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RECENSIONE A “VIVERE CON BARBABLU’. Violenza sulle donne e psicoanalisi”

2 Nov 18

Di Pierpaolo Martucci
La comunicazione mediatica ha ormai da tempo collocato fra i temi costanti della sua agenda quello della violenza alle donne e della sua forma più estrema – il femminicidio – spesso declinato in termini emergenziali. Analogamente a quanto è accaduto per altri tipi di abuso su categorie deboli (come i bambini), talvolta si è trattato di una sorta di “emersione sociale”, più che di una effettiva insorgenza. Tramontate le inossidabili certezze che avevano sorretto il pensiero patriarcale, la violenza, presente da sempre, è affiorata in tutta la sua portata, soprattutto perché le donne hanno sentito che potevano dire, parlare, manifestare la propria identità. Negli ultimi tempi, però, il problema pare essere deflagrato, registrando un’escalation impressionante, di sicuro accentuata dall’amplificazione giornalistica.
Ma la consapevolezza di questa realtà attraversava nei secoli la coscienza collettiva, affiorando nelle leggende e nella favolistica; la pericolosità insita nell’incontro con le forze maschili è ampiamente descritta nei miti e nelle fiabe dal mitologema delle cosiddette “nozze di morte”.
Fra queste, tra le più significative e famose è la storia di Barbablù, per la prima volta narrata da Charles Perrault alla fine del XVII secolo nella raccolta I racconti di Mamma Oca (Contes de ma mère l'Oye) e a sua volta ispirata da un intreccio di racconti e tradizioni orali precedenti in cui si ripropongono motivi archetipici e arcaici, quali quello del seduttore/predatore e della punizione della curiosità/disobbedienza femminile.  
Anche in questo caso si è di fronte ad una storia che, con franchezza, mette in guardia l’infanzia sui fatti scabrosi della vita. Come dimostrato a suo tempo da Eric Berne in un meticoloso lavoro di ricerca sulle similitudini tra il fiabesco e vicende reali di casi clinici conosciuti, infatti, la fiaba può essere intesa anche come strumento per comunicare al bambino pericoli della realtà quotidiana, consentendogli di prepararsi “a lottare contro le gravi difficoltà della vita” (1).
Ma, a ben vedere, la vicenda di Barbablù contiene in sé due tratti tipici dello schema criminologico che si ritrova nella casistica delle forme più gravi di violenza di genere: la dipendenza/sottomissione al potere maschile e l’isolamento della donna vittima.
Il potere dell’ “orco” è prettamente economico: grazie alla sua grande ricchezza (“c’era una volta un uomo, il quale aveva palazzi e ville principesche e piatterie d’oro…”) riesce a sposarsi ancora una volta, nonostante il colore della barba che ispira ribrezzo e spavento e, soprattutto, il fatto che “aveva sposato diverse donne e di queste non s’era mai potuto sapere che cosa fosse accaduto” (2).  Ma l’ultima sposa che, trasgredendo il divieto, apre la stanza proibita dove stavano i corpi di parecchie donne sgozzate “morte e attaccate in giro alle pareti”, si salva da eguale sorte poiché, avendo conservato stretti i legami familiari, tramite la sorella riesce a chiamare in suo soccorso i due fratelli soldati, che giungono in tempo per uccidere il mostro.
È dunque un motivo ben preciso quello che ha spinto Maria Cristina Barducci, Beatrice Bessi e Rita Corsa a titolare Vivere con Barbablù. Violenza sulle donne e psicoanalisi il libro che hanno realizzato a tre mani e che, scandagliato accuratamente il fenomeno, si propone di riflettere su come sia possibile aiutare le donne vittime di abuso sia fisico che psicologico. Il saggio sviluppa un originale approccio interdisciplinare e integrato, che rispecchia le professionalità delle autrici, le prime due psicologhe e psicoanaliste junghiane, la terza psichiatra e analista di formazione freudiana.
Il libro si articola in tre parti. La prima, scritta da Maria Cristina Barducci, esplora le radici storiche millenarie della violenza di genere, simbolica, psicologica e agita, utilizzando la chiave di lettura fornita dalla psicologia del profondo, nella prospettiva junghiana dei cosiddetti contenuti-Ombra, ossia quelli che usualmente vengono rimossi dalla rappresentazione che il complesso dell’Io ha di sé stesso, perché scomodi, sgradevoli e poco gratificanti. Fra tali contenuti – personali e collettivi – primeggia l’aggressività. Alla luce del modello junghiano, l’autrice ripercorre gli itinerari che, a partire dalla fine della civiltà minoica e dalla cancellazione del culto mediterraneo della Grande Madre, attraversando le radici delle tradizioni giudaico-cristiana e greco-romana, hanno segnato la violenza simbolica come fondamento di un ordine millenario, che ha sancito in Occidente la sottomissione delle donne. La psicoanalisi, in particolare quella junghiana, ha costituito lo strumento che per primo ha consentito di mettere in crisi questo universo simbolico oppressivo. Il filo conduttore dei miti classici, ma anche delle fiabe, accompagna le riflessioni analitiche e terapeutiche della Barducci, volte a indicare il difficile cammino che le donne devono seguire per ritrovare la propria soggettività. Nel composito percorso di riordino e restauro del sé femminile, l’autrice si avvale dei più recenti supporti teorici relativi al trauma, alla psicologia relazionale e al narcisismo. Barducci, invero, compendia che non è sufficiente “proteggere una donna maltrattata con gli strumenti della legge, se non viene ristrutturato pure il suo fragile Sé”.
Nella seconda parte Beatrice Bessi – da oltre vent’anni consulente presso il Centro antiviolenza Artemisia di Firenze – indica percorsi di integrazione fra il lavoro sul campo e la psicologia del profondo, e inizia sceverando alcuni fra gli infiniti approcci errati alla comprensione delle condotte di maltrattamento e violenza. A partire dalla tendenza a focalizzarsi sugli eventi eclatanti e sulle loro evidenze fisiche, dimenticando la natura complessa del maltrattamento e trascurando “tutto quello che c’è in mezzo tra gli episodi violenti, che non sono altro che la punteggiatura, molto pericolosa peraltro, di uno scenario in cui tutto l’andamento normale della vita quotidiana, i pensieri stessi, sono modificati”. Per superare queste carenze, sottolinea l’autrice, rilevare il maltrattamento psicologico è un passaggio veramente indispensabile, poiché consente di individuare l’esistenza di abusi anche quando (ed è una condizione frequente) mancano prove manifeste, superando uno dei momenti critici in cui talvolta si bloccano anche operatori esperti. Beatrice Bessi conclude la sua parte con un capitolo dai contenuti dichiaratamente operativi (come si esplicita nel titolo: Rilevare, proteggere, riparare), in cui fa tesoro della sua annosa esperienza professionale di consulente presso Centri antiviolenza.
Rita Corsa sviluppa la terza sezione del saggio secondo le linee di un espediente di singolare originalità, trovando in una fiction televisiva di grande successo la cornice narrativa in cui collocare gli spunti per la sua disamina psicoanalitica e criminologica della fenomenologia dell’abuso. Il riferimento è a Big Little Lies, mini-serie tv statunitense, adattamento dell’omonimo romanzo e best seller dell’australiana Liane Moriarty, pubblicato da Penguin nel 2014. In un contesto di “femminismo light” – termine coniato dalla famosa scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie (3) – si intrecciano le vicende di cinque donne ricche, colte e raffinate nella splendida cornice californiana di Monterey.  E “la violenza sulle donne, agita e dichiarata a diversi livelli, dapprima fa solo da sfondo alla trama, ma, progressivamente, assurge a leit motiv del racconto. Un crescendo perturbante e disturbante, che vedrà una conclusione di sangue”.  L’autrice utilizza singoli episodi e personaggi del plot televisivo come spunto e punto di partenza per pagine che affrontano temi come il ciclo dell’abuso, il sentimento della vergogna, le relazioni perverse e i meccanismi della vittimizzazione.
Un ultimo capitolo è riservato ancora alla vastissima materia della violenza domestica, categoria in cui – richiamando ancora una volta il mito – si possono inserire le uccisioni leggendarie, nelle quali gli aspetti che appaiono specialmente perturbanti – e insieme forieri di modelli archetipici universali – sottolinea l’autrice, “sono le caratteristiche speciali, caotiche e indifferenziate dei rapporti che legano la vittima al perpetratore”. Tragedie eterne, che sembrano condannare l’uomo a replicare, in maniera irriflessiva, gli stessi comportamenti distruttivi nei confronti del cosiddetto “oggetto d’amore”.  L’attualità del fenomeno – anche in riferimento al dramma del femminicidio – è scandagliata mediante l’analisi di dati epidemiologici recenti, forniti da organismi di ricerca quali l’Osservatorio Nazionale sulla Violenza Domestica, di cui per anni Rita Corsa è stata collaboratrice.
In conclusione, Vivere con Barbablù non risulta l’ennesimo contributo di genere, ma piuttosto un libro complesso e plurale, in cui la disamina dei modelli teorici rinvia costantemente a casi clinici e ai profili pratici, sempre illuminata da un’attenzione partecipata per le vittime di tante tristi realtà. Perché, come recita l’unica frase che campeggia sulla quarta di copertina “La donna è un soggetto a rischio”.
 

NOTE

  1. Eric Berne,  Ciao!… e poi?, Bompiani, Milano, 1979.
  2. La versione da Perrault è quella celebre di Carlo Collodi, I racconti delle fate, Adelphi, 1976.
  3. Adichie è celebre anche per la conferenza tenuta in California nel dicembre 2012 (We should all be feminists. Dovremmo essere tutti femministi), poi riportata in un volumetto subito divenuto un testo di riferimento.

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