Il rezzaglio. Una metafora per chi voglia catturare pensieri nel mare della mente.

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6 giugno, 2019 - 08:13
«... Scuoto la mia memoria -
Forse tra i suoi rami qualcosa
Addormentato da anni
Si leverà con un frullo
».
Wislawa Szymborska
"La fine e l'inizio" Il 16 maggio 1973
 
E questo dove lo metto?” Mi disse con aria di sfida la badante Olga.
Sollevata di là dalla scrivania, mi tendeva il braccio impugnando con forza una rete piombata, raccolta in 3-4 giri, attorno alla mano, tenendola ben stretta perchè non le sfuggisse. Alzai gli occhi dal tavolo per orientarmi un po’. Affioravo da una lontanissima biografia di Arnaldo Ballerini (1928-2015), quando faceva la specializzazione a Bologna. Cercavo di capire come mai si fosse convertito alla fenomenologia, leggendo non so più quale autore, nella biblioteca dell’Istituto felsineo di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, in via Foscolo 7, a Porta Saragozza. Mi domandavo perchè avesse poi rinunciato (primi anni Cinquanta) a continuare la carriera universitaria con Paolo Ottonello (1898-1959), di cui fu assistente all’Alma Mater Studiorum.
Lasciai perdere Ballerini e, con un po’ di fatica, stentati a riconoscere, dalle fattezze, uno dei miei attrezzi da pesca preferiti. Il rezzaglio o acchio, giacco, jacco, cast-net detto anche sparviero. Quello piccolo, da 12 metri. Liquidai la badante Olga, facendomelo passare sopra il tavolo per appoggiarlo sotto, vicino alle gambe, dicendole “Andate, poi ci penserò io!” Una delle sue particolarità era quella di assaltare le mie letture o le mie tranquille riflessioni per intromettersi con richieste urgenti, improcrastinabili e pressanti di fare ordine. Ordine, nel senso di questo dove lo metto?... i pacchi degli estratti nel sacchetto?... le cartelle dei pazienti fino al 2000?...  le lettere dei vostri genitori durante la prima guerra mondiale?
Naturalmente il “suo ordine” non corrisponde al mio. E non tanto perchè gli Ucraini pensino e scrivano in un idioma che adotta l’alfabeto cirillico, sia che si tratti della lingua “piccolo-russa”, sia che ci si voglia riferire al “ruteno”, della dominazione austro-ungarica, ma perchè Olga ha un’impostazione mentale assolutamente diversa dalla mia e tende a colonizzare coloro che aiuta. [01]. Dunque non c’era verso, specie nei turni lunghi. Sapevo che sarebbe tornata.
Invece, quello che mi veniva a tiro, era l’improvviso affacciarsi alla memoria di uno strumento per pescare, che avevo molto amato, in passato, e col quale avevo trascorso intere notti alle foci del Marta o più su, del Fiora, sulla zona costiera della maremma laziale [02]. La badante Olga, trovandolo in qualche parte della casa o della cantina o in qualcuno di quegli scatoloni famosi pieni di oggetti promiscui raccontati in rievocazioni precedenti, mi aveva recato questo arnese. Come gettare un sasso nella piccionaia delle mie solitarie rievocazioni mnemoniche. Tutto sommato, uno scompiglio buono per una metafora. La metafora di una possibile, ma improbabile rubrica telematica.
 
Eh si! Perchè c’era stato un invito ed una affettuosa sollecitazione del Direttore Francesco Bollorino a Paolo Peloso (un Collega della redazione, che apprezzo molto e leggo volentieri), a tenere una rubrica stabile su questa nostra Rivista, alle quali egli aveva opposto alcune perplessità  dichiarandolo esplicitamente nel discorso di accettazione. Se ho ben interpretato il suo pensiero, ovvero quella schietta presentazione ai lettori dell’8 ottobre 2015, che accompagnava (prima... di “arrendersi”, com’egli stesso scrive) la sua rubrica “Pensieri sparsi. come nasce la rubrica”, recitava così: «Confesso di aver dovuto vincere una certa ritrosia per accettare l’invito che Francesco Bollorino mi ha fatto a partecipare con una rubrica a quell’universo della comunicazione psichiatrica che a vent’anni dalla nascita è diventato POL.it. Ho dovuto affrontare un rapporto quasi feticistico con la comunicazione cartacea, con la materiale spazialità e la storia secolare degli oggetti che la veicolano (il libro, la rivista) che mi porta a considerare tutto quanto non sta scritto sulla carta come qualcosa che “volat”; il sentimento di spaesamento e vulnerabilità che mi trasmette il web, con la vertiginosa sensazione di assenza di limiti e l’impalpabilità, e anche il comparire e scomparire di quella parte così recente del mondo alla pressione di un tasto; una certa diffidenza verso il nuovo, che mi pare sia andata negli ultimi anni affermandosi, insieme alla passione per le cose passate, come una cifra del mio carattere». Parole meditate, sentimenti autentici e condivisibili. Ecco, dicevo, il fatto mi aveva colpito particolarmente, perchè mi trovavo, e tuttora lo sono, proprio nelle sue condizioni, pur potendogli essere padre. Paolo Francesco Peloso, infatti, come età, si trova fra il mio primo e la mia seconda figlia. So anche di stimarlo, non solo per gli argomenti che tratta e per le letture extrapsichiatriche, ma anche pel tragitto curriculare, che lo ha condotto ai servizi territoriali dopo aver chiuso “Quarto”, l’O.P. genovese, con Antonio Slavich (1935-2009). Nondimeno, egli rappresentava le stesse difficoltà in cui io spesso m’imbatto, frequentando il “mezzo” informatico, la “comunicazione” informatica. In aggiunta andava considerato, per chi scrive, il salto generazionale, che aggravava le sue diffidenze paranoicali, fors’anche le sue soggezioni di fronte al “mezzo”, il “web”, raffigurandoselo quasi come il Moloch venerato dai Cananei. Lo scrivente è quello che si suol dire un “immigrato digitale” (Marc Prensky) [03], per giunta sospettoso e guardingo. Le sue “competenze informatiche”, non vanno oltre la conoscenza della tastiera, usata come macchina per scrivere, il bottone del correttore automatico, perché come dice Andrea Camilleri “il computer nasconde gli errori”, e quello della stampante, che a volte fa quello che vuole.


 
Perchè il rezzaglio? Come ho già detto, molti anni fa andavo a pesca col rezzaglio. Una rete che sviluppa una figura di cono circolare obliquo, piombata in fondo, con un vertice legato a una sagola che cattura i pesci quando tentano di sfuggire mentre la recuperi facendola scivolare pian piano sul fondale piatto e renoso. È un attrezzo molto sofisticato che richiede una certa abilità sia nel costruttore che nel pescatore, per poterlo lanciare lontano, in modo che la base ellittica del triangolo isoscele di rotazione (Geometria Analitica), si allarghi e si tenda bene lungo l’apotema per adagiarsi sul fondo [04]. Mi è tornato in mente leggendo Paolo Peloso, la sua rubrica “Pensieri sparsi”, su POL.IT. Il rezzaglio potrebbe essere una buona metafora per catturare pensieri sparsi nel mare della mente. L’attimo più opportuno è... sempre! Purché se ne presenti l’occasione, l’encefalo sia acceso, vigile e collegato. Nondimeno direi che, il momento del risveglio, quello ipnopompico, specie al mattino, sia l’ideale. Lanciare il rezzaglio nel mare della mente. Pescare voci, pensieri, canti, musiche, melodie, nenie, cantilene, linguaggi, ricordi, esperienze, emozioni, visioni... suggestioni tra saperi tradizionali, psico-psichiatrici, doveri sociali di convivenza, antropologie, culture, fenomeni percepiti camminando, curiosamente, in territori di confine.
 
Le rubriche telematiche che penso si chiamino tecnicamente “blog” o qualcosa del genere, necessitano di abilità definibili come “competenze informatiche” che mi trovano spaesato. Vediamo un po’ di approfondire la questione. Tanto per fare un piccolo esempio concreto, cito subito i nipoti che vengono a trovarmi a casa. Non è un mistero per nessuno, che da me si cucini (intenzionalmente) da gourmet e si esercitino le arti culinarie con la caccia alla ricetta migliore sul computer. La badante Olga devo dire che in questo cimento è eccezionale, sicché la casa dei nonni è molto frequentata. Come ciascuno potrà immaginare, uno dei risultati della mia lunghezza di età, di esistenza e di possibilità comunicative, pur essendo quello che si chiama un “immigrato digitale”, o forse “tardivo digitale, come computer, riesco a sopravvivere, ma neppur lontanamente da quello che è capace di fare l’ultimo dei miei sette nipoti, Andrea, che va all’asilo infantile e “smanetta” sull’iPhone dei genitori e sui computer del nonno alla velocità del baleno.
 
Per quanto mi riguarda, cercherò di dire come mi sono avvicinato al computer per la prima volta. Poco prima della mia retraite, vicino ai 2000, ebbi un’intuizione fortuita e banale, ma felice. Mi ero trasformato in un insopportabile burocrate (aggravato per giunta da spunti paranoicali). Avevo smesso di studiare, almeno dalla cosiddetta “Legge Basaglia” (1978) in poi, tanto che  meditavo di denunciare la mia ASL per danni didattici e culturali. In funzioni di controllore, mi aggiravo tra l’apparecchio del badge per timbrare il cartellino ed i vari presidi del Servizio Dipartimentale di Salute Mentale, senza neppure riuscire a controllare l’ultimo numero de “Il Lavoro Neuropsichiatrico”, l’antica Rivista bimestrale dell'Ospedale psichiatrico provinciale di Roma e della Clinica delle malattie nervose e mentali dell'Università di Roma, fondata e diretta da Ugo Cerletti e Francesco Bonfiglio (1883-1966), di cui sono stato redattore. Invece, ero diventato bravissimo a scrivere lettere del tipo «Le SSLL in indirizzo che mi ricevono per competenza e conoscenza sono tenute a darmi conferma stesso mezzo...». Orripilante burocratese!
Tutto questo accadeva, quando improvvisamente, ma potrei anche usare la locuzione «d’un tratto». Scrive Anton Pavlovič Čechov in Morte di un impiegato «nei racconti s’incontra spesso questo  “d’un tratto”, e gli scrittori hanno perfettamente ragione: la vita è così piena di cose improvvise!». La tentazione è grande ma io invece scriverò, quando un bel giorno, anzi un certo giorno, perchè non sono Čechov e tanto meno uno scrittore, nè questa, peraltro, è una narrazione, ma un semplice compte rendu, sulla mia informatizzazione alla ASL. Un certo giorno, dicevo, dalla Regione Lazio, giunse l’ordine di informatizzare tutta la documentazione cartacea del SDSM dell’ VIII Municipio di Roma, comprese la cartelle cliniche. Incuriosito, presi sempre di più a frequentare la stanza del “protocollo”, dove la sociologa dottoressa Daniela Leone l’infermiera Viviana Arlati armeggiavano col personale inviato dalla ditta, attorno ai cumputer del Servizio. Fu la mia salvezza e in un certo senso la mia fortuna.
 
Se oggi dispongo di una sia pur rudimentale capacità di uso della rete (tutto è relativo), lo debbo a quel provvidenziale “d’un tratto” checoviano, che polverizzò la mia burocratizzazione psichiatrica e arrivò  appena in tempo a correggere il mio analfabetismo digitale. Potrebbe sembrare un fatto banale ma Prensky, come ho detto sopra, il vulnus lo ha individuato benissimo. Uno dei miei maestri di neurologia, Raffaello Vizioli (1926-2006), detto Ninì, scrittore divulgativo brillante ed oratore facondo multilingue, non ha più scritto un rigo dalla diffusione del web. Non era riuscito a superare il circuito per lui virtuoso di quattro tappe fondamentali: la formazione del pensiero, la traduzione nella scrittura materiale con la sua stilografica sulla “carta quadrotta di Fabriano”, la consegna alla dattilografa per la stesura in “bella” e infine la spedizione in tipografia. Tempi biblici già a partire dal 1985 che lo avevano marginalizzato, malgrado le affettuose premure della moglie, l’architetto torinese Elisa (Pafi) Reduzzi Vizioli (1926-2011) e dei tre figli. Debbo dire, però, che la bella scrittura, leggibile, era uno dei pallini di Mario Gozzano. Lui insisteva: ”è un segno di educazione verso i Colleghi e verso i pazienti (le ricette)”. Se la grafia era “a zampe di gallina”, dovevamo compilare la cartella a macchina.
Ha ragione Prensky. Quella digitale è stata una rivoluzione di imprevedibile portata, anche per le nostre condotte. Ora vedo che nei curricula formato europeo alla voce computer viene specificatamente richiesto di indicare le competenze informatiche. Un’altra cosa che mi sgomenta e mi ammutolisce, è che quando chiedo informazioni per telefono, quello fisso di casa, mi capita sempre più spesso di parlare con dischi che mi chiedono di dire solo “si” o “no” o digitare un numero. Temo la robotizzazione delle future relazioni intersoggettive.
Tra l’altro, riflettendo su “Maestri” un “vecchio” progetto multimediale di Francesco Bollorino (in rete tutto deperisce rapidamente, l’idea recava la data 11 nov 2017), per vitalizzare ancor più la Rivista sono giunto alla conclusione che la cineteca dei maestri va benissimo ma la scrittura per raccontarli, codesti maestri, possa aiutare meglio, perchè in più restituisce il commento, la chiosa, l’interazione che è una modalità di partecipazione al momento in cui essi vivono o sono vissuti. Anche la ripubblicazione di vecchi loro testi d’epoca rende un buon servigio a mio parere. Ecco, da questo punto di vista, mi son detto, io posso offrire testimonianze di maestri o personaggi affini riguardo alla psichiatria, alla psicologia, alla psicopatologia, da me studiati o conosciuti direttamente, in Italia e all’estero.
Sto già pensando di tornare a lanciare il rezzaglio come metafora. Non più alle salmastre foci del fiume che gli etruschi chiamavano Harmine, come contributo a POL.IT, ma anche per raccogliere le ripetute sollecitazioni del direttore Bollorino e confortare i suoi sforzi e la sua passione, invitando i lettori a corrispondere un sostentamento economico tangibile per sollevare la casse esangui della Rivista, secondo la filosofia di piccole somme di tutti, regolarmente. Il popolo dei lettori può garantire cifre grandi, per una dignitosa sopravvivenza.
 
Note a il rezzaglio
[01]. In particolare quando ci tiene a sottolinearmi che se i Romani fondatori di Roma erano antichi, non meno antichi furono gli Ucraini. Le barbare genti slave giunte dall’oriente a popolare gli odierni territori ucraini, dal Mar Nero fino ai confini della Polonia, Slovacchia, Moldavia, Bielorussia e Russia. Esse, dopo un aspro conflitto (e conseguente innesto) con altri barbari del Nord-Ovest, di crine biondo, occhi celesti e carnagione chiara, giunti dalla Svezia, fondarono la “Rus' di Kiev”, ossia la monarchia di Vladimir I, il loro sire-condottiero (Kniaz). Anzi, certamente più antichi dei Russi coi quali notoriamente non corre buon sangue.
[02]. Erano più che altro spedizioni temerarie di patiti del Rezzaglio. Cercherò di descriverne un dagherrotipo. Seconda metà anni Settanta. L’appuntamento era alle ore 5.00 esatte a casa di Alfredo Desideri, personaggio straordinario di cui dirò più avanti. Mi caricavo “i gemelli” Giovanna e Vittorio, semiaddormentati, sul “Duemila dell’Alfa” e, dalla zona Policlinico, mi precipitavo a tutta velocità verso la zona Marconi per giungere puntuale, impegno che non riuscivo mai a centrare. Ad aspettarmi c’era l’arcigno Desideri, insieme coll’infermiere politicizzato (PCI) Arturo Carfagnini, di cui ho già parlato [Sergio Mellina. Ricordanze. Prima parte POL.IT 9 agosto 2018] e Mario un amico di Desideri, rimasto solo perchè gli era morta la moglie. Come al solito ero in ritardo di poco, ma Desideri contrariato mi diceva – poi chi avrà avuto la capacità di giungere fino a qui, capirà anche il perchè – “Se l’appuntamento era per le  5.05 me lo dicevi e sarei sceso 5 minuti dopo!” I più felici erano “i gemelli”. Se si svegliavano prima dell’alba, sapevano che tra quelle tre sagome colla luce in testa come i minatori (manufatto del Desideri) che andavano avanti e indietro per la battigia, c’era il loro padre. Il momento migliore per loro, era però quando veniva il nonno di Carmen, la nipotina che non mangiava, del padrone del ristorante in riva al mare, per invitarli a fare la colazione ed eventualmente il pranzo con l’amichetta. Carmen gradiva  molto la compagnia de “i gemelli”, era felice, giocava con loro trascorrendo la maggior parte del tempo a tavola ordinando una portata via l’altra.
[03]. Nel 2001, Marc Prensky, uno scrittore newyorkese del 1940, con inclinazioni pedagogiche e innovative nel campo dell’insegnamento dalla scuola dell’obbligo all’università, introdusse la nozione rivoluzionaria, molto discussa, di spartiacque tra “Nativi” e “Immigrati” digitali (come dopo e avanti Cristo), cui si è aggiunta una terza categoria, quella dei “Tardivi digitali”, pare coloro che secondo un adagio romanesco “facevano come l’antichi che mangiavan le cocce e gettavano i fichi”. Non mi dilungherei oltre, ma a quanto ho capito i nativi (ossia quelli d.C.), sarebbero coloro i quali sono nati dopo la metà degli anni 80, epoca della informatizzazione di massa. Quelli precedenti (gli a.C.) sono coloro che sono stati obbligati ad usare le tecnologie da adulti per non restare tagliati fuori. Per i tardivi, i diffidenti che scelgono, si rimanda ai testi specializzati.
[04]. In pratica una “bilancia” rovesciata, altro strumento di “pesca da ricerca”, da usare alle foci di fiumi, canali, moli bassi. Il rezzaglio, fa le sue prede in laguna, comunque in acque basse e sabbiose. Si raccomanda particolarmente alla foce dei fiumi e di notte. Invece, di giorno, la risacca sulle spiagge a dolce pendio. Chi ha buona vista riesce a scorgere le sagome guizzanti dei cefali tra i flutti, cosicché la pesca è mirata e non più da ricerca. L’artefice di tutto era Alfredo Desideri (1920-2011) un operaio-istruttore della legatoria del Padiglione XXX del Santa Maria della Pietà, li fabbricava nei momenti di pausa. La sua meticolosità era ossessiva. Per procurarsi le reti era andato fino a Terracina dove aveva trovato un mercante della locale flottiglia di pescatori che le ordinava a San Benedetto del Tronto. Per i piombi s’era costruito delle formelle olivari bucate al centro, dove colava il metallo fuso. Le prove di lancio avvenivano sul prato davanti al Pad XXX. Il suo punto di lavoro era frequentato da fanatici del rezzaglio tra i quali, oltre a me anche il primario Carmine D’Angelo (1916-2008) celebre neuropatologo romano, amico di Ugo Cerletti col quale si diceva che avessero fatto l’elettroshock al leone dello Zoo di Roma perchè depresso. Ebbene, non a tutti Alfredo Desideri dava i suoi rezzagli. Dovevi andargli a genio. Il rifiuto peggiore era accompagnato da un commento salace relativo al lancio: «A quello nun glielo dò perchè se lo da sui piedi». Vicende antiche e tempi lunghi, di manicomio, per l’appunto!

 
 
 
 
 

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