Criterio 1: Sforzi disperati per evitare un abbandono reale o immaginario.

Nella storia di attaccamento di Linda emergono principalmente una grave mancanza di connessione emotiva e un mancato riconoscimento dei suoi bisogni primari ed emotivi. Le sue richieste di aiuto o i momenti in cui da piccola era ammalata, suscitavano l’allarme e l’aggressività della madre, stimolando in lei un bisogno di essere sempre adeguata e perfetta per limitare le sue reazioni. In altre occasioni invece i bisogni della madre depressa avevano la priorità sulle sue richieste e necessità di bambina, quindi Linda ha presto imparato a negare i suoi bisogni in famiglia e mostrarsi forte e autonoma, alimentando però dentro di sé un estremo bisogno di legarsi agli altri. Il perfezionismo, l’autosufficienza estrema, l’accudimento controllante verso gli altri sono stati i suoi sforzi disperati per evitare un abbandono. Quando le rotture invece si sono verificate nella sua vita la sua reazione è sempre stata di rabbia furiosa e talora di minaccia verso chi l’aveva abbandonata.

Criterio 2: Un pattern di relazioni interpersonali instabili e intense, caratterizzato dall’alternanza tra gli estremi della iperidealizzazione e svalutazione.

Il bisogno intenso di avere un legame, sano e naturale per tutti gli esseri umani, è stato frustrato nell’infanzia e l’ha portata a sviluppare una strategia di sopravvivenza apparentemente evitante nel soddisfare i propri bisogni, con una tendenza sotterranea e inespressa a sviluppare una estrema dipendenza verso coloro che hanno mostrato per lei interesse e affetto. Uno stile di attaccamento disorganizzato è la radice dell’alternanza tra iperidealizzazione e svalutazione, poiché il sistema di attaccamento e quello di difesa coesistono nella regolazione della relazione. Ogni momento di distacco e rifiuto, reale o immaginario, con i partner avuto dall’adolescenza ad oggi è stato vissuto da Linda con estrema disperazione (es. tentativo di suicidio) e con reazioni di rabbia incontrollata che non si è mai completamente spiegata, ma che ha ricondotto al suo “brutto carattere”, continuando a non riconoscere il suo bisogno di attaccamento e di dipendenza legato alle ferite dell’infanzia. La rabbia e la disperazione la portano a diventare ipercritica verso chi l’ha rifiutata, verbalmente violenta e sprezzante, senza minimamente riuscire ad accedere alle caratteristiche positive dell’altro, che l’hanno fatta innamorare e sentire al sicuro. La paura dell’abbandono è così soverchiante e spaventosa da attivare il sistema di difesa e dunque rabbia, mentre le scuse e la colpa arrivano solo dopo e riaprono il ciclo di idealizzazione nel tentativo di riparare alla rottura relazionale.

Criterio 3: Alterazione dell’Identità.

L’identità costruita da Linda in famiglia di essere una persona forte, autonoma, responsabile, ed è questa l’unica identità che Linda sente vera nei momenti positivi. Quando tuttavia entra in contatto con le emozioni legate al rifiuto e all’abbandono, si apre dentro di lei un abisso di pensieri negativi su di sé, da cui fatica a risalire e allora inizia a pensare che la sua identità non è così vera, che lei non è la persona che gli altri credono, che la sua vita è solo un bluff. La vergogna è l’emozione principale di quell’abisso, ma si tratta di una vergogna legata alla sopravvivenza e non solo al timore più sociale di una brutta figura: “se non sono all’altezza, l’altro se ne andrà” e se siamo piccoli la nostra sopravvivenza può essere davvero a rischio senza gli altri. La mancanza di cure e di amore incondizionato da parte della madre, ha attivato in lei una strategia di ricerca costante di validazione esterna che la porta a sentirsi però in balia del feedback positivo o negativo degli altri. Quando questo manca la sua forza e vitalità spariscono, sente un vero e proprio spegnimento delle energie vitali: il rifiuto e il giudizio sono trigger traumatici che rinnovano il dolore della freddezza e della violenza materna e non generano quindi solo tristezza, ma un terrore profondo e inconsolabile di non esistere, di non essere più quello che pensava, di non sapere chi è e che posto ha nel mondo. Questo è il contenuto della sua angoscia e dei sentimenti cronici di vuoto (Criterio 7 DSM 5).

Criterio 4: Impulsività in almeno due aree dannose per il soggetto.

Linda non mostra inizialmente sintomi gravi legati all’impulsività, ma esplorando meglio i periodi di rifiuto e di assenza di relazione emergono tre comportamenti ricorrenti nella sua storia: abbuffate legate al cibo, ricerca compulsiva di rapporti sessuali (online), guida spericolata e esplosioni di rabbia a lavoro che l’hanno esposta a richiami formali. Su tutti tende a vergognarsi e dunque a giudicarsi molto negativamente, poiché queste reazioni diventano la prova che lei non è davvero quella persona forte che vuole far credere agli altri. Tuttavia se rileggiamo questi comportamenti come “strategie” con una qualche funzione nel suo sistema emotivo, emerge chiaramente il valore regolativo che hanno sulle sue emozioni – prevalentemente di rabbia – non adeguatamente gestite all’interno: 1. la comparsa è sempre successiva a trigger tramatici di abbandono e rifiuto (separazioni, morte della zia, critiche su lavoro); 2. Queste reazioni emergono sempre per gestire un’intensa rabbia che spesso la spaventa e la fa sentire fuori controllo; 3. In alcuni casi circoscritti si accompagnano a perdite temporanee di coscienza o di ottundimento, in cui Linda si vede agire senza partecipare emotivamente agli eventi e senza riuscire a fermarsi. La rabbia è l’emozione più coartata nel suo sistema emotivo, poiché da bambina è stato pericoloso per lei esprimerla e trattenerla l’unico modo di tenere la madre un po’ più vicina a sé. La parte della sua personalità nella quale si accumula la rabbia sembra tuttavia la stessa che conserva i ricordi traumatici e di aggressione subiti nell’infanzia e la sua azione di difesa – seppur disfunzionale – è fondamentale per mantenere l’equilibrio emotivo interno. E’ stato importante per Linda collegare questa rabbia ad un suo sistema di difesa e protezione verso una parte di lei molto sofferente e sola, anziché considerarla espressione palese della sua inadeguatezza e difettosità intrinseca a gestirsi nella vita.

Criterio 5: Comportamenti e gesti ricorrenti o minacce suicidarie o condotte autolesive.

Il tentativo di suicidio in adolescenza è stato l’unico episodio significativo riportato. Tuttavia la minaccia di suicidarsi è rimasta una costante nei momenti di rottura relazionale e spesso si presenta come una voce interna nei momenti di maggior sconforto e le suggerisce di “farla finita, che tutti i suoi sforzi sono inutili”.

Sebbene la struttura forte e la parte adulta e professionale di Linda forniscano dei fattori protettivi all’impulsività e alla messa in atto del comportamento suicidario, è sempre importante esplorare quando questi pensieri emergono e a cosa servono nell’equilibrio omeostatico del sistema emotivo. Per Linda è stato importante in terapia condividere a poco a poco i pensieri di quella voce interna e scoprire che la accompagnava dall’età di 8 anni, quando sua madre manifestava a lei bambina il pensiero di uccidersi nei momenti di depressione, e che l’aveva aiutata a calmarsi offrendole una possibile alternativa al caos che stava vivendo. Questa parte suicidaria di Linda le ha fornito un aiuto e una via d’uscita nei momenti peggiori della sua infanzia, facendola restare calma e razionale nei momenti di paura. Ricollocare questi pensieri come tentativi di autocura – seppur disfunzionali perché ispirati all’unico modello ricevuto – è stato nuovo per Linda ma molto utile a capire come aiutarsi in modo diverso ogni volta che quei pensieri arrivavano nella sua mente.

Ogni storia offre degli strumenti di sopravvivenza che sono utili nel momento presente, ma che possono diventare meno efficaci nel corso della vita. Nei pazienti Borderline spesso si tratta di strumenti estremi, che sono stati utili in situazioni estreme.

I sintomi di Linda rientrano nei principali criteri diagnostici del Disturbo Borderline di Personalità come descritto nel DSM 5, ma la sua storia di vita la rende inquadrabile in una diagnosi di Trauma Complesso o Dissociazione traumatica secondaria. Linda resta sempre la stessa, con la sua storia e i suoi sintomi, ma la comprensione e il giusto inquadramento del suo disagio sono importanti per orientarla verso le scelte cliniche e terapeutiche più adeguate.

Chi ha vissuto una traumatizzazione cronica e precoce, tende a dimenticare l’origine delle proprie strategie disfunzionali e ad attribuirle semplicemente ad un sé sbagliato, cattivo e profondamente difettoso. Se le ragioni del malessere non sono incluse nella diagnosi, queste ultime corrono il rischio drammatico di ripercorrere questo solco e rafforzare idee di sé disfunzionali e irrazionali. Un approccio evolutivo può attutire questo rischio e dare un senso ai sintomi che è pur sempre utile classificare e identificare.

Nessun essere umano nasce difettoso e sbagliato, ma ogni essere umano può imparare a sentirsi così in un contesto fortemente traumatizzante e minaccioso per la sua stessa esistenza.



Bibliografia

Dolores Mosquera, Annabel Gonzalez (2016) EMDR e Disturbo Borderline di Personalità. Giunti Editore

Onno Van der Hart, Steele, S. Boon (2013) La Dissociazione Traumatica: Comprenderla e Affrontarla, Mimesis Editore.

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