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II caso di Alfio e il tempo sospeso dell’SPDC

16 Apr 19

Di Dafne-Buttini
“Di massima eloquenza è la deformazione della spazializzazione dell'esistenza, quale si osserva nel melancolico: curvo e lento nell'incedere e nel muoversi, chiuso nel dolore della sua colpa e della sua rovina, aggrappato spasmodicamente all'ansia della sua ipocondria, legato nella pena del suo impoverimento, bloccato nella disperazione della sua condanna, fissato nell'atono sprofondarsi della sua fiacca vitale, immobilizzato nell’irrimediabile chiusura del suo spazio vissuto o, meglio, di uno spazio che non è più suo, che non è un suo progettarsi, fino all'arresto psicomotorio, all'impietrimento.
  La coartazione spazio-temporale emerge di volta in volta nel vuoto di certi momenti che traspare dal volto, nel letto come rifugio di innicchiamento immoto, come ripiegamento dal di fuori al di dentro, come cesura dalla spazio-temporalità impegnata del mondo esterno e altrui.
  Sono, questi, i malati che nell'ospedale sovente sono destinati a restare nell'ombra, ad auto-relegarsi nell'isola del loro posto, ad eludere meglio di ogni altro lo sguardo del medico” (B. Callieri)
 
In questo scritto è presentato il caso di Alfio, degente di SPDC che, proprio per il suo lungo e infruttuoso percorso di ricovero nel servizio, ritengo emblematico della condizione fallimentare in cui imperversa l’istituzione odierna, costretta da un mandato riabilitativo e sociale, in un tempo performativo che nulla ha che vedere con il tempo della relazione, massimante auspicabile quanto carente in questo contesto di cura.
Alfio ha 71 anni e, privo di storia sanitaria e psichiatrica pregressa, giunge nel periodo natalizio in PS in seguito alla chiamata da parte della madre (90enne) al 118, la psichiatra riporta che “era molto perplesso” (cit.) e, dopo il consueto colloquio iniziale nel quale intuisce una possibile ideazione suicidaria, predispone il ricovero.
Al paziente viene attribuita la diagnosi di episodio depressivo maggiore con sintomi psicotici in quanto da circa 6 mesi comincia a manifestare sintomi di tipo depressivo “mangia poco, non dorme, fatica a fare tutto” (cit.) in concomitanza con l’emergenza della malattia della moglie (che il paziente descrive come malata di un cancro inoperabile) e “una sensazione di blocco all’intestino” che, all’ingresso in SPDC, verbalizzerà come “autoindotto per autolesionismo”, conseguentemente al quale Alfio si alimenta scarsamente e sempre scegliendo esclusivamente cibi liquidi o molto morbidi, al momento del ricovero è gravemente debilitato e sottopeso (64 kg, h 1.83) e durante il ricovero riporterà un ulteriore decremento ponderale di 2 kg.
Il paziente è un ex comandante dei vigili del fuoco, negli anni (a causa della propria mansione lavorativa che gli ha imposto molteplici trasferimenti) ha vissuto in diverse regioni italiane assieme alla moglie e al figlio, dall’età di 60 in è andato in pensione e, da allora, si è occupato di un’azienda a conduzione familiare nella zona rurale dove risiede con la moglie.
Il figlio descrive suo padre (nel periodo precedente la crisi) come un uomo prestante, molto severo, rigido, massimamente attaccato al lavoro e amante della propria posizione lavorativa di prestigio.
Alfio accetta a malincuore e con rassegnazione il pensionamento (“in quel momento inizia a debilitarsi”), subito dopo decide di affittare un pezzo di terreno e creare la sua piccola azienda, che manda avanti con una certa soddisfazione ma sempre rimpiangendo gli anni in cui ricopriva la sua rilevante carica pubblica.
Dipinto come “il comandante al lavoro” (cit.), Alfio nel contesto domestico sembra mostrare un atteggiamento accomodante e ossequioso nei confronti della moglie ossia “il comandante a casa” (per citare un’espressione che usa il figlio che descrive la propria madre come dura e spronante, verso cui il paziente sembra essere totalmente dipendente “tutto quello che diceva mia mamma, mio padre lo faceva”); un altro perno imprescindibile nella vita di Alfio è rappresentato da sua madre che, nonostante l’età molto avanzata, è “perfettamente lucida, molto energica, presente e ha sempre retto lei la famiglia” (cit.).
Nella cartella clinica di Alfio le notazioni che ricorrono (derivate dalle osservazioni degli operatori e dai colloqui col proprio medico curante) sono prettamente di stampo comportamentale: “mantiene un livello formale ed è molto laconico, evasivo e rallentato; in reparto è di umore deflesso, astenico, apatico, con mancanza di volizione e interesse (non guarda la tv, non esce con gli operatori) rallentato dal punto di vista psico-motorio” all’interno di quadro sintomatologico depressivo che sembra mantenersi sostanzialmente stabile e invariato; la terapia farmacologica (alla quale Alfio sembra però rispondere con scarsi risultati) prevede di Trittico (per facilitare l’addormentamento), Efexor e Depakin (con funzione antidepressiva e stabilizzante) e Risperdal (per ridurre la sintomatologia di stampo delirante sulla sfera somatica).
 
Psicopatologicamente (una prospettiva fenomenologica)
Iniziando la mia analisi fenomenologica a partire dall’esame della struttura premorbosa del paziente (che la psichiatra definisce “ossessiva in virtù di una rigidità e scrupolosità che ha permesso ad Alfio di sopperire alle proprie difficoltà e gli ha consentito di focalizzarsi sul lavoro con un ottimo livello di adattamento e che, poi, si è aggravata e focalizzata sul cibo”), è possibile affermare che il paziente rientra pienamente nella “struttura antropologica del Typus Melancholicus” delineata da Tellenbach; l’autore descrive il percorso psicopatologico che conduce, a partire da un determinato assetto di personalità e attraverso una situazione patogena (“Situazione Pre-melancolica”), allo scompenso depressivo franco (la fase acuta denominata “Melancolia”).
Secondo Tellenbach la struttura personologica del Typus rappresenta la premessa ineludibile per il suo scompenso psicopatologico e, in essa, sono rintracciabili 4 caratteri invarianti fondamentali.
Il primo è, senz’altro, l’ordinatezza ossia la fissazione e l’appiattimento nell’ordine delle relazioni sociali, la disposizione di ciascuna persona nello scacchiere della vita collettiva sulla base di rigidi ruoli socialmente riconoscibili e utili; il comportamento del Typus è proteso a soddisfare le aspettative dell’altro ed è guidato da un elevato standard autoimposto e, nell’assetto cognitivo di questa matrice antropologica, ogni soggetto (incluso il Typus stesso) è iper-indentificato secondo ruoli sociali ben precisi e secondo una gerarchia che regola le relazioni interpersonali e previene l’emergenza di possibili conflitti.
L'ordinatezza del Typus deve, peraltro e fenomenologicamente, essere differenziata dal comportamento ossessivo, in quanto essa è primariamente orientata verso le relazioni interpersonali; nell'ossessivo, invece, è finalizzata all'organizzazione e all’ordine di tipo spaziale (laddove l’ossessivo non è interessato all'armonia sociale, tanto che la sacrifica e piega il suo contesto ai propri rituali), nel Typus, inoltre, manca l'esperienza soggettiva della compulsione egodistonica (propria dell'ossessivo).
La coscienziosità è il secondo cardine su cui si muove l’esistenza del melanconico, si configura come la fissazione nell’evitare attribuzioni di colpa, essa può essere definita come un complemento integrativo rispetto all’ordinatezza poiché, dato che è necessario l’ordine nelle relazioni sociali al fine dell’evitamento dei conflitti, il Typus si dispone secondo tale normatività e si focalizza interamente sull’espletamento del proprio dovere (cercando di conformarsi al proprio ruolo prestabilito e di essere in accordo con quelle che ritiene siano le aspettative altrui).
L'eteronomia, terza dimensione definente la struttura premelanconica, è la sua capacità di incamerare acriticamente norme di senso comune, proprio quelle che il Typus ritiene vigano nella propria cultura di appartenenza, egli continua a credere che in micro-ambienti sociali (come la famiglia e il luogo di lavoro) viga un certo tipo di organizzazione in base alla quale “si aspetta dall’altro che” e “si aspetta che l’altro si aspetti da lui che”.
Nella vita del Typus la complessità delle relazioni umane viene, così, ridotta a regole di comportamento concepite come impersonali, assolute, inossidabili, all’interno di una concezione unilaterale della realtà (iper-ridotta della propria complessità) in cui diventa chiaro il quarto carattere del Typus: l’intolleranza all’ambiguità ossia l’incapacità cognitiva ed emotiva nel cogliere, nel medesimo oggetto, aspetti contrastanti laddove l’ambivalenza è vista, nel Typus, come una possibile fonte di sconvolgimento dei propri rigidi modelli di riferimento.
Nel caso di Alfio (il cui atteggiamento normo-orientato e rigido struttura il suo comportamento, la sua percezione e la sua concettualizzazione della realtà iper-semplificata) i caratteri dell’ordinatezza e della coscienziosità sono evidenti proprio in virtù della sua iper-identificazione nei due ruoli cardine della propria esistenza (seguiti passivamente e acriticamente): l’integerrimo comandante al servizio della soccorso pubblico e il marito devoto e reverenzialmente sottomesso ai dettami della moglie, al fine dell’evitamento della colpa nella dimensione domestica (in assonanza con il paradigma del Typus del “dass man/si fa così!” forse inizialmente assunto attraverso l’habitus materno).
Fenomenologicamente, la struttura antropologia del Typus è incardinata attorno al verbo modale dell’“io devo!” (L’amore che cura, 2018) che si concretizza in un circoscritto di compiti (inerenti la sfera lavorativa e familiare) da conseguire in nome del valore assoluto dell'accordo con il prossimo e della conformità alle norme sociali.
Difatti, l’assiotipo (ossia la forma di esistenza soggetta a questo imperativo morale) melanconico ha come obiettivo il mantenimento e la conservazione dello status quo ed i valori (verso cui il egli è immancabilmente in scacco) sono imperniati sull'esistenza del Typus (ordinatezza e coscienziosità) in maniera iper-nomica (rigida e inflessibile).
II fallimento dell'“Io devo!” e l’impossibilità di adempiere a questo imperativo morale di “Debet autoimposto” conduce alla depressione i cui caratteri essenziali sono la colpa nei confronti dell'altro e l'incapacità di sentire laddove “ogni cosa perde il suo aroma e siamo di fronte all'evanescenza del sapore del mondo, all'inafferrabilità degli infiniti colori delle possibilità” (Stanghellini).
II Typus descritto da Tellenbach ha un temperamento ciclotimico ed è iperattivo, prontamente al servizio delle richieste e aspettative del contesto, dedito al senso del dovere (su cui costruisce il cardine della propria identità), si prodiga per attenuare il senso di colpa rispetto ad esso e per essere all’altezza della propria immagine sociale.
Alfio (proprio in virtù di questa complessa matrice antropologica) si configura come un individuo socialmente utile, iper-adattato che, coerentemente con il proprio temperamento ipertimico, se nella sfera lavorativa è sempre stato dinamicamente pronto per i molteplici spostamenti, non appena perde il ruolo di comandante iper-compensa e torna nel proprio “Gehäuse” (il guscio, il rifugio difensivo descritto da Jaspers, la propria inflessibile visione del mondo) assumendo subitaneamente il ruolo del gestore agricolo.
Nel Typus tellenbachiano si assiste a un irrigidimento della dialettica identitaria che si cristallizza nel solo polo della staticità e, allora, la crisi dell'equilibrata dialettica tra identità di ruolo e identità egoica conduce a una riduzione della propria identità al proprio ruolo che viene assunto adesivamente; la sua stabilità personale è regolata dalla conformità ad un’immagine costante, socialmente accettabile, che deve rimanere salda e persistente alla variabilità situazionale.
È allora comprensibile come in Alfio (già sopravvissuto malamente al pericolo di quella che Jaspers avrebbe chiamato “situazione limite”, data della perdita del prestigioso ruolo di comandante) l’evento traumatico di una nuova perdita di ruolo (il ruolo di “marito-pilastro”, a fronte dell’inesorabilità e incontrollabilità della malattia della moglie) gli impedisce concretamente il raggiungimento del proprio standard auto-imposto di condotta utile (rispondente al suo personale habitus di comportamento e al consueto paradigma, proprio del Typus, del “dover essere per l’altro”).
Ecco che, per Tellenbach, nella situazione limite o nel situativo patogeno del Typus lo scompenso (o la “Depressione Melanconica” sottesa da un arresto del divenire vitale) è scatenato proprio dall’esperienza della perdita che, emblematicamente nel caso di Alfio, esorbita dalla possibilità di essere assimilata e si radicalizza nel vissuto totalizzante della colpa (esperita come responsabilità diretta di errori irreparabili nei riguardi dell’altro, che è stato danneggiato dalle proprie azioni e negligenze).
Fenomenologicamente, la caratterizzazione clinica dello scompenso implica l’ideazione di colpa fino al delirio, un profondo “colpevole sentimento della mancanza di sentimento” (Tellenbach), una penosa incapacità a provare emozioni, l’inibizione psichica e motoria che, nel suo acne, diviene arresto psicomotorio (in quanto impossibilità di essere mossi dalle proprie emozioni e di smuoversi dal proprio passato di colpa).
Nella fase acuta dello scompenso di Alfio, il situativo patogeno della perdita dà luogo al sintomo cardinale della perdita dell'innocenza morale (che il paziente considera l'effetto del proprio comportamento scorretto), esplicito nel vissuto della colpa (una colpa morale appunto) che, come il paziente riporta, risulta essere quella di “avere sempre e solo fatto scelte sbagliate per tutta la sua famiglia, aver sempre condizionato i suoi figli e sua moglie fino a rovinare loro la vita con gli spostamenti lavorativi nelle diverse città forzandoli a cambiare continuamente contesto, a perdere legami” e di “essere stato sempre e solo un cattivo padre e marito”.
Se, come asserisce Di Petta, “la colpa costituisce il timbro inequivocabile del mondo melanconico, sia che si tratti di colpa verso se stessi, colpa verso gli altri, colpa verso i propri stessi desideri, colpa verso il proprio corpo, colpa di esistere” (Il mondo vissuto, 2003) allora, all’interno di questa tipica autoaccusa, l’attribuzione a se stessi di responsabilità abnormi occupa completamente il campo esperienziale del depresso: Alfio non “prova senso di colpa” ma arriva a riordinare tutto il suo mondo sulla certezza della colpa.
Essa (come ha asserito Tellenbach) è assolutamente pre-tematica e si dà autonomamente, all’interno di un “essere-nella-colpa” (Callieri) che non si conclude mai e che rappresenta l’esserci autentico del melanconico, continuamente teso alla ricerca di colpe, da un passato esso stesso esperito come colpevole.
Così, come il melanconico si identifica massivamente in un corpo pesante, rigido, incapace di progettarsi nel mondo, senza più alcuna intenzionalità su esso, Alfio (al centro di un vissuto di avvenuta trasformazione somatica dal carattere della certezza soggettiva) racconta di un intestino che è oramai irrimediabilmente “bloccato” e il cui blocco egli “si è procurato da solo, per autolesionismo”.
Diventa massimamente esplicativo, proprio grazie alle pregnanti parole del paziente, come l’organizzatore psicopatologico della colpa per la propria indegnità (dell’essere unicamente un “cattivo padre e marito”) si sia potentemente polarizzato sull’intestino, all’interno di un corpo-vissuto pesante, che trascina con sé il peso della propria colpa, all’interno di un corpo che coagula la fluidità del proprio esistere o in un organo esperito, pertanto, come greve.
Allora, l’arresto del divenire e del contatto vitale ha il suo perno proprio nel corpo esperito come un “Leib” (il corpo-soggetto, il corpo-che-sono) nel quale il melanconico si identifica in modo assoluto, a fronte di un Körper (il corpo-oggetto, il corpo-che-ho) completamente offuscato e reietto, laddove “il corpo vissuto come morto del depresso non è un corpo-oggetto separato da lui-soggetto ma il depresso è il suo corpo morto, non è nient'altro che questo corpo materializzato, reificato e pesante” (Stanghellini).
Proprio all’interno di questo peculiare modo di essere-nel-mondo del Typus, nel quale la colpa ontologica permea ogni espressione dell’esistenza del melanconico, il vissuto corporeo diviene paradigma incarnato dell’inibizione del divenire temporale: nel melanconico manca la verbalizzazione del vissuto ma è il corpo che potentemente parla della sua esperienza, è un corpo che si inibisce, che perde la propria trasparenza, un corpo bloccato.
All’interno della coartazione spaziale e temporale del proprio mondo vissuto, il melanconico ostende il suo corpo reificato, pesante ed impedente, da cui è espunta ogni possibilità di slancio, all’interno di un’identificazione totale con questo oggetto le cui funzioni sono bloccate; egli abita un corpo dalla natura inanimata che ha perso la sua mobilità, elasticità e flessibilità, che sprofonda in se stesso e che, incapace di raggiungerlo, perde la sua enclave nel mondo al centro di una penosa esperienza di distacco dalle cose mondane e dagli altri, che appaiono distanti tanto da risultare inattingibili.
La melancolia può essere compresa, allora, come una profonda forma di depersonalizzazione che, come ricorda Stanghellini, “non coinvolge il disturbo del Sé preriflessivo (come accade nel caso della schizofrenia) ma inerisce il Sé narrativo ossia la rappresentazione che una persona costruisce di se stessa” (Mondi psicopatologici, 2018): nel momento in cui Typus si iper-identifica con i propri caratteri invarianti all’interno di un’autorappresentazione statica e cosificata, i vissuti di colpa rappresentano uno sconvolgimento della propria immagine (che ha tentato di preservare) e l'esperienza di depersonalizzazione consiste proprio nel sentirsi sprofondare dentro se stesso, a tal punto di sentire gli oggetti del mondo come inaccessibili e irreali; il depresso non si limita a esperire un vissuto di estraneità, patisce dell’impossibilità di sentire.
Posto nel melanconico uno spazio-vissuto deformato che risulta disperatamente appiattito e collassa laddove “le cose del mondo” sono prive di senso e esperite come lontane in senso esistenziale, la fisionomia dello spazio si esplica in un vissuto di costrizione coerente con il vissuto corporeo e con un restringimento dell’orizzonte temporale in cui si assiste ad una patologica alterazione della temporalità: il tempo vissuto si “accartoccia” in un passato che non consente più al presente di accadere e al futuro di avvenire, rendendo impossibile qualsiasi rinnovamento temporale.
Se, husserlianamente, i momenti costitutivi di protentio, retentio e praesentatio- strutturano l’oggettività temporale, nella melanconia si perde proprio questa sintesi unitaria, questa trama sequenziale e, come precisa Binswanger, in questo turbamento della temporalità, il futuro in-fruibile e il continuo passato doloroso coinvolgono tutto l'essere del melanconico.
Egli esperisce “la tomba del tempo” (Di Petta) in cui precipita il tempo del “tutto già accaduto” (il post-festum descritto da Kimura Bin) e il suo è il delirio del tempo perduto, della protensione vuota, dell’avvenire che si chiude in un tempo congelato; all’interno di questa stagnazione temporale, l’angoscia della perdita si concretizza in un passato irrimediabile e che non può essere imputato che al proprio sé, il tempo è disarticolato e il presente oramai vuoto si tematizza nel passato.
Allora, il peso di “quello che è compiuto” interviene sotto forma di colpa ineludibile e quando lo sguardo del melanconico si volge in avanti è solo per decretare che tutto è già accaduto, con il sentire immancabilmente rivolto verso un passato che non è più in articolazione dinamica e prospettica poiché, come asserisce Del Pistoia, “la malinconia è essere in un passato assoluto”; così, l'esistenza melancolica precipita inesorabilmente nella palude dell'essere-lo-stesso, nella quale il presentarsi stereotipato di un evento pregresso perde la sua storicità per divenire l'ideologia del presente.
È evidente, allora, come la capacità di progettare se stesso, nel melanconico, si arresti all’interno di una temporalità figè priva di articolazione e possibilità di dinamismo, in cui il soggetto esperisce la discordanza del tempo soggettivo rispetto al tempo oggettivo del mondo, in un flusso temporale decelerato, in un momento presente che si dilata, che si trascina e che non consente più il divenire personale.
Come ricorda Stanghellini, il melanconico è al centro di un’alterazione della Befindlichkeit (Heidegger) ossia della situazione emotiva (il modo in cui il soggetto è situato nel mondo a partire dalla sua tonalità emotiva) e il suo umore non si configura essere la tristezza ma, piuttosto, una impossibilità di sintonizzazione emotiva con il mondo, esperito come privo di significato.
Così, per Alfio che vive all’interno di questa desincronizzazione “del rimanere indietro”, in questa dolorosa retrospezione di un presente siderato e all’interno del vissuto della perdita di ciò che egli stesso è stato, risulta emblematico il desiderio inappagabile di “essere la persona di prima” (cit.), così come il sogno notturno che riporta in cui “riveste un ruolo socialmente rilevante e di potere, appartenendo all’alta società e organizzando incontri per personalità di spicco” (cit.) per poi, al risveglio del mattino, scontrarsi penosamente con una possibilità passata, oramai inattingibile e con la colpa inemendabile di questo tempo oramai perduto.
 
SPDC e mondo della vita
Aprendo una parentesi sul tempo passato in SPDC, il briefing, le cartelle mediche ed infermieristiche non mi hanno consentito di rilevare note di specifica rilevanza psicopatologico-clinica, poiché ivi vengono riportate annotazioni puramente comportamentali (“paziente agitato, oppositivo o -al contrario- tranquillo, adeguato, collaborante”) o descrizioni iper-semplificate di sintomi positivi (“paziente psicotico, delirante, allucinato”) senza alcuna specificazione di contenuti e analisi inerente la caratura formale-strutturale di queste manifestazioni cliniche, unite a brevi note anamnestiche relative agli accadimenti che possano giustificare un ricovero.
Non viene colta la necessità impellente di una diagnosi basata sulle esperienze soggettive del paziente i cui criteri si esplicano in quello che, fenomenologicamente, viene chiamato -il mondo della vita- in cui abita il singolo paziente (esplicito nelle categorie esistenziali di tempo/spazio/corpo/sé/altro vissuto), piuttosto, la fenomenica sembra essere pressata forzatamente dentro le inflessibili e iper-ridotte categorie del DSM.
Così, utilizzando come emblema il caso di Alfio, è possibile rilevare che un’analisi del vissuto riportato dal paziente (il proprio “intestino bloccato per autolesionismo”) è mancante e questa esperienza trasformativa ricade nelle maglie assolutamente anonime della vasta sintomatologia psicotica, senza che gli venga attribuito alcuno spessore clinico e rimane in attesa di essere silenziata dall’azione del neurolettico.
In SPDC ci troviamo di fronte a un totalizzante e generalizzato andamento educativo-comportamentale del personale del reparto, incentrato sulla condotta comportamentale del degente, sulla cura organica del suo “Körper” a fronte del “Leib” non contemplato, all’interno un contesto che si esprime in una rigida fotografia comportamentale delle sue dinamiche, la quale prescinde (quasi totalmente) dai vissuti della persona ricoverata.
Questa tendenza è palpabile nelle riunioni d’equipe (durante le quali spesso lo psichiatra valuta il paziente attraverso la mediazione dell’infermiere e sembra non interrogarsi in merito all’appropriatezza della notazione infermieristica), nell’assoluta assenza di privatezza del discutibile giro visite direttamente sul letto del malato (attraverso una modalità comunicativa spersonalizzante e all’interno di un dialogo inquinato e alterato da un pubblico “intimidatorio”, troppo vasto ed esponente) in cui l’attenzione del medico è sempre e solo focalizzata sulla condotta del paziente, e all’interno della visita psichiatrica con il singolo paziente, che, come nel caso di Alfio, viene in-formato sulle caratteristiche sintomatologiche della propria patologia e formato sulle modalità migliori di condotta (comportamentale) per fronteggiarla.
Proprio in questa cornice risulta massimamente evidente una mancata indagine dell’inemendabile e radicato vissuto soggettivo di colpa (che struttura integralmente il mondo psicopatologico del paziente) ed un bisogno di saturare il suo “disagio” ricorrendo a rassicurazioni ottimistiche e, talvolta, a rimandi potenzialmente nocivi come, per esempio, l’espressione “bisogna che lei si impegni e abbia la voglia di guarire”, che pone (del tutto inconsapevolmente e con ogni migliore intenzione da parte del suo mandante) l’accento proprio sulla colpa: la colpa esistentiva della mancata agentività del paziente che gli viene restituita potentemente, come l’immagine riflessa di uno specchio nel quale il paziente abitualmente e dolorosamente si specchia.
Allora, bisogna domandarci se, in questa condizione di assenza di dinamismo del tutto involontaria che rappresenta la malattia, in questa stasi esistenziale subita dal paziente, ha un senso chiedergli un movimento (che non è assolutamente in grado di compiere) e sulla base della sua capacità di volizione, oppure se questa richiesta contribuisce solo accentuare il difetto di un uomo che vive aprioristicamente la sua intera vita all’interno del paradigma della colpa.
È palese che, se i fenomeni emotivi e soggettivi inerenti al paziente non vengono indagati, la ristrutturazione del comportamento incongruo e l’adesione (da parte del paziente) al comportamento corretto e salutare (che viene consigliato) sembrano essere le uniche informazioni e azioni rilevanti, da parte del suo curante.
Viene, pertanto, spontaneo chiedersi: una modalità educativa e direttiva è realmente utile per il soggetto (oppure rappresenta quanto vi è di più semplificante e velocizzante un intervento riabilitativo)? proprio in un quadro clinico che si mantiene del tutto invariato nonostante le prescrizioni, nonostante la consulenza neurologica che non evidenzia nessuna encefalopatia con ampliamento dei solchi, nonostante gli integratori alimentari aggiunti ai pasti con la consulenza nutrizionale e nonostante i molteplici tentativi di cambio e aggiustamento di terapia farmacologica antipsicotica e l’aumento esponenziale di quella antidepressiva.
Emerge una riflessione in tale senso; allora, cosa fare diversamente? ma, soprattutto, è possibile?  dal momento che il mandato sociale sembra essere l’unico di rilievo e dal momento che l’incresciosa quanto totale assenza in reparto della figura professionale dello psicologo clinico non viene neppure problematizzata.
Partendo dall’assunto che un SPDC che includa e istituzionalizzi la nostra categoria professionale sarebbe di livello qualitativamente più alto, è doveroso sottolineare che allo stato attuale la funzione riabilitativa, la risoluzione dell’urgenza nel modo più rapido e sedativo possibile, la necessità di nuovi posti letto (all’interno di un turnover continuo) annichiliscono completamente il bisogno di una continuità terapeutica.
Il tutto avviene attraverso un tempo dell’SPDC definibile come sospeso (chiarisce Stanghellini: “un time out che si frappone tra la temporalità vissuta psicopatologicamente della crisi e ciò che seguirà”) che, posta la totale mancanza di incontri terapeutici che lo rendano il tempo della relazione, non favorisce una dislocazione dal proprio habitus né una diversa presa di posizione, per il paziente.
La necessità di una clinica del patico e dell’esperienza vissuta (che non è, allo stato attuale, contemplata in reparto) rimane appannaggio di noi psicologi psicoterapeuti formati psicopatologicamente ed educati psicoterapeuticamente e non trova, ancora, nell’SPDC terreno di attuabilità, poiché il mandato rieducativo e la temporalità coartante del reparto vanificano l’imprescindibile movimento di esplorazione dell’esistenza del singolo paziente.
 
Psicoterapeuticamente (una terapia fenomenologica)
È certo che sarebbe stato necessario per Alfio un percorso terapeutico che accompagnasse il paziente continuativamente lungo tutto il suo percorso di degenza, proprio per dare voce ai vissuti soggettivi disconosciuti di un paziente che non si interfaccia con l’altro ma rimane rannicchiato silenziosamente nel proprio posto letto oppure passeggia, assente, per il corridoio del reparto e la cui comunicazione è verbalmente vuota ma, piuttosto, affidata potentemente al vissuto del corpo.
Presupponendo per Alfio un percorso cadenzato da incontri terapeutici che si declina nella prassi di cura fenomenologica del PHD (Noi siamo un dialogo, 2017), un primo e fondamentale momento sarebbe stato quello che, nella prassi di cura fenomenologica, è il primo atto terapeutico: il P (Phenomenologyical Unfonding) e rappresenta il dispiegamento della pagina della coscienza e del campo di esperienza del soggetto.
Questa dimensione di apertura aiuta il paziente a mettere in parola quello che sta esperendo ed esprimendo tramite il linguaggio del suo corpo-vissuto, all’interno di un contesto di ascolto e condivisione, nel quale poter dispiegare il vissuto che è condensato nella sua situazione melanconica.
In questo caso, è da tenere ben presente che ci troviamo di fronte a un mondo melanconico a rischio di vita, caratterizzato da una duplice urgenza: urgenza psicopatologica (alla quale rispondere creandogli lo spazio del “tra” della relazione terapeutica che descrive Kimura Bin) ma anche urgenza fisiologico-alimentare laddove, se si chiarisce lo stato d’animo che si cela dietro a questa mancata assunzione di cibo, forse diviene possibile trovare una strada percorribile (per esempio se il paziente temesse che il cibo provochi un intasamento potrebbe essere rassicurato e potrebbe essere cercato un compromesso con lui nel trovare cibi praticabili e accettabili) ma ciò potrebbe avvenire sempre e solo alla condizione imprescindibile che sia creata precedentemente una relazione che renda il clinico con lui disponibile, impegnato e nella quale il paziente si senta compreso e supportato.
È su questo terreno di possibilità, imprescindibile e fertile, della relazione che il dispositivo del P (esplicito nell’analisi delle categorie esistenziali di temporalità, spazialità, corporeità, ipseità, alterità) consisterà nel dispiegamento dei vissuti soggettivi del paziente che abita il mondo melanconico, incentrati su colpa e indegnità ed espliciti in un profondo disturbo della risonanza emotiva (caratterizzato dal sentimento della mancanza di sentimento ossia da una incapacità di muoversi e di essere mossi dalle proprie emozioni) e dall’impossibilità di smuoversi dal passato di colpa.
Partendo proprio dalla concettualizzazione della depressione come questo arrestarsi del divenire vitale e come il fallimento della possibilità di estinguere i propri debiti e mancanze (per perseguire innocenza e purezza morale), l’esplorazione fenomenologica del mondo della vita del paziente appare ben lontana dai rimandi ricevuti negli incontri psichiatrici che, seppur involontariamente, appesantiscono quel senso del dovere (già totalizzante nel paziente) e lo privano della dimensione di riconoscimento del proprio vissuto, il quale può avvenire unicamente nella relazione terapeutica.
Laddove il P mostra la struttura dell’esperienza del paziente, il secondo atto terapeutico è il momento H (Hermeneutics Analysis) che rappresenta l’invito che noi gli rivolgiamo a prendere posizione rispetto a ciò che accade nel suo campo di coscienza e ci rivela la sua visione del mondo (la sua filosofia dell’esistenza).
Questo dispositivo di cura domanda al paziente quale significato e interpretazione egli attribuisce alla propria esperienza soggettiva e stimola un’auto-riflessione sulla modalità con la quale egli esperisce; la domanda dell’H da parte del terapeuta (una volta che il soggetto ha svolto il suo P) è la presa di posizione del paziente nei confronti del proprio sintomo, la richiesta di recuperare una prospettiva in seconda persona rispetto a se stesso.
Attraverso H ci proponiamo di reintegrare il senso di responsabilità e agentività del paziente (che acquista una postura riflessiva di fronte al proprio vissuto) e poniamo in evidenza il guscio (la struttura dei valori) che lo caratterizza; questo atto terapeutico è fondamentale per il terzo e ultimo dispositivo di cura: il D (Dymanics Analysis) ossia la ricostruzione della storia all’interno del percorso di vita del paziente e la richiesta di esplicitare come P e H sono venute a strutturarsi.
Il momento D riguarda, infatti, la strutturazione del situativo patogeno ossia della situazione (definita come una tranche del rapporto-io mondo in reciproca risonanza) che precede immediatamente lo scompenso psicopatologico; questo atto terapeutico mette in luce la genesi delle esperienze abnormi e del modo in cui i pazienti prendono posizione di fronte ad esse.
Se attraverso l’H e il D ci proponiamo proprio l’obiettivo di mettere in dinamismo e smuovere la struttura apriorica del paziente al fine di evitare una nuova crisi psicopatologica, diventa evidente che il discorso sulla patogenesi dello scompenso depressivo rimanda necessariamente al sistema valoriale proprio del soggetto; allora, nel caso di Alfio, il momento H e il momento D sono strumentali a mettere in relazione il suo essere-nel-mondo melanconico e la sua struttura antropologica, per mostrare al paziente questa correlazione laddove, secondo Tellenbach, il modo di essere del Typus è la premessa ineludibile per lo scompenso.
Pertanto, la situazione patogena che l’assiotipo melanconico contribuisce a far accadere è chiamata da Tellenbach “costellazione di includenza-rimanenza”: il Typus, proprio per il suo obiettivo assoluto finalizzato a evitare la colpa e a mantenere l’ordine sociale, si iper-include all’interno di un progetto di mondo al punto tale da rimanere necessariamente indietro rispetto ad esso, troppo denso ed eccedente le proprie possibilità; ecco che il rimanere indietro rappresenta l’anticamera della colpa, poiché, nella situazione pre-melancolica, il Typus “si trova e si sente in debito e tale debito è già colpa” (Del Pistoia).
La sua è una struttura particolarmente stabile che tende a ricostruire egosintonicamente il proprio guscio; si assiste, in tale senso, a un irrigidimento identitario, la cui auto-rappresentazione appare limitata a confermare sé stesso come -lo stesso- (un’identità idem), come il protagonista previsto di una narrazione compiuta, come “un'identità cristallizzata refrattaria alla fisiologica metamorfosi dell'esistenza e all’interno di un arroccamento sulla medesimezza” (Stanghellini).
In questa cornice l'incontro con l’evento inaspettato risulta essere un corpo estraneo, un’alterità esterna non coerente e non integrabile nella propria storia di vita e preludio dello scompenso; allora, in un soggetto totalmente iper-adattato e iper-identificato nel duplice ruolo di persona socialmente utile, la perdita della pregevole posizione lavorativa e la malattia inoppugnabile della moglie costituiscono proprio quella situazione insostenibile che dischiude lo scompenso (malgrado il tentativo di ricostituzione del proprio guscio).
Così, come il Typus nella sua struttura, nel suo stile di vita, nella sua visione del mondo, non può fare a meno di determinare la propria situazione patogena (che lo condurrà inevitabilmente all’acuzie), anche Alfio va incontro al suo situativo tentando di includersi e rifugiarsi continuamente nel proprio status quo e, anche in lui, le radici del suo scompenso depressivo sono rintracciabili nel modo ipertimico che egli ha di sostenere i suoi valori e principi; questo messaggio da rimandare delicatamente e opportunamente al paziente, questa riflessione da sostenere insieme nella relazione sarebbe, dunque, il fulcro del lavoro terapeutico da attuare paziente.
 
Epilogo
Questo orizzonte di possibilità, una possibilità di ascolto e relazione è proprio ciò che è mancato e manca concretamente a livello istituzionale e, a fronte di un fallimento apparentemente inspiegabile e insondabile dove è stato dato fondo da parte del personale a tutte le risorse previste e pensabili, ecco che si staglia, una riflessione doverosa: Alfio avrebbe avuto bisogno di un percorso psicoterapeutico.
È evidente che non è emersa tale necessità e così, dopo continui tentativi operazionali frustrati su un corpo oggetto oramai totalmente iper-investito dal personale di reparto, diventa evidente l’impotenza dei curanti di Alfio in questo caso e il “che fare con questo poveruomo?” che si concretizza, dopo 79 giorni infruttuosi di ricovero, in una richiesta di trasferimento del paziente in una struttura per pazienti psichiatrici dove la psichiatra farà visita al paziente senza una cadenza fissa “quando e se potrà” (cit.).
Per Alfio si apre, così, uno scenario ancora più drammatico, che presumibilmente lo allontanerà maggiormente dalla possibilità della cura (in un non-luogo e in un non-tempo statico e iatrogeno) e che mi riporta alla mente una frase pregnante del mio stimato collega e amato amico Aldo “quando verrai a lavorare in reparto vedrai come di malattia mentale si muore”
E “ti lasciano morire” si potrebbe aggiungere, all’interno di un tempo istituzionale dove manca la parola e non si profonde ascolto, proprio nel contesto in cui se ne avrebbe maggiore necessità e dove, riprendendo Stanghellini, sarebbe auspicabile l’introduzione di una cartella fenomenologia dove gli operatori annotino ciò che osservano e soprattutto ascoltano dai racconti dei pazienti, al fine di mettere in primo piano non l’elemento sintomatologico (della cartella medica) né l’elemento comportamentale (della cartella infermieristica) ma, bensì, il mondo della vita del paziente (articolato attorno alle categorie specifiche di vissuto spaziale, temporale, corporeo e alteregoico) come esso si dà all’interno dell’SPDC.
Concludendo, la temporalità del ricovero dovrebbe essere strettamente in funzione della relazione, non il tempo di latenza dell’azione della terapia farmacologica (all’interno di un mandato sociale che necessita di un intervento rapido e produttivo) ma, all’opposto, il tempo dello sforzo della comprensione dell’esperienza vissuta del soggetto, il tempo (per il paziente adeguatamente supportato dalla continuità di una relazione terapeutica, oltreché, ovviamente, dalla presenza medica e infermieristica) di realizzazione di una postura riflessiva sul proprio sintomo e di istaurazione di un dialogo con se stesso.
 
Bibliografia
 
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