L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1945
In psicanalisi si dà una sola regola fondamentale. Tuttavia si può formularla in due versioni logiche diverse, corrispondenti a due pratiche psicanalitiche differenti, non facilmente integrabili. La versione freudiana usa il quantificatore universale, in tedesco: alles mitzuteilen, “comunicare tutto”; la versione lacaniana adotta il quantificatore esistenziale, in francese: dire n’importe quoi, “dire una cosa qualunque”.
Da dove viene la discrepanza? Dal maestro, che stabilisce l’universale, e dall’allievo, che opta per l’esistenziale? In realtà la storia è più complessa.
Freud presuppone conflitti tra conscio e inconscio; con la sua regola mira ad aggirare la censura esercitata dal conscio sulle rappresentazioni inconsce, sfruttando qualunque opportunità, che per errore le sfugga, per penetrare nell’enigma del desiderio inconscio. Trasgredendo alla regola, l’odio-amore di transfert segnala allora la resistenza a tale penetrazione – la volontà di ignoranza – e si può analizzare. Lacan, invece, non presuppone conflitti, perché comunque l’inconscio dice sempre la stessa incensurabile cosa, in qualunque modo parli. Conflitti, censure e resistenze, non sono per lui concetti fondamentali della psicanalisi come inconscio, ripetizione, pulsione e transfert.[1] Basta che il soggetto parli, perché la sua verità non cessi di dirsi, cominciando necessariamente da subito. Le sedute brevi poggiano su questo assunto, che consente al contingente di diventare necessario.
Il filosofo si interroga allora su cosa vuol dire seguire una regola, ammesso che serva a qualcosa. Lo psicanalista freudiano gli può segnalare quando il soggetto cessa di seguire la regola: è quando emerge il transfert che trasgredisce le regole. Lo psicanalista lacaniano, invece, gli dice che non c’è problema: il soggetto segue sempre una suaregola, cioè la regola del transfert, che sposta e condensa le rappresentazioni inconsce. Le due risposte, una negativa, l’altra positiva, non possono ovviamente soddisfare il filosofo, che perciò pone mano alle Ricerche filosofiche, dopo aver sentenziato sulle verità tautologiche della logica nel Tractatus logico-philosophicus (1922). C’è dell’altro oltre la logica astratta, sembra dire. Vediamo in concreto di cosa si tratta.
In concreto siamo difronte a un paradosso, a mia conoscenza formulato per la prima volta solo da Wittgenstein nel § 201 delle Ricerche: “Una regola (Regel) non può determinare (bestimmen) alcuna modalità d’azione (Handlungsweise), poiché qualsiasi modalità d’azione si può mettere d’accordo (Übereinstimmung) con la regola. […] Se si può mettere d’accordo con la regola si potrà mettere in contraddizione (Widerspruch) con essa. Qui non esistono pertanto né concordanza né contraddizione”.
In questo vuoto epistemico trova spazio per espandersi il pregiudizio della conferma, secondo cui tutto conferma tutto il sapere acquisito e nulla lo mette in questione. Stranamente a riconoscere tale pregiudizio, pur molto diffuso e alla base del senso comune,[2]lo psichiatra pare poco interessato, forse perché, una volta confermata la paranoia, più facile da diagnosticare, non gli interessa confutare l’isteria, più difficile da riconoscere. Ma il paradosso presenta un problema, non fosse altro perché inaugura uno scetticismo che Cartesio disapproverebbe.
A Wittgenstein non sfugge la forma linguistica che il pregiudizio della conferma assume e attraverso cui si trasmette da un individuo all’altro. Si tratta di pigrizia intellettuale, che blinda il conservatorismo. Le cose vanno per lo più così. Di fronte a un enunciato inusitato non ci soffermiamo a ponderarlo per sé stesso, ma ci precipitiamo a confrontarne la conformità con il sapere ricevuto dalla tradizione. Anche questo lo si fa non per valutare la novità ma per difendere la certezza acquisita, nel caso sia compromessa dalla novità. Risultato: non si pensa il nuovo e il nuovo è impensabile. Così le scuole tramandano e conservano il vecchio. Il paragrafo 201 delle Ricercheindividua l’agente morboso del pregiudizio: l’ermeneutica, e conclude prendendo una posizione netta, non contro ma equilibrata: “Esiste una tendenza (Neigung) a dire che ogni agire secondo una regola sia un interpretare (Deuten). Invece si dovrebbe chiamare ‘interpretazione’ soltanto il sostituire (ersetzen) un’espressione della regola a un’altra”.
Nel paragrafo immediatamente successivo, il 202, Wittgenstein scioglie di colpo il paradosso, con una tesi strabiliante che lo impegnerà per i successivi 135 paragrafi. Eccolo: “Pertanto ‘seguire la regola’ è una prassi (Praxis). E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E pertanto non si può seguire la regola privatim, perché altrimenti credere di seguire la regola sarebbe lo stesso che seguire la regola”.
Il colpo di mano filosofico è la sostituzione repentina del soggetto individuale con il soggetto collettivo all’interno del gioco linguistico tra i due. Quasi da freudiano Wittgenstein riconosce la dimensione pubblica del Super-Io che impone all’Io di seguire la regola comune della civilizzazione: Come il padre devi essere; come il padre non puoi essere, direbbe Freud. Certo, nel § 147, Wittgenstein dimostra di sapere bene che una successione finita di risultati dell’applicazione della regola non conferma la regola che genera la successione infinita di termini. In verità lo si sa dal 1814 per il teorema di Bayes-Laplace. Un aereo che segue la regola di non cadere, e dopo cento voli non cade, ha “solo” la probabilità di 101 su 102 di non cadere al centounesimo volo. 101 su 102 non è la certezza, perché non è pari a uno.
No, qui si tratta d’altro. Il soggetto individuale segue “veramente” una regola, perché segue una regola collettiva, formulata in un linguaggio collettivo e giocata in un gioco di una famiglia di giochi linguistici tra loro simili.[3] L’analisi delle prestazioni individuali non può, quindi, prescindere dalla pratica del collettivo, perché è il collettivo che determina, magari solo in parte, la pratica individuale. L’analisi del filosofo dà spazio anche all’indeterminismo. Determinato è solo il gioco linguistico dove il linguaggio si dà, nel senso che si offre ai parlanti (ai parlesseri, secondo Lacan, che tenta di prendere le distanze dall’ontologia).
Per l’approfondimento filosofico della questione dei giochi linguistici rimando al saggio di Saul Kripke, Wittgenstein su regole e linguaggio privato (1982).[4] Qui mi limito a una considerazione sul linguaggio del filosofo.
Si usa parlare di rottura concettuale tra il Tractatus logico-philosophicus e le Ricerche filosofiche o di “seconda fase” del pensiero di Wittgenstein. È un artefatto dell’impostazione storicistica, che vuole a ogni costo vedere in ogni sviluppo sequenze prestabilite. Nella prima fase il filosofo tratterebbe del significato degli enunciati come corrispondenza con i fatti (Tatsache) del mondo (Sachverhalt), o stati di fatto; nella seconda, invece, il significato sarebbe concepito come l’uso praticodelle parole (Gebrauch von Worten, § 90.II), che varia da contesto a contesto. Questa pretesa frattura non esiste. Esiste – lo affermo con convinzione – la continuità linguistica.
Wittgenstein pensa e scrive nel tedesco di Vienna come Freud. In tedesco Bedeutungha due significati: significa sia “significato” sia “importanza” (“rilevanza”, “valore”). Quando Frege scrive Sinn und Bedeutung (1892), intende contrapporre “senso” (a livello epistemico del pensiero soggettivo o connotativo) a “significato” (a livello ontico, oggettivo o denotativo). Nella proposizione 3.203 del Tractatus anche il "primo" Wittgenstein adotta il significato oggettivo: “Il nome significa (bedeutet) l’oggetto” (Gegenstand). Nel “secondo” Wittgenstein Bedeutung, data la sua polisemia, si situa all’intersezione delle (uniche?) due filosofie costantemente indagate dal filosofo viennese: la filosofia della matematica e la filosofia della psicologia, pensate in un’ottica di unificazione. D’ora in poi Bedeutung indica una nozione complessa, coordinata al comprendere, al pensare, all’essere coscienti, anche al voler fare, nel senso di mettere in pratica. E non si fa da soli la Bedeutung; il fare avviene sempre in un contesto collettivo. Allora il valore linguistico di un enunciato (Satz) è una modalità d’uso comunitario. Certo, la psicologia individualistica non esiste (da ricordare a Freud) come non esiste la matematica individuale: un desiderio come un teorema riguarda sempre l’altro; desiderare e matematizzare esistono solo nella pratica collettiva, che sfrutta un patrimonio epistemico ereditato da tempi remoti.
Con qualche impertinenza da parte di Wittgenstein. “Qual è la Bedeutung della parola ‘cinque’? si chiede l’autore alla fine del § 1. E taglia corto: “Di tale Bedeutung non si parla qui, ma solo di come la parola ‘cinque’ viene usata (gebraucht)”. Eppure Wittgenstein conosceva il “significato” oggettivo che Russell attribuiva a “cinque” come la classe di tutte le cinquine, ma non lo usa!
Queste considerazioni sono pertinenti (bedeutend) rispetto alla teoria psicanalitica.
Freud scrisse il proprio capolavoro, intitolandolo Die Traumdeutung. È invalso l’uso di tradurre Interpretazione dei sogni. È sostanzialmente sbagliato e porta alla falsa concezione che interpretare il sogno significhi “sostituire” (vedi sopra) il contenuto ideativo latente a quello manifesto. Deuten non significa “interpretare”, ma “chiarire”, “spiegare” nel senso fisico dell’indicare con il dito, cioè “ostentare” nel senso latino di ostendere o nel senso tedesco di Zeigehandlung. Interpretare un sogno significa mostrare al soggetto individuale cosa ha sognato nel contesto collettivo.
Wittgenstein non si scaldava per il gioco linguistico inventato da Freud. Aveva le sue buone ragioni, anche personali. La principale era la debolezza del riferimento sovra-individuale nella versione freudiana della psicanalisi, praticamente limitato al Super-Io. Seppure l’inconscio è strutturato come un linguaggio – Wittgenstein non farebbe fatica ad accettare l’ipotesi lacaniana – non è un linguaggio privato. Lo ribadisco a chi si incaponisce a scovare la singolarità del soggetto individuale, unica e irrepetibile, nei propri pazienti. Al seguito di Wittgenstein si può affermare senza contraddire Freud che il sistematico fenomeno del transfert è l’irrompere del collettivo nell’individuale. In fondo, Wittgenstein corregge la posizione scientifica di Freud: non più lo scire per causas sul singolo soggetto,[5] ma inserire il soggetto nel proprio contesto intersoggettivo. Così il “secondo” Wittgenstein completa il “primo” mentre Freud sta a guardare.
0 commenti