La vita alla fine è fatta di semplici storie personali, di famiglia, di cucine e di parrucchiere. Scegliere, come avrebbe fatto Altman, di raccontare una storia importante e quasi mitica narrando invece tante piccole biografie di gente comune ha funzionato. Il film corale di Emilio Estevez riesce a farci respirare le passioni, le ragioni e finanche le contraddizioni di un’epoca politica senza parlare di politica.
Le tensioni (ma anche le solidarietà) in una cucina d’albergo tra dipendenti latinoamericani e neri, così come una giovane donna che sta per sposare un suo compagno di scuola per evitargli il Viet Nam, ed ancora due giovanissimi supporter democratici che finiscono in braccio all’LSD (per poi pentirsi) invece che a cercar voti per "Bobby" sono sofferenza, sono vita, ma sono anche un discorso politico. Discorso nella forma più alta e nobile perché, almeno così ce li rende il regista, sembrano tentativi autentici di provare a risolvere questioni sociali.
Credo che sia stata proprio questa la sua forza, la forza del senatore Robert Francis Kennedy, quella di rendere autentico lo sforzo per la politica. Il tentativo di provare a governare le contraddizioni di un paese e forse anche di un pezzo di mondo. Tuttavia, come nel film, prendendo parte, scegliendo di sostenere le fatiche di vivere della gente comune. Il film ci ripresenta i colori di quel democratico "I Care" (mi riguarda, mi importa), così lontano da certi modelli impolitici attuali, che fece sperare un lato d’America ma anche un pezzo d’Europa.
Ma come si fa a fare un lungometraggio senza mai mostrare quell’icona, quel viso, quel sorriso? Quella bocca che Pier Paolo Pasolini celebra in una lunga poesia di compianto proprio per la morte di RFK dove si può leggere (…) "Ci sono certe bocche, con un sorridere di adolescente che dimostrano come nessuna società contenga il mondo. Dalla tomba dove dunque non sei, ma nei sensi altrui, vivo, di quella vita che supera di tanto lo stesso sconfinato contenere degli Stati Uniti" (…)
Del resto il cinema è soprattutto immagine. Eppure è proprio con le immagini, di gente semplice e qualunque e non del leader, che il regista riesce nel suo intento. Che riesce a rappresentarci le istanze di un popolo che non crede all’ossessione del "nemico" (interno o esterno). Di un parte d’America che pensa di essere "un grande paese, un paese altruista e compassionevole" . Un paese che di li a poco avrebbe deciso, con ogni probabilità, di farsi rappresentare da un uomo giovane e convincente.
Ma forse il punto più alto, Estevez, lo raggiunge con l’interpretazione di una sempre più brava e matura Sharon Stone. La parrucchieracompassionevole che sintetizza, nel suo volto segnato, insieme il bisogno di giustizia e di cambiamenti.
La sinistra democratica, quella che non sfugge alle sfide della vita, ma nemmeno del governo, come ci ricorda in un saggio dedicato proprio a RFK Walter Veltroni, ha sempre avuto l’obbligo di tendere all’armonia tra la radicalità dei valori ed il realismo delle soluzioni.
Quel sogno negli Stati Uniti sembra essersi spezzato. Quel mondo di diritti e di speranze umane si raccoglie — morente – tra le braccia di un giovane cameriere latinoamericano. Il 6 giugno del 1968 facevo ancora le elementari ed i miei genitori avevano un televisore in bianco e nero. Quella scena, con il dipendente dell’Hotel Ambassator che sostiene la testa del Senatore, è tratta dal vero ed ha fatto il giro del mondo. Adesso farà il giro delle sale e reincontrerà quelli che allora erano bambini o non erano ancora nati. Il regista nordamericano ha preso parte in un momento difficile per i suoi States. C’è l’omaggio ma forse anche la speranza.
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