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INDIFESO È IL MARE

30 Apr 19

A cura di La Primula Rossa

Vivo coperto da una pelle di pecora, in un mondo che gli uomini non possono vedere. Mi inseguivano, e mi rifugiai nella foresta. Fu tanto tempo fa. Un tempo tanto remoto che non me ne ricordo più. Non mi ricordo nemmeno com’ero prima. In ogni caso, da allora nessuno mi ha mai più visto.
Haruki Murakami (Dance Dance Dance)

 
 
– Ciao P., sono il dott. B.
– E a me che cazzo me ne frega.

Questo il mio primo incontro con P.: antisociale, con temperamento irritabile, con una buona dose di emotional dysregulation, e se Borderline fosse andato di moda da queste parti si sarebbe chiamato anche così. Inoltre, di tanto in tanto, sembra delirare. Il tipico antisociale che delira per stare al centro dell’attenzione o per farsi ricoverare 8 volte.
Ma non è così semplice, i suoi deliri sono plastici, inafferrabili, colmi di incertezze; viaggiano alla velocità della luce e, come la luce che attraversa la materia che incontra, cambiano direzione e si propagano in modo da stupire ogni volta. Sono forme non così facilmente descrivibili, tanto da sembrare inganni. Il “vantaggio secondario” infine è stato guadagnarsi incomprensione. P. avrebbe un disturbo del comportamento con un’eccessiva reattività emozionale perché non riesce a contenere la sua rabbia; sarebbe un antisociale perché non riesce ad accettare le regole, perché non ha rimorsi, e perché il controtransfert (di chi non ha mai lavorato sul suo controtransfert) dice questo. La sua aggressività si impone come il sussulto di un’esistenza distrutta e ricostruita e nuovamente distrutta nello spazio di un corridoio, nell’attimo di una sigaretta che ferma il tempo e dà una misura al pensiero. Un pensiero che non si può ridurre al significante di “un agito”, tralasciando il significato, il contenuto, il senso o la perdita del senso. E il mondo universitario, detentore del sapere più aggiornato, perlopiù tace.
Ma il momento più entusiasmante è quello della dimissione, in cui tutti i nodi vengono al pettine: un coacervo di parole che esprimono tutti i dubbi dell’essere umano: essere o apparire, capire o intuire, conoscere o sentire. Quando è difficile fare diagnosi la colpa è della complessità. Si sfoglia affannosamente il DSM cercando una risposta che sostenga l’inconsistenza delle parole scritte in cartella. Se penso che sulle diagnosi basiamo i nostri studi (che portiamo avanti noi specializzandi), le cose si complicano non poco. Noi specializzandi siamo entusiasti, appassionati, affamati di cultura più di quanto vogliono farci credere, come sottolinea Michela Gecele in Continuando la lettera di Gilberto Di Petta a un/a giovane specializzando/a in psichiatria, ma possiamo nutrire queste risorse perlopiù fuori dall’Università, perché dentro è utile solo il DSM e “la psicoterapia è roba da chiromanti”.

Quando ho conosciuto P. l’unico modo per contattarlo era parlare con lui in infermeria. Gli infermieri sono capaci di intercettare un’umanità che talvolta a noi medici sfugge, perché troppo presi dal setting e dal ruolo. Parlavo con lui passeggiando lungo il corridoio e lungo il corridoio mi diceva che sarebbe stato bello farci una canna. Subito dopo scoppiava a ridere, mostrando un divertimento che faceva parte della realtà. Al sesto ricovero era sempre più lontano dal senso comune, la sproporzione tra i suoi desideri e la realtà non consentiva di contattarlo su un piano umano, e questo lo rendeva sempre più arrabbiato, sempre più lontano da me, da quella canna immaginaria che avrebbe voluto fumare. Al settimo ricovero credeva di essere Nefertiti, costantemente in contatto con la NASA per far venire sulla terra gli alieni più rari, eppure non convinceva. Tre infortuni a forza di pugni per protestare contro la sua inconsistenza, contro la sua “antisocialità”, contro la sua emotional dysregulation, contro il suo non essere convincente. Mi ricordava una profezia Hopi cantata nel film Koyaanisqatsi: "È possibile che un giorno un recipiente di cenere sia scagliato dal cielo, che arda la terra e faccia ribollire gli oceani.”

In cartella il termine manipolativo era all’ordine del giorno. Mi sono sempre interrogato sul significato di questo termine, e al riguardo gli Psicopatologi mi hanno illuminato. Un termine che allude al tocco, al bisogno di sentirsi in contatto, al mettere alla prova la capacità di sentire l’altro con tutti i sensi, che fa parte dell’intersoggettività, prima che dell’antisocialità.

Manipolativo è un mare indifeso. Questo non c’è scritto nel DSM.

Il dolore di P. è un dolore sconosciuto all’umanità, è un seno deserto o un fiume calmo che insinua il pericolo dell’impatto di una cascata. La distanza da quel dolore spaventa perché è ciò che dirotta imprevedibilmente l’onda.
Le sue parole sembrano cercare ordinatori di senso che con la sola logica non è possibile cogliere. I suoi sono racconti della trasformazione, un tentativo di cercare un contenitore differente alle cose, a ciò che è stato e che sarà. Cerca un’entità superiore che possa intercettarlo e venirgli incontro, un’entità che non trova nella vita reale. Questo parla tanto di solitudine, che tuttavia viene accolta come la manipolazione di un antisociale disregolato che ogni tanto ha delle bizzarre fantasie non convincenti; solo segni contingenti.
All’Università la diagnosi, con rispettivo reclutamento nell’apposito studio, a me una profonda confusione.

Potete pubblicare i vostri interventi, come utenti registrati della rivista, rispondendo in calce oppure potete inviare contributi da pubblicare, spedendoli in formato WORD a questo indirizzo: laprimula2.0@gmail.com.

In questo modo potrò pubblicare le vostre parole per voi, rispettando rigorosamente l'anonimato se richiesto.

 

 
 
 
 

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