Un non so che
che resta a balbettare
San Giovanni della Croce1
Tra virgolette
L’affermazione che dà il titolo a questa riflessione va ovviamente messa tra virgolette e interrogata. Il rapporto che la psicoanalisi ha intrattenuto e intrattiene con la questione della mistica e della santità è, non solo molto complesso, ma anche molto scivoloso – diciamo che è, soprattutto per uno psicoanalista, l’occasione o il rischio, per dire molte stupidaggini.
Per non cogliere del tutto questa occasione e per non correre pienamente questo rischio, circoscriviamo il rapporto psicoanalisi/mistica-santità al solo insegnamento di Lacan, e sezioniamo ulteriormente la cosa introducendo all’interno di questo un’ipotesi attorno alla quale, e solo attorno alla quale, svilupperemo la nostra argomentazione.
Ipotesi
La nostra ipotesi è la seguente.
Lacan nel corso del suo insegnamento si interessa alla posizione del santo perché attraverso questa vuole provare a dire e a fare intendere qualcosa della posizione dell’analista.
Lacan nel corso del suo insegnamento si interessa alla posizione del mistico perché attraverso questa vuol provare a dire e fare intendere qualcosa dell’urto del linguaggio sul corpo, dell’urto del godimento (in particolare rispetto a quella versione insolita dell’urto del linguaggio che è l’esperienza di fine analisi).
Due precisazioni
La prima. C’è un legame forte tra la posizione dell’analista e l’urto del linguaggio in cui consiste la fine analisi. La seconda. Lacan nel corso del suo insegnamento si è occupato molto della posizione dell’analista e dell’urto del linguaggio, dunque se si rivolge alla posizione del santo e del mistico per continuare a farlo, vuol dire che suppone che queste due posizioni possano offrire delle indicazioni difficilmente ricavabili altrove.
Il santo
Nello Scritto Televisione c’è un lungo, e molto noto, passaggio sulla posizione del santo. Inizia così: «Lo psicoanalista non si potrebbe situarlo meglio che con ciò che in passato veniva chiamato essere santo»2. Il passaggio continua evidenziando alcuni tratti del santo: 1) fa lo scarto, (non la carità, ma la scartità – si vede che lo scarto è un atto e non uno stato passivo, si coglie l’allusione alla differenza tra tappo del desiderio – carità – e causa del desiderio – scartità), 2) non gode (nisba per lui), 3) è lo scarto del godimento (non gode neanche dell’essere scarto e neanche della rinuncia a godere), 4) se ne infischia (non vuole essere santo, non vuole essere riconosciuto, non si attiene alla giustizia distributiva).
Questi quattro tratti possiamo applicarli senza alcuna esitazione a quel che Lacan intende con posizione dell’analista.
Il terzo tratto, il santo è lo scarto del godimento è a nostro avviso quello decisivo ed è quello a partire dal quale è possibile intendere gli altri. Ci muoveremo pertanto in questa direzione.
Il problema della rinuncia
La posizione del santo è inevitabilmente legata al movimento della rinuncia, del resto i quattro tratti indicati la evocano e la segnalano. Bisogna però mettere in discussione questo legame, fino a scioglierlo. Il terzo tratto, “il santo è lo scarto del godimento”, segnala proprio la rottura di questo legame.
In effetti, il movimento della rinuncia, ossia rinunciare a qualcosa per qualcosa di altro, è un movimento che non può funzionare quando al posto di questo “qualcosa” mettiamo godimento, poiché “rinunciare al godimento è sempre una forma di godimento”, pertanto è impossibile fare della rinuncia al godimento il perno di un movimento – in quanto, ripetiamo, la rinuncia al godimento è godimento.
In questa direzione scarto del godimento, che non gode dell’essere scarto e della rinuncia a godere, sta proprio ad indicare, in prima battuta, che non si tratta di rinunciare al godimento, in quanto rinunciare a godere non è uno scarto del godimento. Cercheremo di capire meglio poi cosa sia questo scarto, per ora è sufficiente sottolineare l’antinomia – mentre solitamente se ne sottolinea l’omologia – tra rinuncia al godimento e scarto del godimento.
Avevamo già messo in discussione la funzione della rinuncia in un precedente testo di questa rubrica, L’anoressia della cura. Avevamo visto, in particolare con il Lacan del Seminario VIII, che per incarnare il desiderio dell’analista non gioca un ruolo decisivo la rinuncia ai desideri mondani ma l’essere presi in un desiderio più forte dei desideri mondani. Avevamo visto insomma che non si tratta di rinunciare per, ma di essere presi in un desiderio più forte di.
Stiamo ora mettendo in discussione la funzione della rinuncia in relazione alla posizione del Santo come scarto del godimento, cosa che dovrebbe farci intendere qualcosa sulla funzione della rinuncia rispetto a quella particolare declinazione della posizione dell’analista chiamata da Lacan scarto3.
Joyce è un santo?
Per intendere scarto del godimento è a nostro avviso utile fare un giro largo e interrogare qualcosa che Lacan ha detto a proposito di James Joyce. Nello Scritto Joyce il sintomo, Lacan afferma «Joyce non è un Santo»4. Ci si potrebbe chiedere da dove venga l’esigenza di fare questa precisazione. A nostro avviso, se Lacan la fa, è perché all’interno dell’argomentazione che sta portando avanti, quella del rapporto tra linguaggio e godimento, Joyce un Santo lo è quasi.
Joyce è un santo
Iniziamo a verificare in che termini Joyce può essere considerato un santo.
Può essere considerato un Santo in quanto la sua scrittura, cioè Joyce, è uno scarto che tocca l’assoluto – è un santo è uno scarto che tocca l’assoluto.
Cerchiamo di intendere questa definizione dividendola in due momenti, il primo la “scrittura scarto”, il secondo che “tocca l’assoluto”.
Che cosa vuol dire che la sua scrittura, cioè Joyce, è uno scarto?
Vuol dire che la sua scrittura, dunque il linguaggio in cui consiste, non è un’articolazione di elementi discreti che produce una storia, e non è un funzionamento che produce una significazione, un senso, ma è risonanza, eco, suono, polifonia, agglutinazione, “chewingum”, «torsione di voce»5.
In questo modo la sua scrittura consiste in un linguaggio che è uno scarto del linguaggio e che è un linguaggio scarto. Il che vuol dire due cose. La prima. Che la scrittura di Joyce, in particolare quella dell’Ulisse e ancor più di Finnegans Wake, consiste in quel che del linguaggio eccede il linguaggio, è fatta cioè da quel che pur essendo del linguaggio, eco, suono ecc…eccede il linguaggio – cioè eccede la comunicazione, l’articolazione di elementi discreti che determina un ordine, la struttura di determinazioni che produce senso, la divisione significante e significato che produce equivoci e differenze . Vuol dire che la sua scrittura ha fatto «lettiera della lettera»6.
La seconda. Che la scrittura di Joyce fa diventare il linguaggio scarto, cioè non è una scrittura, dunque un linguaggio, in cui insiste lo scarto del linguaggio ma è una scrittura in cui il linguaggio stesso diviene questo scarto, diviene quel che lo eccede: «Joyce finisce con l’imporre al linguaggio stesso una sorta di frantumazione, di decomposizione»7.
Veniamo adesso alla seconda parte della nostra definizione, definizione che ricordo è: “un santo è uno scarto che tocca l’assoluto”. Abbiamo provato a definire lo scarto attraverso la scrittura di Joyce, ora sempre attraverso la stessa dobbiamo provare a intendere cosa possa volere dire “che tocca l’assoluto”.
Vuol dire che la sua scrittura nel farsi scarto, nel far diventare il linguaggio scarto, tocca, cioè scrive, l’urto del linguaggio, il colpo del linguaggio, cioè l’assoluto – cioè il colpo che fonda quel rapporto che è il linguaggio, colpo che proprio in quanto fondamento è separato (assoluto) dal linguaggio che fonda, cioè che causa. Un solo esempio, la parola-tuono di Finnegans Wake (si tratta di una parola composta da cento lettere che scrivono tuono in più lingua e che compare nel testo come colpo che manda in frantumi un uovo antropomorfo)8.
Dunque la scrittura di Joyce produce un linguaggio scarto che scrive/tocca l’urto del linguaggio – urto del linguaggio che per le ragioni poco fa indicate, e che meriterebbero un'argomentazione a parte, possiamo chiamare assoluto.
Quel che Joyce ci fa intendere dello scarto
Queste brevi considerazioni su Joyce offrono una versione dello scarto a nostro avviso preziosa per intendere il terzo tratto della posizione del Santo, quello di scarto del godimento.
Quel che possiamo chiamare Joyce-lo-scarto – ossia quanto detto sul farsi scarto della sua scrittura – non evidenzia lo statuto dello scarto come quel che non partecipa a qualcosa, e neanche lo statuto dello scarto come qualcosa che residua in eccesso, ma evidenzia lo scarto come incarnazione del fondamento, facendo intendere al contempo che il fondamento di qualcosa è sempre e solo il colpo, l’urto, attraverso cui si istituisce.
Abbiamo dunque tre versioni dello scarto:
-
Residuo escluso
-
Residuo eccedenza interna
-
Fondamento colpo
Joyce-lo-scarto ci fa dunque intendere qualcosa della terza versione dello scarto. Dobbiamo tenere presente questa per intendere il terzo tratto del Santo, lo scarto del godimento – non dimentichiamo che tutto ciò serve a farci intendere qualcosa della posizione dell’analista, dell’analista scarto.
Joyce non è un santo
Abbiamo visto come Joyce è uno scarto e così facendo abbiamo inteso qualcosa di quella particolare declinazione dello scarto che concerne il Santo – dunque secondo il nostro ragionamento l’analista. Abbiamo già preannunciato che Joyce è quasi Santo, dunque dopo avere considerato come lo è, è il momento di occuparci di come non lo è: come Joyce non è un santo?
È un santo in quanto la sua scrittura è uno scarto che scrive/incarna l’urto del linguaggio, cioè l'assoluto.
Non è un Santo in quanto la sua scrittura (lui) gioisce troppo di questa sua incarnazione, perché la sua scrittura (lui) vuole essere riconosciuta proprio in quanto incarnazione dello scarto, ma soprattutto (e forse soltanto, poiché i primi due criteri ci sembrano parecchio volubili) perché la sua scrittura vuole fondare, vuole fondare un linguaggio, un «dire magistrale»9, un logos sull’incarnazione10, vuol fare dello stritolamento del linguaggio un linguaggio.
In questo Joyce non è un santo, non lo è in quanto vuole fondare – vuole fondare a partire dall’incarnazione dello scarto -, non lo è in quanto è uno scarto che vuole fondare un linguaggio, mentre lo scarto-santo è uno scarto che incarna l’assoluto (come lo scarto Joyce) e si afferma e ripete come tale (contrariamente a Joyce).
Siamo sempre interni alla terza declinazione dello scarto, nella quale dobbiamo ora distinguere la versione Joyce e la versione Santo:
3) scarto = colpo/fondamento:
3a) colpo/fondamento che vuole fondare (scarto Joyce)
3b) colpo/fondamento che si ripete come tale (scarto Santo)
Joyce ci fa dunque intendere lo scarto come colpo-fondamento, ma la sua scrittura nel fare ciò si anima anche dell’esigenza di diventare il fondamento di un linguaggio. Lo scarto che ci fa intendere il santo è dunque prossimo a quello di Joyce, ma con una sfumatura nettamente diversa: non vuole fondare niente ma si afferma come tale – è a questo scarto che occorre guardare quando si cerca di intendere lo scarto-analista (possiamo qui capire in parte l’interesse di Lacan per la posizione del santo, in quanto riesce in parte a farci intendere qualcosa della peculiarità dello scarto analista).
Dobbiamo assolutamente tenere presente questa differenza per intendere la peculiarità dell’affermazione: “un santo è lo scarto del godimento”.
Joyce-lo-scarto//Beckett-lo-scarto
In questa direzione, per intendere meglio lo statuto di questo scarto, possono essere preziose alcune considerazioni di Deleuze-Guattari. In un testo dedicato in gran parte alla scrittura di Kafka, Kafka. Per una letteratura minore, Deleuze-Guattari definiscono la letteratura minore in un modo molto prossimo a quello che qui abbiamo indicato come scrittura/letteratura nella quale c’è un farsi scarto del linguaggio che scrive l’urto del linguaggio. Per esempio, nella letteratura minore, sostengono Deleuze-Guattari, c’è lo: «scrivere come un cane che fa il suo buco, come un topo che scava la sua tana»11.
Nelle prime pagine della loro argomentazione compare la scrittura di Joyce, nella quale anche loro distinguono due momenti, il primo di deterrittorializzazione (compatibile con il nostro farsi scarto), il secondo di riterritorializzazione (compatibile con il nostro voler fondare a partire dallo scarto). Joyce procedendo per «esuberanza e sovradeterminazione»12 riterrittorializza completamente il linguaggio dopo averlo deterritorializzato. Qui i due autori introducono la scrittura di Beckett in quanto (nel nostro codice) incarnazione del “farsi scarto del linguaggio che si afferma come tale” – dunque che non vuole fondare niente -, cioè (nel loro codice) come vera incarnazione di una letteratura minore, quella dove la scrittura spinge «la deterritorializzazione [del linguaggio] sino al punto da non lasciar sussistere che intensità [del linguaggio e nel linguaggio]»13.
Dunque anche per Deleuze-Guattari la scrittura di Joyce è uno scarto che vuole fondare, cioè che opera tutte le riterritorializzazioni possibili dopo aver deterrittorializzato. Diversamente la scrittura di Beckett è per loro uno scarto che si afferma come tale, cioè che porta fino allo «spasimo»14 la deterritorializzazione.
Sulla differenza tra lo scarto Joyce e lo scarto Beckett si è pronunciato, in termini diversi dai nostri, anche Žižek, contrapponendo la sovrabbondanza materiale del primo alla sottrazione di una differenza minima del secondo – attribuendo al secondo la capacità di toccare in questo modo l’urto del linguaggio e “accusando” invece il primo di riuscire solo a mimare l’urto del linguaggio15.
Lo scarto del godimento è il colpo del godimento
Questo lungo giro dovrebbe averci permesso di intendere la dimensione affermativa dello scarto, cioè la terza versione dello scarto, e di saperla differenziare tra la versione Joyce e la versione Santo (analista-Bekcett).
Dobbiamo ora applicarla alla nostra affermazione di partenza, il terzo tratto del santo secondo Lacan: “un santo è lo scarto del godimento”. Alla luce di quanto sostenuto fino ad ora come possiamo intendere questo “scarto del godimento”?
Dovrebbe essere abbastanza semplice.
Non va inteso come escluso dal godimento (da cui non gode, rinuncia a godere ecc…). Questa sarebbe la prima versione dello scarto.
Non va inteso come nucleo eccedente, dunque come osso di godimento ineliminabile e inerte. Questa sarebbe la seconda versione dello scarto.
Va invece inteso come fondamento del godimento, dunque come colpo del godimento, come incarnazione di questo colpo/urto. Questa è la terza versione dello scarto – come visto.
Un santo è lo scarto del godimento vuole dire, dunque, che un santo incarna il colpo del godimento, l’urto del godimento.
Occorre accompagnare questa definizione con due precisazioni.
La prima. È una definizione compatibile con il “non gode” – all’inizio della nostra riflessione abbiamo visto che uno dei tratti del santo è il non godere, “nisba per lui”. Ma occorre precisare questo “non gode”, il quale non è legato alla rinuncia a godere, non è dato da questa, ma è determinato dall’incarnazione: questo scarto non gode proprio perché incarna l’urto del godimento.
La seconda. Abbiamo visto che la definizione di scarto più adatta al santo è la 3b, cioè scarto che si afferma come tale, e non scarto che vuole fondare. Affermare lo scarto come tale è una cosa molto semplice, vuole dire solamente reiterare questo colpo, cosa che inevitabilmente si accompagna con il non volerne fare il fondamento di qualcosa, che qui vuol dire: non voler fare del colpo/scarto un modo di godere (il colpo non è un modo), non voler fare del colpo/scarto una proprietà (non volersene appropriare), non voler essere riconosciuto per il colpo/scarto.
Dunque il santo in quanto scarto del godimento è la reiterazione dello scarto/colpo. Qui occorre collocare l’analista. La posizione dell’analista non è quella dello scarto/Joyce ma quella dello scarto/Santo. Ovviamente su questo punto ci sarebbero molte considerazioni, anche problematiche, da fare – per le quali rimandiamo a successivi incontri della rubrica. A noi interessava qui isolare questo punto, semplice e decisivo: l’analista è scarto che si afferma come tale e non scarto che vuole fondare [(a) l’analista scarto che vuole fondare fa dello scarto del godimento un modo di godere che “costringe” l’analizzante a confrontarsi con questo modo di godere, il che finisce per fare di questo modo l’unità di misura dell’analisi, (b) l’analista scarto che si ripete “costringe” l’analizzante ad incontrare l’urto del godimento16, il che determina un’analisi senza unità di misura].
Lacan si interessa alla posizione del Santo proprio perché gli permette di mettere a fuoco questa peculiare declinazione dello scarto.
Mistica e fine analisi
Veniamo ora alla posizione del mistico. Come detto la nostra ipotesi è che Lacan si interessi a questa posizione in quanto ritiene di poterne ricavare indicazioni preziose sull’urto del linguaggio nel corpo e sull’urto del godimento – e in particolare su quella insolita declinazione di questi urti che è l’esperienza di fine analisi.
Ci limitiamo a un breve accenno, rimandando al prossimo incontro della rubrica lo sviluppo del nodo tra la posizione del mistico e la posizione di fine analisi – tra incontro con l’urto del linguaggio e del godimento nell’una e nell’altra.
A nostro avviso sono tre gli elementi di questo nodo:
-
L’esperienza mistica è un incontro con il colpo (del linguaggio, del godimento) «indissociabile dall’assenso»17 al colpo – lo stesso vale per la fine analisi. Questo è il punto decisivo, l'incontro con il colpo consustanziale all'assenso al colpo.
-
Nell’esperienza mistica c’è un nesso tra il colpo e la scrittura del colpo. Questo nesso è presente anche nell’esperienza di fine analisi, se pure in modalità sostanzialmente diverse. Il punto in comune che vorremmo sottolineare è relativo alle prove: l’esperienza mistica e l’esperienza di fine analisi sono tali se vengono prodotte le prove del colpo, ed è per entrambe (se pure in forme molto diverse) la scrittura del colpo a fornire le prove. Suggeriamo di intendere anche da questo verso l’affermazione di Lacan «la testimonianza essenziale dei mistici consiste appunto nel dire che provano il godimento»18 – ossia di intenderla così: “i mistici forniscono le prove dell’incontro con il colpo del godimento attraverso la scrittura”.
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Nell’esperienza mistica c’è un farsi corpo del colpo – ad esempio il colpo si fa corpo slogato in Santa Teresa19. Lo stesso, anche qui in forme diverse, possiamo dire dell’esperienza di fine analisi – analisi che è una pratica di «slogamento del linguaggio»20 che non può non terminare con uno slogamento del corpo, con un corpo slogato.
1 Devo questa citazione a R.A., che ringrazio.
2 J. Lacan, Televisione, in Altri Scritti, Einaudi, Torino, 2013, p. 514.
3 Cfr. tra l’altro J. Lacan, Nota italiana, in Altri Scritti, cit., pp. 303-307.
4 J. Lacan, Joyce il sintomo, in Altri Scritti, cit., p. 559.
5 J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il sinthomo, Astrolabio, Roma, 2006, p. 91.
6 J. Lacan, Lituraterra, in Altri Scritti, cit., p. 9.
7 J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII, cit., p. 92.
8 J. Joyce, Finnegans Wake, Libro secondo, volume III-IV, Mondadori, Milano 2011, p. 309-309bis.
9 J. Lacan, Joyce il sintomo, cit., p. 559.
10 C. Soler, Lacan, lecteur de Joyce, Presses Universitaires de France, Parigi, 2015.
11 G. Deleuze- F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata, 1996, p.33.
12 Ivi, p. 34-35.
13 Ivi. p. 35.
14 G. Deleuze, L’esausto, Bompiani, Roma, 2005, p. 73.
15 S. Žižek, Sulla letteratura, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016.
16 «L’urto che fa scongelare la parola nell’analizzante e da cui si moltiplica insistentemente la funzione della ripetizione» (J. Lacan, Seminario. Libro XV. L’atto analitico, lezione 19 giugno 1968, inedito (traduzione Sabina Terziani).
17 M. De Certeau, Sulla mistica, Morcelliana, Brescia, 2010, p. 59.
18 J. Lacan, Il Seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino, 2011, p. 72.
19 Devo questo riferimento a Massimo Moretti e al suo La Santa Teresa del Bernini tra critica e psicoanalisi, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. 2/2017, Carocci, Roma.
20 Prendo questa espressione da M. Praz, Due maestri moderni, ERI, Torino, 1967, p. X, che la utilizza a proposito del linguaggio di Joyce.
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