Il sintomo è godimento1
J. Lacan
Il sintomo a rovescio2
Dopo aver definito, non senza fatica, il rovescio del linguaggio, il rovescio del godimento e il rovescio dell’inconscio, possiamo definire propriamente il rovescio del sintomo, ossia intendere la nostra frase “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio che lo determina” all’interno delle coordinate che la producono.
Abbiamo visto che il rovescio del linguaggio, lalingua, è una marchiatura costante del vivente. Abbiamo visto che il rovescio del godimento, il godimento Uno, è il farsi corpo di tale marchiatura. Abbiamo visto che l’inconscio a rovescio è un taglio in sé.
Abbiamo altresì visto che il rovescio del linguaggio e il rovescio del godimento si declinano come c’è dell’Uno, ossi c’è l’urto, c’è il colpo costante, c’è la marchiatura che si reitera come tale, c’è il farsi corpo di tale marchiatura – lasciamo per il momento da parte il terzo rovescio, quello dell’inconscio, in quanto presenta una sfasatura sulla quale dovremo tornare.
All’interno di questo rovescio il sintomo diventa allora un marchio di godimento, ossia la deposizione, fissazione, iscrizione di in marchio, causata dal c’è dell’Uno, ossia dalla marchiatura costante e dal farsi corpo di questa.
Il reale del sintomo
Cerchiamo di intendere qualcosa di più di questa declinazione del sintomo come marchio di godimento causato dalla reiterazione del c’è dell’Uno – dalla reiterazione della marchiatura e del farsi corpo, cioè godimento, di questa.
La marchiatura in atto, il farsi corpo della marchiatura, la reiterazione della marchiatura (c’è dell’Uno) causa l’essere vivente come quell’essere costantemente affetto da ciò. Il primo, automatico, inevitabile e casuale, affetto del c’è dell’Uno, è il sintomo, ossia l’automatica, inevitabile e casuale deposizione e fissazione di un marchio del c’è dell’Uno, cioè il marchio della marchiatura in atto e del fasi corpo della marchiatura – dunque di un marchio di godimento.
Il sintomo è pertanto il marchio che la marchiatura in atto e il farsi corpo di questa deposita in un essere vivente – essendo, come detto più volte, tale marchiatura e il suo farsi corpo, dell’ordine del godimento, va da se che la deposizione del marchio sarà dell’ordine del godimento.
Il sintomo come marchio di godimento è il reale del sintomo.
Dobbiamo precisare meglio lo statuto del marchio, in particolare il suo carattere fisso e dobbiamo precisare meglio il modo automatico, necessario e casuale, in cui sorge.
Il sintomo è una “lettera evento di corpo”
Il c’è dell’Uno, la marchiatura costante e il suo farsi corpo, non può non depositare dei marchi in ciascuno, nell’essere vivente affetto da questo c’è dell’Uno. Il marchio depositato dalla marchiatura è sia una variazione della lalingua, ossia una lettera, un frammento linguistico non articolato a niente, sia un evento di corpo, cioè un irruzione di godimento che prende corpo.
Il versante lettera del marchio non va preso come un elemento, come qualcosa che si fissa – se così fosse sarebbe qualcosa di articolato – ma come risonanza e ripetizione.
Il versante evento di corpo del marchio non va preso come qualcosa che si deposita e ripete, ma come irruzione che si ripete come irruzione.
Inoltre nessuno dei due versanti va inteso nella direzione dell’eccezione, ossia come qualcosa che si stacca da un insieme e va a costituire e funzionare come eccezione. Sia la lettera che l’evento di corpo sono una risonanza e un’irruzione che come tali si ripetono.
Ricapitolando. La marchiatura del c’è dell’Uno fissa e deposita un marchio che è fatto della risonanza di un frammento linguistico e delle ripetizione di un irruzione di godimento. Il sintomo, il reale del sintomo, è questo marchio.
Questa puntualizzazione sulla natura del marchio deve farci notare qualcosa che abbiamo colpevolmente trascurato. Nella nostra riflessione sul dritto del sintomo non ne abbiamo sottolineato abbastanza lo statuto di fissazione. Lacan, recuperando la lezione di Freud, evidenzia da subito – difficile fare altrimenti – il fatto che il sintomo è fissazione. Non bisogna insomma aspettare il rovescio del sintomo affinché si evidenzi il sintomo in quanto fissazione – o per dirla con i termini di adesso, affinché si evidenzi il sintomo come marchio.
Quale è dunque la differenza tra i due marchi?
Per rispondere in modo decente a questa domanda bisognerebbe ricapitolare tutte e tre le parti di questa riflessione. Ci limitiamo pertanto ad una risposta sintetica
Nel dritto del sintomo, come visto, il sintomo è una risposta al trauma, al trauma dell’Altro – al trauma dell’azione dell’Altro sul soggetto. All’interno dell’articolazione di questa risposta, qualcosa si fissa, questo qualcosa è il marchio di come si risponde al trauma dell’Altro ed è il marchio dell’impossibilità e dello scacco di questa risposta – questo qualcosa che si fissa è legato all’azione dell’Altro, da questo deriva e a questo risponde.
Nel rovescio del sintomo, come in parte visto, il marchio del sintomo è una variazione del trauma dell’Uno, è la risonanza e il prendere corpo del trama dell’Uno in un essere vivente.
In estrema sintesi. Il marchio del sintomo è nel sintomo al dritto marchio per l’Altro e nell’Altro. Il marchio del sintomo è nel sintomo al rovescio marchio in sé.
Il sintomo è inevitabile e automatico
È inevitabile che la marchiatura costantemente in atto depositi dei marchi. Il sintomo è dunque una formazione necessaria, o meglio inevitabile.
Il marchio depositato dalla marchiatura è anche automatico, ossia non passa per la risposta del soggetto, in quanto precede la formazione del soggetto.
Occorre qui una precisazione. Abbiamo più volte visto che la marchiatura (c’è dell’Uno) da un lato si reitera come tale e dall’altro istituisce l’Altro e il soggetto. Va da se che la marchiatura inscrivendo il marchio obbligherà questo marchio a ricalcare la stessa bipartizione caratterizzante la marchiatura, pertanto il marchio da un lato si reitera come tale e dall’altro è il perno a partire dal quale si istituisce il soggetto e l’Altro (dunque il perno a partire dal quale si interpreta, maneggia, negativizza l’urto, la marchiatura del c’è dell’Uno).
Il primo lato del marchio, il marchio che si ripete come tale, è quello propriamente automatico, quello che si costituisce automaticamente.
Il secondo lato del marchio implica invece la risposta del soggetto, dunque si costituisce attraverso la risposta del soggetto e pertanto non possiamo considerarlo automatico.
Il primo lato del marchio, il marchio che si ripete come tale, il reale del sintomo, precede il soggetto, precede qualsiasi responsabilità e dunque esclude la dimensione etica dalla costituzione del sintomo.
Il secondo lato del marchio, quello in cui il marchio si fa perno dell’interpretazione della marchiatura, l’annodamento reale-simbolico-immaginario del sintomo, implica invece la risposta del soggetto nella propria costituzione e dunque implica la dimensione etica nel sintomo.
Nel paragrafo precedente occupandoci del reale del sintomo, il primo lato del marchio, abbiamo sottolineato l’importanza di non intenderlo come eccezione. Vale lo stesso per il secondo lato del marchio, anche questo secondo versante non deve essere inteso attraverso il paradigma dell’eccezione. Il marchio come perno non è un elemento d’eccezione che organizza un sistema (il dispiegamento del soggetto) ma un’inflessione che caratterizza tutto il sistema.
Il sintomo lo si prende dall’aria
Infine occorre dire che il marchio depositato dalla marchiatura è casuale – per questo Lacan può dire che il sintomo lo si prende dall’aria: «lasciamo che il sintomo sia quel che è: un evento di corpo, legato al fatto che: lo si ha, lo si ha dall’aria, lo si incamera, da lo si ha»3.
Come si sarà notato nella riflessione siamo passati dai marchi al plurale – la marchiatura non può non marchiare, cioè depositare marchi – al marchio al singolare – la marchiatura deposita il marchio. Questo passaggio, che per altri versi merita una trattazione a parte, ci fa intendere la dimensione casuale, senza ragione, della formazione del sintomo marchio. Detto altrimenti è a caso, senza alcuna ragione, senza alcun legame con le determinanti del contesto famigliare e culturale in cui si vive, senza alcuna riferimento a combinatorie del linguaggio, che si deposita un marchio piuttosto che un altro, che la marchiatura fissa un marchio piuttosto che un altro.
Occorre però annodare questo casuale con il necessario. Diciamolo in modo sintetico: c’è la necessità del c’è dell’Uno, la sua reiterazione, e c’è la sua casuale variazione, declinazione, in un marchio.
Questo passaggio è decisivo in quanto sposta decisamente la clinica del versante dell’Uno – non è in riferimento all’Altro che si determina l’iscrizione del marchio, dunque in analisi non è maneggiando l’Altro che si determinerà il marchio. Il marchio è dell’ordine dell’Uno, variazione casuale della ripetizione, ed è proprio questo nodo “puro caso-pura ripetizione” che occorre fare accadere in analisi.
Se decliniamo questo ragionamento sull’Uno dal versante del corpo e del godimento del corpo, come l’esperienza di alcuni casi clinici induce a fare, troviamo un’analoga ridefinizione dei termini, ossia che l’irruzione del godimento del corpo non è tale, cioè non è irruzione, in relazione all’Altro ma è irruzione in sé.
Tutto ciò obbliga ad una riconsiderazione sul trauma. Del resto non c’è riflessione sul sintomo che non finisca per convocare, in un modo o nell’altro, la faccenda del trauma.
Prima di sviluppare alcune considerazioni sul trauma torniamo sulla nostra frase, “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio che lo determina”.
Il sintomo è il modo in cui ciascuno gode
Il sintomo come marchio è, per le ragioni dette sino ad ora, un modo di godere. Questo sia nel suo versante propriamente reale, cioè del sintomo come ripetizione del marchio, sia dall’altro versante, quello in cui il sintomo è sempre marchio, ma marchio che si fa perno del maneggiamento del c’è dell’Uno.
Nel versante reale il marchio è ripetuta irruzione di godimento. Nel versante perno è una localizzazione, una ciotola di godimento, che orienta la vita del soggetto.
Il sintomo è godimento “causato” dall’Uno
A questo punto ci ritroviamo costretti a modificare la nostra frase. In effetti seguendo il filo degli ultimi passaggi, quelli del sintomo a rovescio, la frase diventa: “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode a causa del c’è dell’Uno”.
Questa variazione della frase iniziale fa cadere uno dei suoi termini chiave, quello di “inconscio”. La caduta di questo termine evidenzia un vizio della nostra lettura, ossia che abbiamo sempre letto la nostra frase dandole una piega parziale. Infatti nel nostro ragionamento la frase si è sempre declinata come: “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode a causa dell’inconscio”, dunque non abbiamo mai considerato il termine inconscio come ciò di cui si gode, cosa alla quale la frase fa chiaramente riferimento.
Il sintomo gode dell’inconscio
Torniamo allora sui nostri passi e proviamo a tenere conto di questa sfasatura interna alla nostra frase, cioè la possibilità di intendere il termine “inconscio” in due modi diversi.
Prima di leggere la frase al rovescio l’abbiamo intesa nel seguente modo. L’inconscio, l’incidenza del significante sul vivente, determina ciascuno in un certo modo, ossia come soggetto mancante e avente a che fare con un godimento interdetto. A causa di ciò è inevitabile la formazione di un sintomo – costituzione del sintomo che implica la responsabilità di una scelta del soggetto. Tale sintomo è inevitabilmente anche un modo di godere.
Quando abbiamo determinato i tre rovesci ci siamo trovati con un nuovo paradigma. Il c’è dell’Uno,
il farsi corpo della marchiatura, causa ciascuno come essere affetto da questa marchiatura, marchiatura che in primis si deposita come sintomo. Tale sintomo è fondamentalmente un modo di godere.
Nella rilettura della nostra frase abbiamo, come detto, perso un pezzo decisivo, ossia il termine inconscio. Proprio questa perdita ci permette di notare che nella nostra frase il termine inconscio non compare solo come ciò che causa il sintomo ma anche come oggetto di cui il sintomo gode.
Proviamo a declinare questa sfasatura nel nostro primo modo di intendere la frase “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio che lo determina”.
Il sintomo, come visto, nel suo annodamento con il fantasma, è un modo di godere che sorge a causa dell’azione dell’inconscio, ma anche in risposta a questa azione, e dunque che di questa azione si nutre e alimenta – dunque che fa dell’inconscio un oggetto per sostenere il proprio essere godimento.
Proviamo a declinare questa sfasatura nella lettura a rovescio che abbiamo sviluppato. Qui ci troviamo con uno sdoppiamento della frase. La frase principale come visto diventa “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode a causa del c’è dell’Uno che lo determina”, alla quale va aggiunta “il sintomo è il modo in cui ciascuno gode dell’inconscio a causa del c’è dell’Uno che lo determina”. In effetti come visto il sintomo è da un verso un marchio, un irruzione ripetuta di godimento, dall’altro verso una ciotola di godimento. L’inconscio è un taglio, una sfasatura, un inciampo, un’interpretazione, un differimento, di entrambi i versanti del sintomo marchio (in modi diversi, cosa nel merito della quale non entriamo), pertanto è inevitabilmente un dispiegamento, un’articolazione, un’alimentazione, del marchio di godimento, qualcosa dunque di cui il sintomo – volente o nolente – gode (cioè qualcosa in cui il sintomo dispiega il proprio essere di godimento).
C’è dell’Uno // Inconscio
Abbiamo segnalato, e solo segnalato – rimandando al precedente testo L’inconscio è reale? – che il rovescio dell’inconscio non è del tutto ascrivibile al “paradigma” c’è dell’Uno. L’inconscio a rovescio, declinandosi come taglio in sé, come taglio in atto, sembrerebbe del tutto omologo al c’è dell’Uno – non possiamo infatti definire il c’è dell’Uno come c’è del taglio? Questa prossimità ci permette di cogliere una differenza essenziale.
La differenza essenziale tra il taglio in sé che è l’inconscio e il taglio in sé che è il c’è dell’Uno, è che il taglio in sé che è l’inconscio è sempre e solo relativo a quello che istituisce ed è sempre e solo taglio in quello che istituisce, mentre il taglio in sé che è il c’è dell’Uno è taglio che si reitera come tale, tutto-solo.
Il rovescio del trauma
Non si può portare avanti una riflessione sul sintomo senza intercettare il problema del trauma. Del resto questo rovescio del sintomo allude costantemente ad un altro modo di intendere il trauma rispetto al dritto del sintomo.
Come in parte accennato il rovescio del sintomo è relativo al rovescio del trauma, il trauma dell’Uno.
Abbiamo visto che il dritto del trauma consiste nell’incidenza del significante sul vivente, cioè nell’azione dell’Altro sul vivente. Il sintomo è un effetto di questo trauma ed è una risposta a questo trauma – risposta che lo rifiuta e lo manifesta (stiamo qui ricapitolando cose già dette).
Il rovescio del trauma è tutto quel che abbiamo detto sul c’è dell’Uno. Possiamo qui ribadire e precisare che il c’è dell’Uno è un urto costante, un farsi corpo di ciò, con cui l’essere vivente è alle prese – l’azione dell’Altro è qui un modo per rispondere e interpretare il c’è dell’Uno. Il sintomo è, come detto più volte, il marchio di questo c’è dell’Uno.
Il trauma come incontro mancato e come incontro riuscito
Il trauma al rovescio può esser inteso anche in altri termini. Come è noto, Lacan ha indicato spesso il trauma come modo per intendere il registro del reale, il reale di quell’essere vivente che siamo soliti chiamare umano. Nel Seminario XI, quello in cui il nodo trauma-reale si salda, Lacan definisce il reale come incontro mancato4. Si tratta di una definizione molto nota e molto, e bene, commentata. Come possiamo intendere qui questo incontro mancato? Si tratta dell’incontro mancato tra l’irruzione della pulsione, del corpo pulsionale, del godimento, a l’azione di simbolizzazione dell’Altro, l’articolazione significante, la risposta del linguaggio. Questo incontro mancato è il reale e questo incontro mancato è il trauma.
Il trauma, per questo Lacan, non è l’irruzione del godimento, ma il mancato incontro, l’incontro impossibile, tra tale irruzione e l’azione simbolica dell’Altro. Qualcosa di simile viene sviluppato nel Seminario XVI. Qui Lacan descrive l’insorgenza del trauma in modo molto preciso5: abbiamo l’irruzione di godimento del corpo, casuale e slegata dall’Altro, la quale rende necessario rivolgersi all’Altro, il quale Altro non può accogliere il godimento, rispondere del godimento, da cui e perciò questo godimento diventa di troppo, eccessivo, dunque fa trauma e dunque genera la dipendenza – del soggetto affetto da questo trauma – dall’Altro, ossia il tentativo di colmare l’Altro affinché sia capace di occuparsi dell’irruzione di godimento, di quel che è divenuto l’eccesso del trauma.
Anche qui il trauma consiste in un incontro tra godimento e Altro, e per la precisione in un incontro mancato e impossibile tra godimento e Altro.
In quest’ottica è corretto ed opportuno affermare che il trauma è il trauma dell’Altro, in quanto è in ragione di una mancanza nell’Altro che il godimento diventa traumatico – di per sé non lo è.
Allo stesso tempo vediamo che già in questi due Seminari Lacan non sostiene sia l’azione dell’Altro a determinare l’irruzione di godimento, ma che c’è questa irruzione di godimento ed è l’incontro impossibile tra questa e l’Altro a renderla traumatica.
La svolta del c’è dell’Uno sta per molti aspetti nel piegare questa concezione del trauma e nell’affermare che l’irruzione di godimento è in sé traumatica, o meglio è in sé il trauma, è l’incontro riuscito del trauma, e che dunque il trauma non ha nulla a che fare con l’Altro e non è operato dall’Altro, ma è l’incessante farsi della lalingua e del godimento, della marchiatura e del farsi corpo della marchiatura.
Frammento clinico
1) Riportiamo qui un frammento di caso clinico. Si tratta appunto di un frammento, confidiamo utile per intendere alcune cose articolate in questa nostra riflessione. Cercheremo di indicare alcuni passaggi del caso che ci sembrano significativi sulla questione del godimento del sintomo – evidentemente ne trascureremo molti altri necessari per poter intendere il caso nella sua complessità. Ci siamo limitati ad alcuni brevi commenti, altre articolazioni, in alcune parti evidenti, tra i passaggi del caso e quanto scritto in questi tre incontri sul sintomo le lasciamo al lettore.
2) S. è un uomo di 40 anni. Inizia la sua analisi a causa di un problema, gli capita di scorticarsi con molta frequenza, in alcuni periodi in continuazione…nel viso, nelle braccia, nelle gambe ecc… In sostanza gli capita spesso di cadere, inciampare, cosa che gli procura uno scorticamento della pelle, mai dei lividi, mai dei tagli.
Questo “mi capita di scorticarmi” diventa ben preso un sintomo, ossia qualcosa che si mette di traverso tra lui e l’Altro, tra lui e il desiderio, tra lui e la soddisfazione, e che gli pone una questione. Questo “mi capita di scorticarmi” diventa pertanto un c’è uno scorticarsi che si ripete e si impone nella vita di S. e di cui S. non sa le ragioni e le intenzioni.
Questo scorticarsi si colloca in particolare nel rapporto con l’altro sesso e si associa con quello che inizia a diventare un altro sintomo, ossia l’ossessione di corteggiare una donna. Proprio l’ossessione di corteggiare una donna, il modo in cui il carattere ossessivo di questa esigenza determina il modo di portarla avanti, sarebbe a suo dire la ragione del ritrovarsi “sempre scorticato” da una donna – qui scorticato assume una valenza metaforica, indica l’essere rifiutato, lasciato, respinto.
3) A questo punto l’analisi subisce una prima significativa torsione. L’associazione tra il significante scorticarsi e il significante corteggiare determina una decisiva riscrittura dell’infanzia di S., il quale si ritrova a dirsi come bambino corteggiato, dalla madre, dalla zia, dalla cugina ecc… Il corteggiato dalla madre prende nell’analisi di S. una declinazione particolare. La madre era una donna di campagna, e come mansione principale aveva quella di pulire ortaggi, verdure ecc… Quest’attività era accompagnata da una vera e propria passione, quella di conservare e decorare gli scarti di quest’attività di pulizia. Allo stesso tempo la madre non è mai parsa ad S. particolarmente soddisfatta del padre, forse “questa passione per gli scarti compensava qualcosa….”. Ma a ben vedere le cose non erano del tutto così. Questo padre, un atleta, preso intensamente in quest’attività, e dunque a dire di S. poco attento alla madre, era un atleta in crisi, ormai incapace di ripetere le imprese passate. “Io corsi…..” era solito raccontare il padre al figlio, in riferimento alle gloriose imprese del passato. Ma questo padre definito come “colui che ha corso”, che sempre dice “corsi”, evoca in tal modo qualcosa che catturava il desiderio della madre e che la madre non ha più. Allo stesso tempo questo “colui che ha corso” non ricorreva nella parole della madre alludendo ad una certa “frettolosità” del padre nelle faccende sessuali? Si evidenzia così che scarti e corsi sono due significanti che hanno incarnato qualcosa della castrazione dell’Altro e del godimento dell’Altro, pertanto sono stati rimossi e sono tornati in quella modalità particolare di ritorno del rimosso che è il sintomo, cioè nella modalità di una condensazione ripetuta, cioè scorticarsi – sintomo che copre e manifesta la castrazione dell’Altro e che copre e manifesta il godimento dell’Altro.
4) In questo punto vediamo come il trauma sia nell’incontro con dei significanti che incarnano la castrazione e il godimento dell’Altro, significanti che si articolano nel discorso famigliare e che ne marcano dei punti di incandescenza e di impasse – vediamo dunque che il trauma è relativo all’Altro ed è prodotto dall’Altro e che il sintomo è una rimozione/combinazione di questi significanti per rispondere a loro e rifiutare quel che incarnano.
5) Ma il sintomo, come visto, si annoda al fantasma. Il discorso di S. declina sempre di più la dimensione degradante e residuale di questo scorticarsi. Ma il fantasma agganciato al sintomo si afferma attraverso un ricordo. Una sera mentre la zia gli fa il solletico, come accadeva spesso (sempre come manifestazione del “corteggiato”), nel dimenarsi si fa uno “scorticco nel ginocchio”. Lo “scorticco”, poca cosa dice lui, lo induce a rivolgersi alla madre, nella quale incontra una sguardo indecifrabile, forse malinconico, forse arrabbiato. Nello stesso momento la madre si mobilita per disinfettarlo, ma lo fa in modo sbagliato, con un prodotto sbagliato, che scortica, ma proprio in quel momento il suo sguardo diventa decifrabile, si “distende”. La dimensione anale del fantasma, intuibile dal sintomo “scorticarsi”, si evidenzia qui e si particolarizza: “se vengo scorticato l’Altro è a posto”.
6) Solo a questo punto entra nel discorso di S. un dettaglio della sua vita sessuale. Durante il coito si scortica. Da sempre, sin dalla prima masturbazione. Prima lo faceva con le mani, cioè con una mano si scorticava la stessa mano, poi ha iniziato a farlo con uno strumento.
Qui affiora un ricordo, decisivo nel caso – e per il tipo di riflessione per il quale lo stiamo utilizzando.
7) Siamo in una giornata qualsiasi della sua infanzia, attorno ai 4-5 anni. È in casa, rientra il padre che dice alla madre “hai candeggiato?”. S. nell’udire ciò si scortica una mano con la mano. Commenta in seduta “strano modo di corteggiare una donna”.
Qui l’analista taglia la seduta dicendo “candeggiare”. Per S. questa interpretazione risulta non udibile e non comprensibile, diventa un corpo che fa irruzione.
Siamo in una fase molto avanzata dell’analisi, la piega che prende l’effetto di questa interpretazione non è quella della costruzione ma quella della precipitazione della fine analisi. Questo il sogno con cui conclude l’analisi. S. è sdraiato su un enorme lenzuolo. L’analista è in piedi sul lenzuolo, in equilibrio precario, dice qualcosa, non si capisce…lo stesso fa la madre, il padre…non si capisce “come un nastro troppo veloce”. Inizia a scorticarsi le mani, le cosce….improvvisamente il lenzuolo lo avvolge, “è carta vetrata!”. Carteggiare dice, e su questa “lettera” si conclude l’analisi.
8) Che cosa ci fa intendere quest’ultima fase dell’analisi, leggendola a partire dalla sua fine? Ci fa intendere che candeggiato è il marchio del sintomo, quella deposizione della marchiatura che è un’irruzione di godimento. Allo stesso tempo ci fa vedere che candeggiato è il perno attorno cui si dispiegano le interpretazioni fondamentali sulla marchiatura e il suo farsi corpo (cioè sul c’è dell’Uno), interpretazioni che diventano fondamentalmente scorticarsi e corteggiare. Infine ci fa intendere l’incontro di S. con la marchiatura, con il farsi corpo della marchiatura – il sogno finale – e la produzione di una lettera, carteggiare, che attesta un assenso al c’è dell’Uno, una piega di questo. Detto altrimenti, questo frammento evidenzia che: in un’analisi si tratta di estrarre il marchio del sintomo (che qui è candeggiato), separarlo dalla sua funzione di perno dell’interpretazione (rifiuto) del c’è dell’Uno (che qui determina scorticarsi e corteggiare) e infine operare una torsione sul marchio, torsione che lo determina come assenso al c’è dell’Uno (qui carteggiare).
L’analisi ha permesso a S. di staccare il reale del sintomo dalla sua funzione di perno e dunque di dare una nuova piega al reale del sintomo, qui carteggiare, che attesta un assenso (e non un rifiuto) al c’è dell’Uno – evidentemente sarebbe opportuno sviluppare diverse cose qui, in particolare cosa permette di dire che carteggiare è un assenso e non un rifiuto, ma si tratta di una faccenda relativa alla logica della fine analisi, dunque siamo ben oltre i limiti di questa nostra riflessione sul sintomo.
1 J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, Einaudi, Torino, 2007, p. 136.
2 Devo questa riflessione, in particolare questa terza parte, al lavoro degli amici e colleghi, e con gli amici e colleghi, di PIR (Pensare il Rovescio).
3 J. Lacan, Joyce il sintomo, in Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 561.
4 Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2003, in particolare cap. V.
5 Cfr. J. Lacan, Le Séminaire. Livre XVI. D’un Autre à l’autre, Seuil, Prigi, 2006, in particolare cap. XX e XXI.
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