Il soggetto in psichiatria: un’ottica fenomenologica.

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10 aprile, 2019 - 14:00
I. Breve riferimento storico sulla soggettività in psichiatria.
Il tema del soggetto ha una prospettiva euristica ampia che può andare da un ambito filosofico ad una struttura narrativa, ad una concezione religiosa e a molti altri temi. Nella psichiatria ha il doppio risvolto di soggettività e di intersoggettività che gli conferisce il rapporto terapeutico. D’altra parte è risaputo che il profilo di codesto doppio soggetto, il paziente e il terapeuta,  non è definito una volta per tutte ma, in quanto tema psicopatologico, risente di volta in volta della cultura nella quale è immerso e con la quale si confronta. Non a caso Tatossian apre il suo capitolo sulla soggettività nel Trattato di psicopatologia di Widlöcher [1]con un accenno alle declinazioni di questa soggettività nella psichiatria moderna. Che, egli dice,  in sostanza sono tre: l’ottica di Pinel, il lungo periodo della neuropsichiatria e il soggetto dopo la svolta del primo ‘900 all’insegna della critica psicoanalitica e fenomenologica. Ricordiamo qualche dettaglio di queste versioni prima di affrontare la soggettività nell’ottica che abbiamo scelta, quella della fenomenologia eidetica, sulle tracce di Georges Lanteri-Laura..
Il soggetto della follia ha in Pinel[2] delle connotazioni molto moderne che si direbbero quasi daseinsanalitiche. Esso infatti intenziona in certo modo la sua follia facendone uno squarcio biografico-narrativo. Ciò non sorprende se si ricorda la referenza psicopatologica di Pinel: e cioè che la follia è uno dei tanti modi di declinarsi dell’esistenza umana nella sua dialettica di passione e di ragione a disegnare un vivere nel cui corso la follia si configura come diverse espressioni della biografia:  una parentesi come nel caso della Bouffée delirante, un impelagarsi in una via senza uscita come nel delirio cronico oppure una intuizione inventiva, in questa ultima possibilità intravedendosi la metafora dello spirito della generazione di Pinel (1745-1826) che aveva in effetti dette – e fatte - “cose da matti”: in particolare che la legittimità del potere risiede nel popolo e non nel trono e, ulteriore autentica enormità, che gli uomini sono tutti uguali (agosto 1789).
In effetti, l’idea della “diversità incomprensibile” della follia sia in senso demenzialista che nel senso del processo di Jaspers è del tutto estranea al pensare di Pinel.  Comincerà ad affermarsi solo a partire dalla metà dell’800 con l’opera di B.A. Morel (1809-1873) centrata sull’idea della Dégénérescence[3] che fa della follia umana il prodotto di un sistema nervoso danneggiato dalla demenza fra l’assurdo, il ridicolo, il terrifico  e, soprattutto, l’incomprensibile.
Questa idea viene sussunta nella trasformazione neurologica della psichiatria verso la fine dell’800 dove il soggetto della follia diviene il paziente che esprime la malattia di cui è “portatore”, nel caso specifico le alterazioni del suo apparato neuro-cerebrale. Un soggetto cioè come quello della medicina generale, il vero “upokeimenon” di ascendenza greca, una sostanza passiva che si determina per gli attributi che di volta in volta la caratterizzano, nel caso specifico i sintomi di malattia. [4]
Questa spersonalizzazione del soggetto della follia non è una trovata gratuita degli psichiatri ma è il prezzo che paga la “alienistica” a partire dal terzo quarto dell’800 come contropartita di quelle credenziali di scienza medica che acquisisce col diventare patologia d’organo e cessando così di essere patologia di orgasnismo come lo era strata nei suoi esordi specie nella versione di Pinel.
C’è una scoperta che accredita questo passaggio, la  localizzazione dei centri cerebrali del linguaggio (Broca 1861, Wernicke 1874). I centri di senso e di moto già noti e comuni con gli animali potevano infatti dir poco sulla follia e i suoi meccanismi; non così invece i centri del linguaggio che permettevano incursioni nel campo dell’allucinazione acustico-verbale, dell’ossessione verbale e del discorso delirante. Ad illustrare questo nuovo modo di pensare la patologia psichica si può citare la teoria dell’allucinazione acustico-verbale di Tanzi e Tamburini (1883)[5]che leggono codesto sintomo  come crisi epilettica dei centri psicosensoriali dell’udito. D’altra parte Valentin Magnan (1835-1916) faceva affermazioni di questo tenore: “L’impulso irresistibile a pronunciare senza ragione un nome (onomatomania) è segno dell’ipereccitamento di quel centro verbo-motore  che nella afasia di Broca va distrutto”. Ragionamenti puramente analogici, commentava Lanteri-Laura; sì, ma che quegli alienisti prendevano sul serio, convinti com’erano nella loro euforia scientista di quella fine ‘800 che la conferma anatomo-clinica di essi non avrebbe tardato ad arrivare.
Ma a proposito di queste due versioni del soggetto della follia – quella di Pinel e quella della successiva neuropsichiatria – va notata, al di là della loro evidente differenza,  la loro coincidenza sul piano ontologico: per ambedue, infatti,  il soggetto è un ente a-priori caratterizzato dalla individualità che lo distingue dalle cose e dagli altri soggetti, e dotato soprattutto di una propria durata nel tempo che può andare anche oltre la morte del corpo che gli è supporto. Sono questi i noti riferimenti della sua matrice cartesiana che continua del resto  a definirlo tuttora specie nella sua versione psicologista. Nella psichiatria, tuttavia, i due dati fondanti del cogito cartesiano -  pensiero cosciente e autocosciente - vengono meno, la follia essendone la negazione. E non a caso codesto paradigma  porterà obbligatoriamente la psichiatria a leggere la follia come non senso, come incomprensibilità, come demenza, né Cartesio né Kant accreditando la follia come una via di accesso alla conoscenza dell’essere umano.
D’altra parte, l’aspetto ontologico del soggetto è da tener presente in quanto è su questo su aspetto che si incentra la svolta del primo ‘900 col passaggio del soggetto da entità stabile e autodeterminata a funzione precaria e eterodeterminata; e ciò soprattutto per due indirizzi critici, la psicoanalisi e la fenomenologia eidetica. Le quali, al di là dello loro differenze, concordano nel sottolineare l’intersoggettività, la corporeità e l’inconscio come dimensioni costitutive di codesto soggetto, in polemica soprattutto con l’Io assoluto dell’idealismo, del tutto trasparente a sé stesso, che pone l’altro (e il mondo) come sua costruzione e che, in quanto anima bella hegeliana, non ama molto compromettersi col corpo e col mondo stesso.
Il soggetto della psicoanalisi, si può dire in breve che è una funzione di mediazione fra la animalità desiderante dell’uomo, il mondo degli oggetti capaci di appagare questo desiderio e una legge morale che regga tale dialettica riottosa. Il quale soggetto, nella topica del 1922-23, risulta per giunta  in gran parte inconscio, il che fa un’illusione della sua convinzione di “essere padrone a casa sua” e che lo porta così a convincersi di una identità che può poi risultare pirandellianamente tutt’altra.
Quanto alla fenomenologia, essa dà almeno, per dirla ugualmente in breve,  due differenti versioni del soggetto: quella egologica e quella eidetica.
 La versione egologica che si articola fra io empirico, io trascendentale e io puro può dare interessanti aperture di senso nella lettura della patologia mentale. Racchiude però il pericolo che vi riconosceva già Sartre, di ricondurre surrettiziamente la fenomenologia verso l’idealismo  perdendo di vista quel “ritorno alle cose stesse” che della fenomenologia è stata la grande innovazione. Va comunque ricordata la parte delle abitualità che la completa, vicina come è noto all’inconscio psicoanalitico, e riferimento d’altronde su cui si sviluppa la soggettività della fenomenologia eidetica. Verso la quale, per parte mia, maggiormente protendo e per la ragione ovvia di essere stato in questa formato dall’amico e maestro Lanteri-Laura, ma anche perché mi appare col suo presupposto del soggetto come cascame dell’attività eidetica della coscienza meglio capace di penetrare l’incertezza frammentaria del soggetto e il suo declinarsi nella psicosi.
 
II. Il soggetto nell’ottica eidetica: premesse teoriche.
Venendo ora alla soggettività nell’ottica eidetica di Lanteri-Laura, indichiamo subito, come riferimento orientativo, la conclusione a cui egli approda del soggetto come esistente storico che si configura oltre l’immobilismo relativo, fotografico, della ricerca eidetica di cui Lanteri formula addirittura una critica. Questo lo vedremo a suo tempo;  per il momento segnaliamo che in codesta soggettività  Lanteri include,  a titolo costitutivo, le dimensioni del corpo, della intersoggettività e, tratto fondamentale, della presenza sullo sfondo di un mondo umano che della esistenza di tale soggetto, della sua struttura di senso e della sua realtà è l’a-priori trascendentale che lo garantisce.
Già da questi accenni, si capisce quale sia la posizione di partenza di Lanteri-Laura: prendere le distanze dall’idea di un soggetto che costituisce il mondo, l’altro e la cultura secondo lo stile dell’Io assoluto dell’idealismo e prendere le mosse dal postulato base della fenomenologia: il ritorno alle cose stesse. Il che, esplicitato, significa partire dal fatto che il mondo “est là depuis toujours”[6] e che noi lo incontriamo prima di tutto attraverso la percezione intesa come attività eidetica della coscienza che del mondo fa un mondo di significati umani. Al che Lanteri aggiunge: di significati umani costituitisi storicamente. Ma piuttosto che fare  il senso del mondo è corretto dire che la percezione eidetica riconosce tale senso perché il mondo precede la coscienza,  c’è già come significativo e la coscienza fenomenologica non lo crea ma, appunto, lo rivela; e ciò in opposizione ad un mondo cosale, di oggetti disparati quale ci può dare la percezione in senso psicologistico delle scienze naturali, che questi oggetti descrive elencandone i tratti senza però mai arrivare a coglierne la struttura di senso[7] che le sfugge asintoticamente.
Parte dunque la descrizione di Lanteri-Laura dalla percezione del mondo descrivendo così il primo impatto che abbiamo con esso e quale struttura di senso umano gli dia l’attività eidetica della coscienza percipiente. Correlativamente, accanto alla struttura del percepto così individuata, accenna alla struttura del ricordato e dell’immaginato sia per mettere in risalto, per  differenza, la struttura del percepto ( e questo è quasi uno stilema di codesti fenomenologi), sia per mostrare, attraverso queste tre dimensioni eidetiche del rapporto col mondo  come, su questo  fondo materiale e di senso e solo su questo, possa  prendere corpo e configurarsi la soggettività umana.
III. Il fondamento di questo soggetto: gli esempi di “perçu”, “souvenu”,”imaginaire”.
1) Le perçu
 La descrizione della percezione Lanteri-Laura la fonda da buon fenomenologo su esempi di descrizione noematica[8] che possono essere la famosa poltrona di Sartre o l’esempio della casa che a me sembra ancor più parlante per  mettere in evidenza quell’aspetto apparentemente paradossale della percezione che nominiamo subito: l’incidenza strutturale, in essa, dell’immaginario[9]. Novità che anticipiamo salvo a ritornarci con cura dato che su di essa si impernia, come Lanteri ci mostrerà, la comprensione della soggettività, specialmente patologica, di quella delirante in particolare.
Prendiamo la poltrona e vediamo  i tratti noematici che caratterizzano il suo apparire come oggetto percepito facendone nel contempo un oggetto del mondo umano, un mondo cioè di significati storicamente determinati. Codesto oggetto ci apparirà in una maniera che potrebbe anche stupirci se non ricordassimo che questi fenomenologi, con  Husserl in testa, hanno ascendenze di matematici.
Il primo dei tratti noematici della poltrona  della percezione è di essere nel mondo umano in cui io stesso mi trovo, di essere alla portata dei miei sensi, di darsi cioè “in praesentia”: la posso guardare, toccare, rigirare e così via discorrendo. Ma guardandola noto che il suo apparire al mio sguardo è particolare; non è cioè quell’entità globale che mi suggerisce il termine lessicale che la nomina: “la poltrona”  ma è un apparire per scorci successivi. La poltrona in effetti io la vedo di fronte, da un lato, da dietro, da sopra …  ma mai nella sua interezza,  ogni scorcio escludendomi gli altri.
Questa conoscenza per scorci successivi mi rivela un ulteriore tratto noematico della poltrona percepita: che facendone il giro posso ogni volta notare una particolarità che “a prima vista mi era sfuggita”: un tarlo, un fiore della tappezzeria, un’usura del broccato dello schienale … Questo riviene a dire che la percezione è fonte di un sapere inesauribile e che spesso questo sapere noi lo lasciamo nell’incompletezza, come insegna l’esempio della macchina usata. Quando la macchina ci pianta dopo solo duecento chilometri ci accorgiamo che magari le cinghie di trasmissione non le avevamo guardate a dovere.
Ma anche due ulteriori tratti noematici evidenzia la conoscenza per scorci successivi: e cioè la temporalità come dimensione costitutiva della percezione e il collante mnesico che tiene insieme gli scorci via via acquisiti.  L’incidenza di questo collante ce la può rivelare il paziente demente che non concatenando più la sequenza mnesica della moglie con la sequenza mnesica della casa di proprietà  vuol cacciare “quella estranea”[10].
La dimensione della temporalità rinvia alla diacronia del discorso in cui si materializza la percezione come descrizione. Questo riviene a dire che dell’oggetto reale si può parlare da varie angolature e farne un confronto di diverse prospettive[11]; cosa che, come si vedrà, non si può fare di un delirio arrivando a capire per questa via il suo statuto immaginario.
Rimane da chiarire un ultimo tratto eidetico dell’oggetto della percezione: la sua unità. Si è detto che codesta unità appare nel termine lessicale che lo designa ma non appare nella percezione. Il lessico mi da la poltrona come unità, la percezione me la da invece come sequenza di scorci la cui unità nella percezione non apparirà mai. Cosa significa questo, dato che la poltrona rimane un oggetto unico e ben reale? Significa che nell’ottica eidetica, la realtà dell’oggetto appare in un modo molto particolare, fatta cioè di scorci successivi ben reali nella loro singolarità ma, nella loro sintesi, di uno statuto diverso che si rivela essere immaginario. Questa è decisamente una sorpresa – l’immaginario come dimensione costitutiva della  percezione -  e della quale  non si capisce nulla se si prende l’immaginario eidetico  per il contenuto dell’immaginazione psicologistica. Per  questa, infatti,  oggetto immaginario vuol dire oggetto irreale e più o meno fantastico e gratuito  mentre l’immaginario eidetico è una struttura, non è un oggetto: e può essere  una delle dimensioni del modo di apparire di un oggetto reale.
La dimensione immaginaria dell’oggetto reale significa dunque che esso non può apparire nelle sua interezza nella percezione ma vi può apparire solo per scorci successivi con i quali il suo insieme immaginario è però nel rapporto ben preciso e dialettico di figura e sfondo.  La sintesi immaginaria dell’oggetto è il suo riferimento di unità progettuale [12]che rimane nello sfondo e dal quale i vari scorci emergono di volta in volta ai fini operativi[13],  ogni volta rimandando nello sfondo lo scorcio per così dire  utilizzato per far emergere e portare in primo piano quello nuovo che ora appare utile[14].
L’esempio della casa è forse ancor più parlante nell’illustrare la dimensione dell’immaginario nella percezione dato che essa non è della stessa maneggevolezza di una poltrona e non può dare nemmeno lontanamente l’illusione di una percezione d’insieme che potrebbe dare, anche se solo  per un momento, la poltrona. Nella casa, oltre l’esterno, ci sono una quantità di interni e davanti a questa molteplicità impossibile da riunire in un’unica immagine, bisogna che mi rassegni a dire che la  percezione della casa nella sua completezza non l’avrò mai. Questa completezza rimane però ben precisa sullo sfondo della mia percezione dei vari interni e a questa completezza si riferirà di volta in volta ciascuno di essi. Se torno da una regata dopo otto ore di vento e di mare, sfinito e incrostato di sale,  quello che anticipo e poi percepisco della casa è la doccia calda sotto la quale mi precipito; ma l’angolo del bagno con la doccia non è un oggetto separato, avulso da ogni rapporto con la casa (come lo indicherebbe la percezione psicologista) ma si delinea come declinazione della casa stessa, come figura che prende senso e realtà dallo sfondo della casa e, più completamente,  dal mondo umano al quale insieme alla casa esso appartiene.
2) Le souvenu.
Vediamo ora un esempio di souvenu (ricordato) e di imaginaire  che sono importanti in sé e come rilievo differenziale dell’eidos di percepto.
L’oggetto ricordato prima di tutto, e a differenza dell’oggetto percepito che si da “in praesentia”, si dà “in absentia”;  ma anch’esso appartiene allo stesso mondo reale in cui si trova l’oggetto percepito e in cui mi trovo io stesso. E’ però un oggetto sbiadito e tanto più sbiadito quanto più si allontana in quella distanza temporale che lo separa da me qui e ora[15]. Inoltre non ha la riserva di sapere che ha l’oggetto “in praesentia” della percezione tanto che si dice che è difficile contare le colonne del Partenone ricordato. Si può associare al ricordo del Partenone il numero delle sue colonne che noi abbiamo memorizzato come nozione ma fra questa nozione  e l’esperienza delle colonne presenti da contare c’è una specie di inconciliabilità.[16] Questo riviene a dire che il “souvenu” ha dei tratti di astratta fissità come quelli dell’imaginaire; ma che rispetto all’imaginaire ha una differenza fondamentale, quella di appartenere alla realtà; o, più esattamente, di poterci essere ricollegato.
Il mio ricordo del Partenone è stato sbiadito dagli anni che mi separano dal mio viaggio in Grecia ma una sequenza di souvenus  che passa per i nostri amici del Pireo che ci ospitano, per la loro macchina con la quale ci conducono al piede dell’Acropoli districandosi con naturalezza in un traffico che per me è apprensione e incertezza e che passa infine per i Propilei salendo i quali si raggiunge il Partenone. Se il Partenone fosse immaginario non lo troverei alla fine di questa sequenza; e nemmeno lo raggiungerei prendendo il piroscafo o l’aereo per Atene.
 Facciamo un altro esempio:io ricordo molto volentieri il mio 470[17] nel giorno in cui col prodiere si vinse il Trofeo Accademia Navale di Livorno per la nostra classe. Una vittoria incredibile anche perché fra me e il prodiere con le nostre età mettevamo insieme  più di un secolo mentre l’età di questi equipaggi può arrivare al massimo a 60 anni. E ricordo che quel giorno ho guardato la barca con occhio ancor più innamorato del solito e con in più un sentimento di profonda gratitudine. Non è da stupirsi perché le barche-piuma come il 470 fanno tuttuno col tuo corpo e col modo di sentirlo,  col tuo senso dell’equilibrio e con le sensazioni di “volare” che nel tuo spazio vissuto puoi provare. E la gratitudine perché ci aveva portati alla vittoria senza il tradimento della sartia che si rompe o della deriva che si incastra.  Un ricordo intenso, dunque, che però ha seguito anch’esso la legge del souvenu andando quindi a scolorirsi nel tempo. Ma non ha per questo lasciato il suo rapporto  con la realtà perché io posso risalire da quel ricordo di dieci anni fa, attraverso una sequenza di souvenus – la premiazione per mani dell’Ammiraglio, il ritorno a casa con la barca a rimorchio, l’accoglienza affettuosa e complimentante di mia moglie, lo champagne per festeggiare con gli amici – al 470 reale che tuttora posseggo e che posso vedere, toccare e farne il giro quando si tratta di fargli le riparazioni. L’oggetto souvenu si dà dunque in assenza ma ricollegandosi, attraverso una catena di souvenu, a un percetto reale attuale che si da “in praesentia”.
3) L’imaginaire.
Diverso invece lo statuto dell’oggetto immaginario il quale, come immagine si da ”in praesentia” come l’oggetto della percezione, ma come oggetto immaginario si da in “absentia”: e  una absentia  che lo situa  non in un altrove di questo mondo come era per l’oggetto souvenu ma  nell’altrove di un mondo altro. Si può fare in proposito l’esempio della poltrona dipinta su una tela. Ciò che qui è “in praesentia” è una tela coperta di vernice ed è questa che sento al tatto quando voglio toccare la poltrona. La poltrona  come tale non riuscirò mai a toccarla. Si potrebbe però obiettare che per una catena di souvenus, posso risalire dalla poltrona dipinta alla poltrona reale che della poltrona dipinta è stato il modello. Ma rispetto all’esempio del 470, c’è questa differenza sostanziale: che sia sul 470 attuale che su quello del ricordo si poteva andare a vela, sulla poltrona del quadro invece non riusciremo mai a sederci, ciò essendo possibile fare solo con la poltrona reale che ha servito da modello.
Da dire inoltre che la poltrona dipinta si presenta con tre ulteriori tratti tipici dell’immaginario.
-Il primo, che lo scorcio attraverso il quale essa si dà, in luogo di essere uno dei tanti possibili come è per la poltrona della percezione,  è l’unico; ed esso, come tale, racchiude tutto il significato[18] di quella poltrona. Di questa poltrona cioè noi sapremo solo quello che appare in questo scorcio: quanti  fiori della tappezzeria, quanti tarli, quanta usura sul broccato dello schienale …
 -Il secondo tratto è che il suo significato si da come immediato e nella sua globalità, in un modo molto diverso dal significato dell’oggetto percepito che si da attraverso una diacronia. La conoscenza del percepto è una conoscenza per così dire storica, declinata[19] per percezioni successive, è sempre incompleta, quindi integrabile di nuovi significati, mai definitiva. La conoscenza dell’immaginario è invece sincronica, è quale si da nel suo significato immediato  e tale rimane. Non si può accrescere[20].
- Il terzo tratto della poltrona immaginaria  riviene a dire che la conoscenza che esso ci da  è una conoscenza sbiadita – o, come diceva Sartre -  impoverita rispetto alla conoscenza che ci può dare la percezione[21] che, come s’è detto, è una conoscenza inesauribile. La poltrona immaginaria è ridotta alla monosemia dell’unico  scorcio in cui la presenta il pittore, è quella che è una volta per tutte. Essa contiene solo il sapere che il pittore ci ha messo; e ci potranno volere anche diversi passaggi per coglierlo tutto, questo sapere,  ma la sua differenza dal sapere che da la poltrona reale è radicale: il sapere dell’oggetto immaginario ha un limite, quello dell’oggetto reale non lo ha.  Tutto questo tornerà alla mente quando parleremo del soggetto del delirio come soggetto immaginario.
Ho descritto questi tre esempi del perçu, del souvenu e dell’imaginaire per mostare come il mondo in cui appare la soggettività non è un mondo cosale ma un mondo dove il cosale viene trasceso in una prospettiva di significato umano per opera della intenzionalità della coscienza eidetica. La quale coscienza, che non ha nulla a che vedere come è risaputo  con la coscienza individuale psicologista, è un’attività impersonale che non implica alcun soggetto sottinteso: è la vita stessa che impatta col mondo attraverso la percezione.  Ed è interessante vedere come Lanteri-Laura da questa attività faccia emergere la soggettività prima in termini di soggettività impersonale e poi in quelli di soggettività individuale proprio  attraverso i riferimenti costitutivi del perçu, del souvenu e dell’imaginaire che non a caso abbiamo appunto sviluppati come fondamento del senso umano che il mondo prende attraverso di essi.
IV. L’apparire della soggettività.
1) Il profilo impersonale.
Una soggettività impersonale,  l’attività percettiva eidetica, dice Georges Lanteri-Laura , se non consente di affermarla, permette però di avanzarla come ipotesi. Per affermarla, non ci sono prove; per supporla, invece,  c’è un indizio che pur essendo unico è tuttavia molto convincente ed è parte integrante dell’attività percettiva stessa: la potenziale pluralità di angolature dalle quali essa può far apparire il suo oggetto. 
Riprendiamo la nota poltrona e vediamola dal punto di vista dei suoi vari utilizzatori. Lo scrittore che si accinge a usarla la avvicina dal dietro per allontanarla dal tavolo, la guarda poi dall’alto preparandosi a sedersi e, una volta sedutosi, la spinge, un po’ trascinandola, sotto al tavolo per arrivare in buona posizione di scrittura. Invece, il tappezziere che deve ripararla la guarda, e maneggia, in un modo ben diverso: comincia col  valutarla  nel suo insieme, passa poi a controllare i particolari come l’elasticità delle molle del sedile, l’integrità del broccato,  se nella corona di chiodi che lo ancorano al fusto ci sono mancanze o capocchie perse che lasciano sporgere fusti di chiodi suscettibili di ferire la mano, saggia la stabilità del fusto della poltrona e la tenuta dei suoi incastri … e così via discorrendo. La casalinga infine che la poltrona si accinge a pulirla la guarda da davanti, schienale e braccioli, per scoprire macchie eventuali d’inchiostro o di unto, per valutare se il broccato tiene ancora oppure se sia da cambiare per esser consunto lasciando  apparire la trama, se la poltrona ha ancora la protezione di feltro sotto i gambi o se questa vada rinnovata per evitare di fare strappi nel tappeto su cui la poltrona sta di solito e viene mossa o trascinata.
Gli esempi di questo genere si potrebbero moltiplicare indefinitamente tutti confermando la possibilità di abbordare la poltrona della percezione da angolature diverse e con una loro diversa successione da caso a caso. Sono queste possibilità che fanno apparire una soggettività seppure di tipo impersonale. E tale rimane benché le sue diverse possibilità noi le abbiamo attribuite ciascuna ad un soggetto individuato (lo scrittore, il tappezziere, la casalinga) . Però con questo fare abbiamo in qualche modo forzato il senso della nostra descrizione la quale, in prima istanza, quanto all’approccio percettivo,  fa apparire  una soggettività che rimane totalmente impersonale. Così, invece di qualificare i nostri soggetti percipienti, avremmo dovuto  lasciarli nell’anonimato di semplici cifre (soggetto 1, 2, 3 …) modo più adeguato scientificamente ma meno gradevole stilisticamente. Comunque, l’idea di Lanteri che per questa via compaia una soggettività impersonale nel campo trascendentale del perçu ci appare convincente.
2) La soggettività personale
Allora, come si può passare da codesta soggettività rigorosamente impersonale ad una soggettività personale visto che la soggettività impersonale che emerge dalle angolature della percezione non tollera nemmeno quella personalizzazione generica, per  tipi,  che noi le abbiamo imposta col nostro introdurre lo scrittore, il tappezziere, la casalinga? Questo, dice Lanteri-Laura, avviene quando teniamo conto che il perçu attuale comune ai tanti individui,  più o meno identico per ciascuno di [22]essi, lo si considera come punto di arrivo di sequenze di souvenus molto diverse dall’uno all’altro di questi individui percipeinti.
Per me il nostro gatto rimanda a quando lo abbiamo preso io entusiasta, mia moglie un po’ reticente (A chi lo lasciamo quando andiamo via? Non si può mica lasciare solo!), per me poi ricollegandosi ai vari gatti che ho avuti, in particolare alla Memé, una certosina dal carattere tipicamente estroso della sua razza e di difficile frequentazione ma che amava farmi compagnia accovacciata per ore sul bordo del mio scrittoio quando scrivevo, ben contenta della lampada che la riscaldava (o forse solo di quella?). Il che mi sollecitava il souvenu di Crapaud, il gatto del figlio di Lanteri-Laura, un “otto chili” striato di rosso che passava ore sul tavolo di Georges intento a scrivere, anche lui crogiolandosi al caldo delle cinque luci della lampada-abatjour che Georges usava.
Per mia moglie invece, la sequenza ancora diversa dei souvenus risaliva alla sua diffidenza iniziale nei confronti dei gatti  per averla i suoi genitori abituata al cane lupo; diffidenza che poi aveva vinta al punto da adottare il nostro ultimo gatto come compagno fisso della lettura del primo pomeriggio, lei a sfogliare la Rivista del Louvre o Beaux Arts magazine e lui a pagarsi sonni da encefalogramma delta stravaccato sul suo grembo. Per la moglie di mio cugino la sequenza di souvenus era ancora un’altra essendo lei un po’ fobica e mal tollerando la presenza di quel “sacco di pulci” documentato come tale da vari episodi di fastidi e di insetticida; mentre mio cugino aveva una sequenza ancora diversa che lo riportava alla sua connivenza con i gatti della Darsena di Viareggio a cui dava ogni volta gli avanzi della sua pesca. Ovviamente queste sequenze di souvenu di mia moglie e dei cugini che riferisco son quelle che ho conosciute dai loro racconti ma è ovvio che quelle appartenenti alla memoria di ciascuno di loro sono infinitamente più ricche. E con queste sequenze di souvenu diverse da persona a persona, la soggettività prende un profilo individuale.
3)La dimensione dell’intersoggettività.
Dagli accenni che ho appena fatti alla soggettività individuale, un certo sentore di intersoggettività si può essere già avvertito perché il gatto presente nel nostro salotto non è l’oggetto cosale che la percezione mia o di mia moglie o dei cugini fotografa in senso psicologistico (ciascuno per sé) ma è un eidos del campo trascendentale  dove si intrecciano le nostre intenzionalità e che si configura come un mondo umano  i cui oggetti vi appaiono con quel significato umano che condividiamo come punti di intesa e di intersoggettività. Ma se questo è un primo accenno di intersoggettività, Lanteri lo sviluppa ulteriormente mettendo in moto in chiave di comportamento la scena che noi abbiamo presentata in una specie di staticità fotografica di atteggiamenti. Infatti noi il gatto l’abbiamo lasciato sulla sua poltrona e non abbiamo raccontato che qualcuno si muoveva a carezzarlo mentre una altro andava a cercargli i croccantini o la ciotolina del latte e trovare nell’“intendersi” in questi atti un tratto della intersoggettività. L’esempio di Lanteri è invece una scena fin dall’inizio di movimenti umani intrecciati  e mostra degli operai che gettano le fondamenta di una casa davanti agli occhi del proprietario che un po’guarda e un po’ dirige e del pensionato in promenade col cane  che s’è fermato a guardare.
Gli operai che tirano su il muro della futura casa, visti nell’ottica del campo trascendentale, non sono intenti a fare, ciascuno per sé, dei gesti separati e scollegati di cui non esiste l’articolazione reciproca e complessiva ma sono presi in un flusso unitario di attività intenzionalmente significativa e finalizzata della quale i vari gesti che ciascuno di essi compie sono le varie  declinazioni (come le parole che sto scrivendo sono le declinazioni del discorso che io tengo come unità finalizzata di significato).  E’, la loro, un’attività umana che si staglia su di un mondo di significati umani che di questa attività garantisce la struttura di senso unitaria e anche garantisce la realtà. Ozioso e fuorviante, dice insomma Lanteri, fare del mondo un’astrazione fisico- matematica di tipo idealistico  che sola ne rivelerebbe il senso e prendiamolo invece nella sua realtà materiale e umana storicamente costituitasi e vediamo come l’intersoggettività vi appare. Codesto lato storico intersoggettivo ce lo mostrano del resto gli stessi operai con i loro gesti come stendere l’intonaco con la cazzuola, gesti  che ritroviamo fin dalle pitture delle tombe dell’Egitto antico, salvo che lì è la mano dell’operaio a porsi come la mestola che stende la calce sul muro. E anche la capacità di tirar su un muro è ovviamente figlia di un antico  sapere appunto di intersoggettività umana che si manifesta attraverso la memoria del fare, i calcoli che lo progettano e gli strumenti che lo realizzano. Tutti questi soggetti sono  presi nell’intersoggettività di una storia e di una cultura comuni.
Questo fondo storico del sapere e fare umano è più o meno consapevolmente presente sia agli operai che costruiscono la casa, al padrone che paga la costruzione e al pensionato che la guarda crescere. Ebbene, secondo Lanteri è attraverso questi comportamenti che si costituisce l’intersoggettività in quanto consenso  e compartecipazione intenzionale [23] su quelle conoscenze umane  a tutti comuni e condivise che abbiamo indicate e che rinviano a dei valori umani come  quello del sapere tecnico o quello della convivenza civile organizzata giuridicamente.
Questo modo  di pensare fa ovviamente sussultare chi situa l’intersoggettività fra i sentimenti più profondi e anche più difficili da raggiungere con la descrizione; ma qui si ritrova il postulato di fondo della fenomenologia eidetica e cioè che i nostri vissuti sono gli aspetti eidetici degli oggetti del mondo che danno a questi vissuti consistenza descrivibile. Se voglio descrivere il mio orrore, dice Sartre[24], non scendo nel profondo (veramente, lui dice nell’”umidiccio gastrico”) della mia coscienza ma esco (lui dice “esplodo verso il”) nel mondo col fare la descrizione eidetica della maschera giapponese che codesto orrore mi suscita e al quale essa da appunto una consistenza descrivibile. Certo, in questa ottica l’intersoggettività appare, almeno a prima vista, ridotta ai minimi termini in nome di un materialismo da rotocalco e ci sottrae tutta quella conoscenza del sentire profondo dell’altro, e anche del suo “secretum”[25], che della intersoggettività si pensa faccia parte o in modo esplicito o, almeno, per allusioni. La cosa è però ben diversa se si guarda  le cose più da vicino.
Tornando all’esempio della costruzione della casa, si constata che il percepto attuale di quella costruzione è per gli operai, il padrone e il pensionato il punto di arrivo di  sequenze di souvenu, ovviamente molto diverse dall’uno all’altro di loro. Per gli operai, dice Lanteri, l’andamento per esempio del mercato edilizio e il problema di poter trovare lavoro finita quella casa; per il padrone il problema  certo del mutuo e quello probabile di contentare la moglie; per il pensionato, ricordi e nostalgia;  per non citare poi le relazioni affettive di ciascuno con i souvenus di attese e delusioni che essi hanno già comportato. Come dire che dietro la sua apparente semplificazione comportamentale, appaiono in questa intersoggettività delle sequenze di vita ricche e intense le quali danno un ulteriore e fondamentale contributo alla sua comprensione. E questo per il fatto che tali sequenze di souvenus  individuali non sono delle parallele che non si incontrano mai ( o solo all’infinito) ma si intersecano fra loro nei modi e nei punti più impensati. E per scoprirlo basterebbe invitare ad una cena tutti questi interlocutori per veder manifestarsi intrecci favoriti da souvenus di viaggi, pratiche sportive, conoscenze occasionali, interessi culturali o politici, vicende personali e così via discorrendo. Tutto questo rivenendo a dire due cose.
La prima, che la intersoggettività appare come connotato immediato della soggettività. Gli esseri che abitano il mondo umano non son delle monadi chiuse ciascuna su sé stessa e con l’opzione eventuale di potersi aprire alla relazione con altre monadi; questi esseri nascono in un intreccio relazionale che li costituisce come intersoggettività all’insegna del linguaggio e della cultura.  Così, nel descrivere per esempio un delirio cronico, si può partire anche noi dal soggetto delirante come facevano i nostri antenati alienisti dell’8-900 che si fermavano però all’errore morboso di giudizio di quella persona e su quello chiudevano il loro discorso; noi invece da quel discorso vogliamo partire per capire il delirio come mondo delirante, per strutture eidetiche che ne rivelino l’intreccio di souvenus-perçus che lega fra loro i suoi personaggi.
L’altra cosa da dire è che la intersoggettività così concepita travalica  di gran lunga un rapporto duale sul quale la si vede a volte costruire ma appare, attraverso gli infiniti intrecci potenziali e attuali delle sequenze di souvenu, un immenso reticolo di rapporti, un vero e proprio a-priori trascendentale di significato del mondo umano che gli fa da sfondo e dei soggetti che vi compaiono a titolo di soggetti umani. In altri termini, dietro l’apparente semplificazione materialista, al livello di comportamento,  della intersoggettività, la prospettiva di Lanteri apre invece sulla ricchezza senza fine di questa intersoggettività non senza un afflato spinoziano che fa dei soggetti umani dei modi  della sostanza relazionale che del mondo umano è l’essenza.
Abbiamo dunque visto come appare la soggettività nella prospettiva fenomenologico-eidetica di Georges Lanteri-Laura: dapprima in una forma impersonale a cui allude la natura stessa della percezione attraverso le varie angolature con cui fa apparire l’oggetto; angolature che fanno appunto pensare di volta in volta ad un soggetto che possa mettere l’oggetto in una prospettiva di suo gradimento. Su questa base, la soggettività individuale appare quando ci si rende conto che il percepto ogni volta in causa è in effetti il punto di arrivo di una sequenza di souvenu diversa da persona a persona. Si capisce così come gli eidos della percezione e della memoria in quanto strutture di senso del mondo, siano il fondamento di codesta soggettività che appunto per questa via prende il senso di soggettività umana a cui il mondo fa da sfondo di senso e garanzia di realtà. La quale soggettività si mostra poi come costitutivamente intersoggettività quando ci appare l’intreccio più vario delle infinite sequenze individuali di souvenu e del relativo comportamento umano. Come dire, per tornare all’esempio di Lanteri,  che i muratori, il padrone della casa e il pensionato spettatore esprimono la loro intersoggettività come intesa e condivisione di valori umani.
A questo punto si può notare en passant come la concezione di Lanteri vada a intrecciare quella di Edith Stein[26] malgrado la distanza degli ambiti di appartenenza culturale dei due autori. Edith Stein fa muovere la sua ricerca della intersoggettività dalla comparsa di un altro corpo vivente  nel campo percettivo dell’osservatore. Per questa via arriva ad una intersoggettività fondata su un’ipotesi dell’altro sulla quale  continua però a gravare la opacità impenetrabile del corpo e per uscire dalla quale si corre il rischio di fagocitare l’altro  “intenzionandolo” come nostra appendice narcisistica o di essere da lui fagocitati se ci intenziona come oggetto. L’empatia che per Edith Stein fonda l’intersoggettività si chiarisce e si fa più sicura quando l’intesa con l’altro si svincola dalla incertezza ambigua e opaca del corpo e passa sul piano dell’intesa su dei valori. Ebbene in questi valori troviamo ciò che Lanteri chiama  comportamenti umani mostrando dove si serra l’intesa fra questi autori del ‘900 che risulta per noi illuminante. Edith Stein poi si spinge anche oltre per questa via arrivando alla empatia come intesa di anima ad anima in chiave di valori spirituali  ancor più così sollevando dall’ambiguità del corpo il problema della intersoggettività.
Bene, chiudiamo questa chiosa e vediamo di chiarire i restanti tratti della soggettività secondo Lanteri-Laura: la dimensione del corpo e, soprattutto,  l’unità identitaria del soggetto.
4) La dimensione del corpo.
Alla dimensione corporea della soggettività secondo Lanteri-Laura abbiamo già accennato qui potendo aggiungere che, vista la posizione di partenza di Lanteri, appare di facile comprensione, quasi evidente in sé; ché Lanteri, come ho detto, parte dal dato di fatto che il mondo c’è da sempre come da sempre ci sono i suoi abitanti umani incarnati in un corpo. Per cui il corpo è sottinteso in questa loro presenza ed è il modo in cui la coscienza si radica nel mondo. La coscienza eidetica è un’attività impersonale e incorporea ma sarebbe duro rappresentarsela nell’ottica della fenomenologia eidetica e del suo ritorno alle cose stesse senza un soggetto dotato del suo corpo che codesta attività esplica concretamente. Ciò ripete ancora una volta che questa fenomenologia non crea il mondo ma va alla ricerca del senso del mondo, un mondo che esiste da sempre,  “qui est là depuis toujours”,
V) L’unità identitaria: lo statuto immaginario del soggetto.
 Vediamo ora l’ultimo tratto eidetico di questo soggetto. Vedremo poi quello ulteriore con cui Lanteri ne completa il profilo in modo inatteso e originale nei termini di un  esistente storico,  tratto che però è meno da fenomenologia  che da materialismo storico.
L’unità identitaria del soggetto è un problema che non sussiste per chi parte dalla posizione molto diversa del soggetto-entità pel quale l’unità identitaria è un a-priori trascendentale; problema invece di rilievo per un soggetto quale lo descrive la fenomenologia eidetica . Questo soggetto è infatti costituito come s’è visto da sequenze disparate di souvenu- perçu compattate da un collante mnesico dicendoci con questo almeno due cose: da un lato, che la sua compattezza non è essenziale ma è all’alea della tenuta della memoria e, dall’altro, che non si capisce bene quale delle sequenze che lo costituiscono sia titolare della sua identità, quale abbia la capacità e il diritto di esprimerla. E, infine,  se questa identità è espressa dall’insieme di codeste sequenze, come la si può cogliere percettivamente nella sua totalità? Possibile che io veda il mio amico qui accanto a me ma che io non veda quell’Ego che so essere la sua identità?
 Ad accentuare tale precarietà, concorre infine l’essere codesta soggettività fondata sulla base  che Lanteri ha chiamata soggettività impersonale;   la quale, a ben guardare, ricorda da vicino quelle che Husserl chiamava le “sintesi passive” o le “abitualità”, un’attività conoscitiva impersonale, senza soggetto e molto vicina a sua volta a quella dell’inconscio freudiano.
 Con tutte questa caratteristiche, si vede che l’unità identitaria del nostro soggetto diventa un problema serio che  indica però tale unità non come impossibile da esprimere ma come qualcosa di inedito, da cercare per vie diverse da quelle dell’egologia ontologica o da quelle dell’egologia empirico-psicologistica.   Facciamo allora una ricerca in proposito avendo come modello di riferimento l’oggetto eidetico della percezione di cui non a caso abbiamo a lungo parlato e che poneva anch’esso il problema della sua unità,  anche mostrandoci di tale problema la soluzione.
Abbiamo detto che codesto oggetto, pur essendo l’oggetto della percezione, nella percezione non poteva comparire; più esattamente, non comparirvi  nella sua totalità ma solo per scorci successivi che ne mostravano di volta in volta solo una faccia. E avevamo concluso che quella sua totalità di cui ci garantisce il termine del lessico che lo nomina (la poltrona, la casa per stare agli esempi che abbiamo citati) e che ci indica  anche  il senso comune seppure in termini di ovvietà “cosale”, appariva con  uno statuto immaginario. Termine che, come abbiamo a suo luogo spiegato e qui ripetiamo, non è affatto sinonimo di irrealtà fantastica, ma significa il peculiare apparire dell’oggetto come immediatezza monosemica globale e definitiva [27] quando lo vogliamo rendere percettibile e questo a differenza dell’oggetto della percezione che appare per scorci diversi diacronici, così  aprendo su di un sapere polisemico, mai definitivo, modificabile e per così dire “trattabile” nel senso della trattativa fra le parti che vedono il loro “oggetto”ciascuna da un punto di vista diverso.
D’altro canto, la globalità immaginaria dell’oggetto, pur non comparendo come tale nella percezione è però ben lontana dall’esserne avulsa, avendo  col campo percettivo un rapporto reale nei termini di figura e sfondo, da questo sfondo funzionando come riserva di quegli  scorci reali attraverso cui l’oggetto di volta in volta si mostra. Questa dunque la descrizione noematica dell’oggetto della percezione; vediamo ora cosa può dirci sulla descrizione del soggetto.
Il problema del soggetto si pone in termini analoghi, ben illustrati da quell’articolo di Sartre del 1936  [28], che rimane anche per Lanteri un classico e dove l’Ego è presentato come una funzione che si situata nella dimensione dell’immaginario e che si declina via via in un ruolo reale, dei vari ruoli funzionando come riserva unitaria vivente in un orizzonte che ha il mondo come sfondo. Ed essendo anche chiaro che come tale totalità di ruoli  non possa apparire nella percezione così come non vi poteva apparire l’oggetto della percezione nella sua totalità.
Ma si può dire che anche il soggetto lo possiamo far apparire nella percezione seppure solo attraverso il ritratto come la poltrona poteva apparire nel quadro; ma anche qui  si capisce subito la sua diversità dal correlato reale.  A differenza di questo, infatti,  il soggetto del ritratto appare secondo  il  solo e unico scorcio che gli da il pittore  e non possiamo raccogliere su di lui tutto il sapere che ci darebbe la possibilità di “farne il giro” cioè a dire di conoscerlo di persona.  Si potrebbe però dire che l’espressione che ha colta il pittore sul suo volto (protervo, sognante, sorridente,…), ci da il soggetto nella sua completezza, almeno di quella del carattere. Sarebbe però un abbaglio il pensarlo perché l’indicazione caratterologica della espressione del viso  rimane di una genericità astratta tipica dell’immaginario e per avere di essa un sapere autentico bisognerebbe conoscere episodi della vita del soggetto in cui essa si è declinata nella realtà come comportamento. 
Lo statuto immaginario del soggetto è dunque quella garanzia di unità identitaria di esso che stavamo cercando ed appare come unità trascendente di significato che si staglia sull’orizzonte del mondo e che garantisce la coerenza semantica e intenzionale dei vari atti in cui il soggetto di volta in volta si declina.  Da notare però che non siamo qui nell’ambito psicologico della caratterologia dove l’entità carattere è lo stampo che il soggetto imprime su i suoi atti o sulle sue relazioni in una ripetitività che i caratteropatici  portano all’esasperazione semplificata della caricatura. L’Ego trascendente immaginario non ha questa coerenza monosemica e a volte granitica ma si esprime piuttosto per i vari livelli prestazionali della coscienza intenzionate che vanno, anche in un senso bergsoniano[29], da un io pratico-empirico, lucido e finalizzato a ciò che intende operare in quel momento nel mondo (piantare un chiodo) ad un io semisognante vicino alla rêverie dell’artista; ed esprimendosi per sequenze di souvenu-perçu che ne fanno una funzione erratica come il soggetto dei grandi narratori del novecento, Proust e Joice in primis.
Quanto ai ruoli reali in cui esso si declina di volta in volta, torniamo a sottolineare quella loro caratteristica a cui si è accennato più volte: la successione nel tempo. E precisando che codesta successione è di tali ruoli non un’opzione ma una necessità strutturale.
In proposito, possiamo fare l’esempio un po’ umoristico del “rampante” che al ricevimento nella sua villa si ritrova la moglie e l’amante. E’ chiaro che questo signore non potendo esplicitarsi nel comportamento allo stesso tempo come marito e come amante, dovrà dare ai due ruoli un’alternanza acrobatica per evitare che una delle signore, o tutte e due, intuendo lo sgarbo personale dia il via alla scenata.
 Un esempio più tranquillo è il ruolo di scrivente in cui mi declino in questo momento. Ma il mio Ego ha nella sua riserva anche altri ruoli come  timoniere del mio 470 o  conduttore della mia automobile. Potrei provare per scommessa fenomenologica a renderli sincroni salvo ad accorgermi, e a mostrare, dopo poco o pochissimo tempo,  dell’impossibilità di farlo riuscendo solo a combinare una successione sgangherata di essi che mi additerebbe o come schizofrenico  manierato o come ipomaniacale. E l’ipomaniacale è forse l’esempio che più chiaramente conferma la successione diacronica dei ruoli egoici quando ci mostra il suo vano tentativo di appiattirla su di una sincronia attraverso il suo affaccendamento. Se siamo chiamati al domicilio di una malata ipomaniacale, la diagnosi ce la suggerisce l’ambiente di casa prima ancora di vedere la paziente: le pentole che bollono e traboccano sul fuoco della cucina, le pile di biancheria stirata sparse per la camera da letto, una tela sul cavalletto con quattro tratti di colore, una ridisposizione caotica di alcuni mobili del salotto ci dicono che la cuoca, la casalinga, la pittrice e la decoratrice d’interni hanno cercato di realizzarsi in un unico ruolo ma che son riuscite solo a lasciare i segni materiali della forzata successione diacronica di questi ruoli diversi. 
VI) Il soggetto come esistente storico.
Questa è la dimensione inedita che Lanteri-Laura ha introdotta nella struttura del soggetto fondandola addirittura su di una critica della fenomenologia seppure non nel senso di un ripudio ma nel senso di un arricchimento. La sua insegna potrebbe essere il “Che fare?” di memoria si direbbe  leninista.
Con l’analisi eidetica, dice in sostanza Lanteri, siamo arrivati ad individuare le strutture della soggettività mettendo in chiaro nel contempo la basi che la radicano nel mondo e come sullo sfondo del mondo essa prenda il suo significato e la sua consistenza reale. Ma a questo punto siamo stati indotti a chiederci se questa posizione non approdava ad una attività di semplice contemplazione che, pur non facendo scivolare il soggetto su quelle posizioni idealiste che fanno della conoscenza un rispecchiamento narcisistico del soggetto stesso, lasciava tuttavia il problema del “che fare” della conoscenza eidetica che il soggetto acquisiva su sé stesso e sul mondo.  E’ sullo slancio di questa domanda che Lanteri completa il profilo del soggetto con la dimensione di esistente storico la cui essenza è il fare nel senso di incidere sul senso del mondo appunto scrivendo la storia.
D’altra parte, esistente storico non significa che il soggetto si forma per una stratificazione diacronica di perçus et souvenus perché ciò ne farebbe un composito empirico che perderebbe la sua unità essenziale di intenzionalità finalizzata di senso  di cui i perçus-souvenus costitutivi non son parti bensì declinazioni, ma significa che prende senso e realtà sullo sfondo di un mondo umano che si è formato storicamente per opera del soggetto stesso il quale, col suo agire e come s’è detto, ne modifica il significato venendone a sua volta modificato.
Come si vede, qui riproponiamo in rapida rassegna tutta una serie di riferimenti a cui abbiamo via via accennato ma che visti nel loro insieme mostrano come Lanteri-Laura con l’idea del soggetto come esistente storico ponga il problema della soggettività, specie nella sua declinazione di intersoggettività, quale problema conoscitivo e operativo che travalica di gran lunga  l’ambito ristretto della dualità psicologistica di molte concezioni psicologiste e anche psicoterapiche.
D’altronde, la dimensione storica costitutiva di codesto soggetto non significa ovviamente che l’accesso legittimo ad una psicoterapia implichi, sia pel paziente che pel terapeuta, l’obbligo di conoscere la storia umana magari partendo dagli Assiro-Babilonesi; ma indica il modo di rapportarsi alla storia, da quella civica a quella biografica, tenendo conto della sua struttura che comporta anch’essa quell’incidenza dell’immaginario che abbiamo già ritrovata come dimensione sorprendente della percezione e del soggetto stesso.
 Anche a proposito della storia, Lanteri si spiega da buon fenomenologo con diversi esempi fra i quali possiamo citare quello della dichiarazione di guerra del 1939. Questa dichiarazione è certo prima di tutto un documento o una serie di documenti che si sono scambiati le cancellerie in causa, da quella inglese e francese a quella tedesca e via di seguito. Ma codesti documenti non è che ci mostrino la guerra reale; la quale, come evento, si specifica da un lato, in una serie di battaglie, di spostamenti di eserciti, di fuga delle popolazioni e così via e, dall’altro, richiede la comprensione storica, sulla base di documenti, degli avvenimenti che l’hanno preceduta e preparata: dal trattato di Versailles del 1918 alla crisi economica tedesca degli anni 20-30, al riarmo della Germania, all’ascesa al potere dei nazisti, al Patto di Monaco … tutti fatti che non si possono certo riunire in un insieme sincronico percettivo. Come dire che la dichiarazione di guerra del ’39, in quanto evento, assurge ad uno statuto immaginario e la si può conoscere realmente solo conoscendo i singoli fatti reali in cui si è declinata concretamente. Il suo referente immaginario di evento rimane all’orizzonte come garanzia di unità intenzionale di senso ed è a questa unità che si riportano notizie e documenti ivi compresi quelli ancora da scoprire e suscettibili di modificare il senso dell’evento stesso.
Con questi riferimenti strutturali del soggetto, col riferimento in particolare all’immaginario della sua identità, della sua biografia ma anche del periodo storico nel quale vive,  si possono intuire le vie euristiche che si possono aprire nell’ambito della psicoterapia; cosa che vedremo del resto di specificare a suo tempo.
VII) Una lettura di declinazioni patologiche della soggettività.
a) La soggettività  maniaco-depressiva.
Ricordiamo per cominciare il maniacale anche per avervi già accennato come esempio vivente, seppure in negativo,  della successione diacronica di quei ruoli reali che il soggetto immaginario contiene in sé nella loro totalità sincronica. Il maniacale codesta successione s’è visto che cerca di annullarla trasformandola in una sincronia che gli permetterebbe di diventare attualmente e realmente tutto quello che l’Ego racchiude invece come potenzialità immaginaria. Il per-sé dell’Ego, per dirla con Sartre, [30] che si realizza trascendendosi nel ruolo reale che di volta in volta incarna si trasformerebbe così nell’in-sé della totalità sincronica e reale di tali ruoli. Questo riviene a fare, dice Sartre,  di sé stesso Dio, solo Dio essendo titolare di codesta onnipotenza per esser situato nella sincronia infinita della eternità. L’uomo che deve fare invece i conti con la diacronia del tempo terreno, se  prende questa via riesce a fare di sé stesso sì un dio, ma un dio da manicomio, con la correlativa disumanizzazione del mondo come poi vedremo.
Ma il tratto interessante che il maniacale mette così in rilievo è il suo inseguire asintoticamente senza mai raggiungerla codesta trasformazione della sua soggettività attraverso il convulso, angosciato e inconcludente fare del suo affaccendamento; e che mai questa trasformazione raggiunga ma che sempre (almeno finché non crolla anche fisicamente) continui ad inseguirla ci dice che egli rimane più sul bordo della follia che non caderci  dentro. Questo lo distingue dal delirante autentico melanconico che della sua soggettività non ha più nulla da inseguire tutta essendo realizzata appunto nel ruolo delirante.
Come dire che mania e melanconia si prospettano, nell’ottica eidetica[31], in un rapporto ben diverso da quello di opposizione polare che ci ha prospettato in chiave di umore lo psicologismo della funzioni psichiche. Nella nostra prospettiva, la mania sembra piuttosto l’ultima linea di resistenza del soggetto  sul fronte di una realtà che ancora si oppone con la durezza del suo significato intersoggettivo e condiviso alla sua trasformazione delirante e alla correlativa trasformazione del soggetto; trasformazione che invece riesce al melanconico che nel suo delirio non lotta più il significato della realtà ma lo da come ovvio nei suoi attributi di  rovinoso e diffamante, nell’ evidenza della colpa totale degna del peggior castigo. E che si riduce così a mèro soggetto del delirio e all’immaginario (il Senatore, l’Erede della Ferrovie del Regno delle due Sicilie) che lo caratterizza e che gli agisce come reale.
Semmai, il pendant del maniacale è il Typus malacholicus la cui soggettività si situa anch’essa sull’orlo, e non all’interno, della follia perché l’includenza e la rimanenza che egli  asintoticamente insegue sono ancora un immaginario da raggiungere, da realizzare,  un immaginario all’orizzonte e non un immaginario concretizzato come reale. Tale includenza e rimanenza  diverranno solo dopo il crollo delirante come certezza tematicamente certificata di insufficienza e di inadeguatezza colpevoli, con il correlato sovvertimento del soggetto a soggetto del delirio: il quale, come tale, riduce ad un ruolo unico la sua normale pluralità dei ruoli disponibili, e dando a questo ruolo uno statuto immaginario nella sua struttura ma reale quando viene agito.
b) La soggettività nel delirio cronico.
La sua impostazione strutturale l’abbiamo appena illustrata parlando del delirio melanconico ché anche in questo caso il soggetto viene sovvertito col  ridurlo ad un ruolo unico, non reale ma immaginario, ruolo che viene però agito come reale. Questo discorso ha tuttavia una specie di limite psicologistico perché focalizza, correttamente sì, il soggetto ma non rapportandolo al mondo che gli fa da sfondo e che ne garantisce il senso e la appartenenza alla realtà. Codesto rapporto al modo è invece di importanza fondamentale per la comprensione del soggetto delirante nell’ottica eidetica   e, come vuole la regola fenomenologica, cerchiamo di illustrarlo con un esempio: quello inesauribile del Senatore[32] del Maggiano di Lucca.
Il Senatore ha collocato il senso della sua vita di adulto in un delirio che ha evoluto da un iniziale tema  passionale ad un tema finale paranoide fra grandioso e persecutorio, esprimendo non solo il soggetto che lo enuncia e vive ma anche il mondo in cui codesto soggetto si colloca.
Il Senatore (ma all’epoca non ancora senatore) esordisce come erotomane segnalandosi al vicinato di casa sua con la classica scenata all’Oggetto (Clérambault) del suo amore da cui esige la rottura degli indugi e la decisione a pubblicamente  dichiarare il sentimento che c’è fra loro. Tanto, tutti ne sono al corrente, ed è quindi inutile continuare a far la pantomima del segreto; anche se non vanno presi alla leggera i maldicenti negatori di codesto amore che però sono ormai ridotti ad un cauto silenzio. Il mondo di questa fase del delirio è la cassa di risonanza delle chiacchiere della città,  credibilmente interessata al pettegolezzo, un po’ meno credibilmente tutta schierata per l’uno o per l’altro dei due amanti. Anche se siamo nel delirio “en secteur”, l’immaginario delirante ha l’aria di diffondersi come un’essenza impregnando forse ben più di un secteur della realtà.
La violenza della scenata porta il futuro Senatore al Manicomio. Ma la sua condotta corretta e “ragionevole” lo fa presto beneficiare dei “permessi di prova” che prescriveva la tecnica di allora come preparazione alla dimissione. Solo che durante uno di questi permessi, egli si reca dal Prefetto al quale ha chiesto udienza e a cui si presenta in un inappuntabile giacca e cravatta.  E col quale viene rapido al sodo: Si vergogni di usurpare quella carica che riviene di diritto a lui e se ne vada al più presto. Carica che egli rivendica in nome del titolo di Senatore che ha appreso dai telegiornali (sul metro della percezione delirante).                       
 Questa scenata  non solo lo riporta al Manicomio ma anche gli chiude quella porta che pareva in procinto di aprirsi, inaugurando una reclusione che durerà 26 anni. Quanto al mondo che fa da sfondo alla scenata è un mondo  più ampio e anche più indeterminato del mondo della scenata erotomane. Lì era un vicinato di persone più o meno familiari, qui è invece una pubblica opinione in senso generico e che non annovera volti noti. Si precisa la trasformazione del delirio da passionale a paranoico col suo conseguente  incardinarsi classicamente sulle astrattezze di autorità, istituzioni, leggi e regolamenti.
Il delirio continua tuttavia nel suo stile rivendicativo prendendo ora come oggetto il Direttore del Manicomio che il Senatore considera l’usurpatore del posto che a lui,  in quanto  Senatore, è dovuto. Però c’è questa novità: che il Senatore non rivendica più in prima persona come  ha fatto fino a quel momento  perché la sua rivendicazione è diventata una questione in terza persona, gestita ad alto livello politico da non meglio precisati “Lorsignori”, forse da identificare almeno in parte con Deputati e Senatori della Repubblica. I quali par abbiano come compito se non esclusivo certo però principale il discutere ogni giorno la richiesta che il Senatore da sempre avanza di essere “sbiancato” -dalla reputazione di matto che gli  ha fatta il certificato di ricovero- e “risarcito” della ingiusta privazione di libertà che ne è seguita. E finché non otterrà soddisfazione su queste due punti, dice che non si allontanerà dal Manicomio: ché, facendolo, perderebbe i diritti che accampa. Al Senatore, quindi, per farsi  valere  non resta che attendere assistendo passivamente attraverso i telegiornali alle quotidiane dispute che han luogo al Parlamento della Repubblica fra i suoi sostenitori da un lato e i suoi detrattori dall’altro attendendo così da loro la soluzione tante volte promessa e mai mantenuta. Ché ogni giorno c’è un deputato o un ministro che assicura per l’indomani la defenestrazione del Direttore via la Digos, ma il Senatore passa invano la mattinata del giorno successivo  presso la Direzione ad attendere che questa defenestrazione avvenga. E del fatto che ogni volta non abbia luogo, rimane  meno deluso che frastornato non sapendo capacitarsi che al messaggio chiaro – e autorevole -  della vigilia non abbia fatto seguito la realtà operativa dell’indomani, data per certa[33]. Come si vede, il mondo di questo delirio si riduce sempre più alla fissità dell’immaginario e l’unica alternativa che lascia aperta –l’allontanamento del Direttore- pare funzionare secondo lo “off-on” di una macchina.
D’altro canto questo mondo procede verso una disumana meccanizzazione progressiva che si fa sempre più esplicita come appare attraverso i personaggi che la agiscono: il Direttore infatti, e i Capi infermieri che si recano ogni mattina da lui a officiare il rito della firma dei registri, appaiono al Senatore prima come comparse scritturate dai Lorsignori a inscenare quella quotidiana e (nei suoi confronti) irriverente sceneggiata, e appaiono poi come degli automi di perfetta imitazione umana ma, nella realtà (il Senatore dixit),[34] macchine robotiche che di umano non hanno più nulla. 
L’esempio del  Senatore ci mostra dunque l’effetto dell’idea di esistente storico con la quale Lanteri-Laura arricchisce in modo originale la nozione eidetica della soggettività.
Da un punto di vista eidetico, la soggettività del Senatore ci appare inquadrata dal ricordato stravolgimento del ruolo che da reale  diventa immaginario salvo però come  reale ad essere agito; e dal suo irrigidimento su questa posizione. Una soggettività  che, come s’è visto, è divenuta priva di ogni effetto sul mondo reale man mano che passava dalla posizione iniziale passionale-paranoica a quella successiva paranoide, da un Senatore che andava a rivendicare il suo ruolo dal Prefetto a un Senatore che, per le sue rivendicazioni,  poteva solo attendere passivamente le decisioni di Lorsignori. La dimensione di esistente storico caratterizzato dal suo agire sul mondo per modificarne il significato ed essendone a sua volta modificato, in questo soggetto se ne perdeva la traccia.  Ma se guardiamo al mondo delirante del Senatore nella sua interna evoluzione diacronica, ci rendiamo conto che codesta dimensione non scompare ma si presenta in termini diversi e precisamente nei termini di una disumanizzazione progressiva del mondo vissuto. Infatti, là dove agivano il Direttore reale e i reali infermieri, compaiono prima dei figuranti che son persone umane ma spersonalizzate nella stereotipia del ruolo e compaiono poi dei robot metallici che giocano il ruolo ma che di umano non hanno più nulla.
Questo riviene a dire che il soggetto del delirio conserva la dimensione di esistente storico tipica del soggetto reale seppure sussumendola nel suo ruolo immaginario  ed esercitandola non sul mondo reale ma sul mondo immaginario del delirio stesso. Il risultato che s’è visto è quello di trasformare codesto mondo in senso disumano ed esserne a sua volta in tal senso trasformato. In effetti, il mondo del Senatore cambia molto dall’ erotomania dell’inizio alla paranoia per cui transita  al paranoide cui approda alla fine; come cambiano i vissuti emotivi e valoriale del Senatore stesso dall’irosità sdegnata dell’inizio  all’indignazione adontata e dolente della transizione allo stupore speranzoso e sperabilmente vincitore[35] della fine. Malgrado queste connotazioni affettive, è questo un mondo disumanizzato perché, come spiega bene Tatossian[36], il soggetto del delirio fagocita via via ogni forma di alterità autentica presente nel suo modo col ridurla al ruolo di comparsa che il tema delirante le impone. E’ per questa via che il significato che nel suo insieme questo mondo realizza e sviluppa è quello di una progressiva disumanizzazione dove il mondo disumano appare però come a-priori trascendentale del delirio stesso, come matrice  del suo significato forse più profondo.
VIII) Prospettive terapeutiche
A prima vista, codesta ottica eidetica non pare aprire molte prospettive terapeutiche perché la fissità immaginaria del delirio che essa propone pare una riedizione con parole diverse del classico “errore morboso di giudizio che non correggono né la critica né l’esperienza contraria”[37] e come questo poco accessibile ad una trasformazione terapeutica della sua consistenza granitica.  Ma se ciò appare a prima vista, non appare però a guardare le cose più da vicino  e così vedere le possibilità che ci apre la prospettiva eidetica. La quale ci dice prima di tutto che il nostro incontro col delirante avviene su di un fronte molto diverso da quello dell’errore di giudizio con la relativa sottintesa gerarchia fra chi sbaglia e chi è nel giusto. Il fronte più significativo sul quale incontriamo il delirante è quello del tempo vissuto e sul quale siamo con lui in condizioni di parità. Su questo fronte, il delirante si situa dal lato del tempo bloccato, ripetitivo del delirio –o di una sua involuzione sempre più delirante e bloccata come ci ha insegnato il Senatore – che ha lo svantaggio di non avere al suo orizzonte la speranza che ha il nostro tempo ma anche il vantaggio di non averci la morte come il nostro tempo invece ha. Su questo fronte si sdipana il nostro fare terapeutico con l’intenzione di ricondurre il paziente dal temps figé del delirio al temps vivant della vita e questo fare non tardando a farci incontrare le sue resistenze; forzando le quali, come succede quando siamo giovani entusiasti ma inesperti, il paziente si chiude o addirittura ci abbandona. E questo si può capire perché tornando egli nel tempo della vita non solo tornerebbe  a doversi confrontare con l’angoscia della morte che tutti ci attende ma dovrebbe tornare all’alea degli investimenti affettivi col relativo rischio e dolore dell’incertezza, della delusione e del tradimento, tanto più cocenti quanto più codesti investimenti hanno il monolitismo di certezze  passionali. Nel delirio almeno si sa con certezza e una volta per tutte quello che si è, quello che ci attende e chi sono gli altri. Ebbene, è sul fronte di questo tempo vissuto che si imposta la partita della terapia attraverso un dialogo dal contenuto il più vario e per nulla intenzionale ma con il fondamentale sottinteso  dell’invito reciproco che attraverso di esso si fanno il paziente e il terapeuta. Perché se noi invitiamo il paziente a venire dalla nostra parte, egli ci invita dalla sua di parti; ed è anche più facile che sia lui a riuscire nel suo intento come si vede quando commettendo noi un errore anche impercettibile, veniamo iscritti d’ufficio nella lista dei persecutori.
Se invece l’esperienza  ci ha insegnato a condurre questo dialogo, il suo consolidarsi può aver luogo e offrirci le risorse terapeutiche aperte dalla prospettiva eidetica.
La prima di queste si richiama alle sequenze di souvenu-perçu che costituiscono come s’è visto la  soggettività individuale e che per  la loro possibilità di intrecci senza limite con le altre soggettività, offrono possibilità pure senza limite di incontro e di intesa, col vantaggio ulteriore di rimandare al mondo reale come loro a-priori trascendentale, ovvero come garanzia di senso e di realtà. Il problema è di trovarli, questi intrecci, e ciò rimanda alla premessa che imposta il nostro mestiere, il Dialogue avec l’insensé[38], un dialogo di poca intenzionalità finalizzata ma di molta curiosità aspettante e di molta appassionata pazienza. Quando questo dialogo si consolida, si può vedere l’ulteriore aspetto di questa prospettiva terapeutica, che Tatossian in particolare mette in evidenza: la cura intesa non come riparazione di un soggetto e di un mondo danneggiati dal loro irrigidimento monosemico all’assoluto dell’immaginario, ma l’apertura ad un mondo diverso e con riferimenti diversi , specie quelli relativi alla soggettività del paziente. La quale, intesa come esistente storico, pone il rapporto terapeutico ben oltre il piano psicologistico esteso eventualmente alla famiglia, ma lo  pone sullo sfondo del mondo umano, dei suoi valori e delle sue tecniche conquistate storicamente. Questo comporta, per il nostro saper fare[39] terapeutico da un lato una certa relativizzazione  (una tecnica fra tante) e, dall’altro, una dilatazione di senso fino a collocarlo nel flusso storico dell’agire umano.
IX) Un lascito e una prospettiva euristica.
Siamo lontani come si vede dall’idea psicologista del soggetto-ente di pensiero che ha portato alla lettura demenzialista della follia con tutto quello che ne è derivato in termini di terapie e di manicomi; ma siamo lontani anche dalle psichiatrie alla DSM  oggi in voga che a questo psicologismo continuano a riferirsi seppure in modo surrettizio. Dobbiamo tuttavia tener presente il problema storico-epistemico che ambedue continuano a porre, e cioè la distanza tecnologistica a cui abbiamo voluto porre da più di duecento anni la follia negando all’alienato quello statuto di interlocutore che gli conosce e riconosce la prospettiva fenomenologica-eidetica, una delle poche capace di riprendere l’antica tradizione della nostra cultura che ha considerato come costitutivo della nostra identità umana il Dialogo con l’insensato.
 

[1] D. Widlöcher, Traité de psychopathologie, Paris, PUF, 1994
[2] G. Swain, Le sujet de la folie, Tesi di medicina, 1977 , Calman-Lévy, 1997
[3] Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine (1857), Traité des maladies mentales (1860).
[4] Codesta concezione è del resto all’origine della psichiatria italiana e la segnerà definitivamente come hanno dimostrato Ferro e Riefolo commentando la loro benemerita riedizione del Della Pazzia di Chiarugi[4], Roma,Vecchiarelli Ed, 1991
 
[5] Si può vedere in proposito il capitolo del Tanzi & Lugaro, ediz. del 1923
[6] E’ una delle prime cose che mi disse Lanteri in uno dei nostri primi incontri quando arrivai a Strasburgo come suo ricercatore. Era il 1967.
[7] Nel nostro campo, è la diagnosi fatta per accumulo di segni distinti. Della quale c’è anche da dubitare che arrivi a individuare per via differenziale un’unità nosografica specifica visto che anche Kräpelin, il grande semeiologo, ne dubitava.
[8] Anche perché la noesi di percezione (come di qualunque altra noesi) si manifesta nella descrizione noematica del suo oggetto. La noesi è per lui in odore di idealismo o, peggio ancora, di intuizionismo estetizzante.
[9] Binswanger ce lo mostra in Wahn attraverso la rivisitazione del caso Ilse.
[10] Esempio, questo, che accenna, anticipandole, le sequenze mnesiche costitutive della soggettività nell’ottica di Lanteri-Laura.
 
[11] Come fa Foucault della “funzione autore”, un intreccio immaginario, egli dice,  fra l’opera e la lettura che dell’opera danno le diverse epoche della cultura. Un esempio tipico in materia può essere quello della Divina Commedia esaltata in epoca romantica, poco per contro apprezzata dagli illuministi. (Ne dicono meraviglie, diceva a un dipresso Voltaire, perché nessuno l’ha letta).
[12] L’esempio tipico in materia può essere il progetto della casa in costruzione. Il progetto è un insieme di tratti che mostrano una casa disegnata cioè una casa immaginaria; la quale si situa però all’orizzonte come guida della costruzione della casa reale.
[13] Per Lanteri, il soggetto come esistente storico è per sua essenza un fare teso a modificare il significato del mondo umano e da questo essere a sua volta modificato.
[14] Basta un minimo di esperienza di bricolage per capire come funziona l’oggetto percepito eideticamente. Nel bricolage si lavora sul supporto cosale ma per trascenderlo in una struttura di senso. Tavolette e pioli non sono solo dei pezzi di legno se io li foggio in funzione della sedia che sto costruendo.
[15] Moi ici maintenant è  per Minkowski l’eidos del vissuto spazio-temporale del demente.
[16] Il ricordo di un archeologo è di certo più preciso di quello del turista che ha visitato l’Acropoli di Atene perché l’archeologo sa quante colonne ci sono su ogni lato del Partenone; ma anche questa è una nozione astratta che si può semmai calare su di un immagine e anche per l’archeologo contare le colonne  del Partenone ricordato sarebbe difficile.
[17] Deriva a vela molto sportiva con due persone di equipaggio.
[18] Intendendo con questo termine il saper che di sé può darci la poltrona.
[19] E non costruita per assembramenti cosa che presupporrebbe la natura composita dell’ogggetto percepito. Al contrario esso scaturisce da un’intenzionalità di senso unica di cui le varie angolature sono, appunto, le declinazioni.
[20] Qui si può pensare al delirio, al modo di conoscenza che esso rappresenta.
[21] Gli accenni che abbiamo via via fatti all’immaginario son da ricordare quando parleremo del soggetto del delirio come soggetto appunto immaginario e che si declina però nel reale..
[22] Il gatto che vedo sul divano è gatto per me, per mia moglie e per i cugini che son venuti a farci visita, malgrado le angolature diverse da cui si presenta.
[23] L’Arnaldo Ballerini citò i neuroni a specchio a commento integrativo di questo storia comparsa in un articolo che scrissi all’epoca.
[24] Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Situations I, ed. italiana in Che cos’è la letteratura, Il saggiatore, 1960, pag 279-282.
[25] Dal titolo dell’opera del Petrarca con rinvii a Sant’Agostino.
[26] L’empatia, trad .ital. a cura di M. Nicoletti & A. Ardigò, Franco Angeli Ed. 2002.
[27] Quella della poltrona dipinta.
[28] La transcendance de l’Ego, in Recherches philosopuiques, ripubblicato da Vrin in volumetto nel 1965.
[29] G. Lantri-Laura, Le moi et ses origines dans la philosophie contemporaine, Psychologie médicale 1991, 234, 345-352.
[30] L’être et le néant, Gallimard 1943, trad ital Il Saggiatore, 1965.
[31] In proposito, rimanderei al capitolo dei miei Saggi fenomenologici, Fioriti, 2008
[32] Nei miei Saggi Fenomenologici.
[33] Bene illustrano questo frastornato sgomento dei deliranti i versi del Canto X dell’Inferno (89-104), la risposta di Farinata a Dante che ha chiesto perplesso come mai i dannati sembrino conoscere il futuro remoto ma non quello prossimo: “Noi vediam come quei ch’a mala luce/ le cose – disse- che ne son lontano/; cotanto ancor risplende il sommo duce./ Quando s’appressano o son, tutto è vano/ nostro intelletto e s’altri non ci apporta / nulla sapem di vostro stato umano.”
[34] Come si vede, questo delirio vira alla struttura paranoide con la sua trasformazione fantastica e immaginaria  dove il fantastico è più una questione di contenuti e personaggi della narrazione mentre l’immaginario è più una questione di struttura dei ruoli e della narrazione. Fantastici sono i robots che sono intercambiabili, nel loro ruolo potendo  apparire dei diavoli incarnati o gli adepti di una setta segreta senza che il senso della narrazione venga a cambiare; immaginario è invece il ruolo di codesti personaggi, fissato una volta per tutte  nella messinscena della pantomima dell’usurpatore e cambiando il quale vien fuori una storia del tutto diversa. 
 
[35] Quando nella bagarre al Senato prevale il partito dei suoi sostenitori.
[36] Ne La Phénoménologie des Psychoses, 1979, trad. ital. Di Dalle Luche e Di Piazza, Fioriti Ed. 2003.
[37] E’ la definizione del 1864 di Jean Pierre Falret (in Des maladies mentales et des asiles d’aliénés) che con poche varianti ha attraversato un secolo di psichiatria
[38] Dal titolo del libro del 1994 di Gladys Swain, Gallimard Ed.
[39] Dal titolo della raccolta di scritti di Lanteri-Laura: “Fare, sapere, saper fare in psichiatria” a cura di Del Pistoia e Di Piazza, Fioriti Ed. 2007.                                                                                                                                      
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