E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
(Dante, Inferno, Canto terzo)
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
(Dante, Inferno, Canto terzo)
È noto che l’uso e l’abuso dei social media non implica la rinuncia all’uso (e all’abuso) della TV, che anzi continua ad essere seguita ormai in tutto il mondo da un insieme pressoché universale di fruitori, che se su alcuni piani – come ad esempio quello della geopolitica – si agglomerano formando differenti opinioni pubbliche, su altri piani – ad esempio quello degli spettacoli sportivi – ormai sono pressoché sovrapponibili in tutto il mondo.
Per cui nel tentare un’analisi dell’influenza che social media hanno su di noi dobbiamo sempre aver presente la loro capacità di sommarsi ed intersecarsi con la 'vecchia' capacità di coltivazione che la TV esercita sui nostri desideri e sulle nostre menti.
In un vecchio post di recente ripubblicato su questa rubrica – Alcune note sulla coltivazione televisiva – ho cercato di porre in evidenza gli effetti di omologazione ai sistemi di credenze televisive che la TV induce nei suoi grandi consumatori (che poi – specialmente in certe età della vita – siamo, o siamo stati un po’ tutti noi). E lo facevo riprendendo un passaggio di Mauro Wolf in cui si affermava: “il mezzo televisivo non coltiva solo sistemi di credenze, ma produce anche atteggiamenti emotivi corrispondenti ai sistemi di credenze”.
Rimaneva implicito in questo passaggio qualcosa che oggi, nell’epoca della massiva diffusione dei social media va esplicitato poiché aiuta a marcare una differenza fra Tv e social media:
– La Tv con la coltivazione televisiva si limita a indurre atteggiamenti emotivi corrispondenti ai (propri) sistemi di credenze; riduce i propri fruitori a contenitori passivi, che sono indotti da una parte a dare “risposte televisive” ai problemi sociali ed individuali, dall’altra a sposare un sistema di protezione eteronoma e consumistica, che li metta al riparo dalle ansie e dalle angosce che tali problemi inducono.
– Cercheremo di dimostrare con queste note che i social media invece – pur non sostituendosi alla TV, ed anzi sfruttandone ed esasperando le sue potenzialità – si basano e si implementano in base ad un attivismo sempre più esasperato dei soggetti che si interfacciano con essi, che in questo modo non possono più essere definiti come contenitori passivi, poichè diventano soggetti attivi, anzi iperattivi, apparentemente ‘re della strada e della foresta’ delle app, in affetti usati e manipolati ad ogni click.
Partiamo con un esempio tratto da un recente articolo di giornale. Sul Fatto Quotidiano di lunedì 2 Settembre, a pagina 9 in un articolo di Patrizia De Rubertis a proposito di ‘social media e mestruazioni’ leggiamo fra l’altro:
“ … Ora a fare gola sono i risvolti della female technology, vale a dire la tecnologia a servizio della salute femminile, il cui termine è stato coniato nel 2013 dall’ideatrice danese di “Clue”, una delle app più utilizzate per tracciare il ciclo mestruale. Usare un’app femtech significa monitorare quante volte si esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo, si è in ovulazione, e come è la qualità del sonno di una donna. Quello però di cui si parla di meno è l'investimento che aziende collaterali, che a prima vista poco c’entrano con ormoni, gravidanze e salute in generale, stanno facendo di queste app. “Il rischio più concreto quando si parla di contraccezione digitale e femtech è quello della cosiddetta “sorveglianza mestruale”, ha lanciato l’allarme pochi giorni fa il Guardian che in un’inchiesta ha ricostruito come dati biometrici, strettamente personali, raccolti da app e device anticoncezionali o sfruttati comunque per la cura della salute femminile siano finiti nelle mani di altri soggetti e vengano utilizzati per scopi diversi da quelli per cui sono raccolti… Il comportamento e le abitudini femminili cambiano durante il mese principalmente in base agli ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo e sono in grado di influenzare la propensione allo shopping verso alcuni prodotti piuttosto che altri, senza rendersene conto. Così nessuna donna che usa queste app per monitorare il ciclo dovrebbe più sorprendersi se nei giorni di maggior fertilità troverà tra le pubblicità sui social network o lampeggiare nei banner che campeggiano sui siti Internet delle fotografie di completini per neonato o culle che, guarda caso, sono facilmente acquistabili sui portali di e-commerce più diffusi. Insomma, quando si tratta di quattrini ogni tabù sparisce e i corpi delle donne si trasformano in strumenti più che mai particolarmente lucrativi. A fare i conti è la società di consulenza Frost & Sullivan, secondo cui quello delle femtech è un settore che entro il 2025 potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari …”
Cosa possiamo desumere da questo esempio? che l’uso attivo di questa app genera una serie di dati, monitorati attimo per attimo da “agenzie collaterali” che li elaborano incrociandoli fraudolentemente con altri dati (in questo caso gli “ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo) al fine di usarli o di venderli ad altre agenzie interessate al mercato femtech per fini commerciali.
Ciò che l’articolo non ci dice è che ogni ricerca fatta sui social media, ogni click, ogni like alimenta almeno altri due livelli di sfruttamento: quello dell’influencer marketing, e soprattutto quello operato e implementato dalla cosiddetta ‘macchina delle fregatura’ (Jaron Lanier).
L’ormai oliatissimo apparato dell’influencer marketing opera – potremmo dire – ‘a corredo’ delle agenzie collaterali, e si avvale di un insieme di operatori che attraverso la lettura dei nostri movimenti in rete sono in grado di massimizzare i risultati di una campagna di marketing, e di minimizzare i rischi che possono provenire dalla concorrenza, utilizzando un insieme di accorgimenti e di strategie che, per essere efficaci, vanno continuamente monitorate nei loro risultati, e implementate. Alcune di queste figure – come quella dell’influencer – sono più visibili, altre molto meno, ma in qualsiasi campo devono operare in squadra e sempre a tamburo battente al fine di ‘guidare’ le nostre scelte.
Molto meno evidente, ma terribilmente più efficace è l’azione ‘a monte’ della macchina della fregatura, che poi è costituita dai grandi colossi social (soprattutto Facebook e Google ..), che usano gli algoritmi non solo per monitorare e catalogare i nostri gusti e le nostre propensioni al consumo in base ad ogni nostro movimento in rete, ma anche per indurre dipendenza dalla rete applicando creativamente i principi del comportamentismo, e cioè sfruttando ogni nostra emozione per porci in una posizione di dipendenza dalla rete. Sia sfruttando la nostra primigenia propensione di ‘animali nidicoli’ che hanno bisogno di essere contenuti; sia “scatenando la rabbia” (Lanier), cioè slegando thanatos da eros, ed innescando processi di defusione che sfruttano la polarizzazione che ne deriva da una parte per affinare il feedback adattivo dell’algoritmo al fine di rendere sempre più affinata la coltivazione della nostra dipendenza maniacalmente attiva dai social. Dall’altra per manipolarci a fini commerciali vendendo ad aziende ed altre entità interessate tutte le informazioni che ci profilano come consumatori.
Va annotato che fra le entità interessate ad acquisire questi dati vanno comprese anche le agenzie che compongono lo storytelling della politica, nei cui confronti i colossi social non operano affatto in base a scelte di natura ideologica, ma solo per vile denaro[1].
Riassumendo: mentre lo storytelling della Tv mira a conformare un fruitore passivo, quello dei social media punta a conformarci in un uso attivo che ci pone come una mosca in una tela di ragno avvolgendoci sempre più e imprigionandoci in uno stato di dipendenza che è tanto più efficace quanto più ci agitiamo maniacalmente sui media. E ci rende tanto più alienati quanto più pensiamo di agire da soggetti liberi. Entrambe però costituiscono un combinato disposto che va svolgendo una funzione decisiva nel definire e affinare una nuova potente macchina di propagazione di falsi bisogni, che a mio avviso è l’anima della versione odierna del neoliberismo.
Ora ciò che deriva sul piano individuale e sociale da questo pervasivo e ormai universale stato di cose è un mondo nuovo che necessita di innumerevoli elementi di approfondimento, che ovviamente non sono assolutamente in grado di fare. Ciò su cui vorrei cominciare a fare qualche appunto – in continuità con quando tentavo di dire nel mio precedente post “Alcune note sulla coltivazione televisiva” – è solo il dato della maniacalità indotta dai social media.
Per prima cosa mi vengono in mente i versi di Dante: la ‘nsegna che va girando ratta, e che non si ferma mai! e la lunga tratta di gente che le va dietro!
Quella lunga tratta di gente – penso – siamo noi, privati di ogni connotato particolare, ridotti a un enorme gruppo virtuale contrassegnato da una propensione maniacale all’uso dei social ed al consumo.
Propensione maniacale che finisce col cancellare la nostra individualità e ci spinge a rimanere confusamente in uno stato di illusione gruppale contrassegnato dall’euforia; che pare fondata sulla istituzione dentro ciascuno di noi di un’area transizionale di tipo feticistico, che permette la separazione, ma non calma, e che pare come un’ultima trincea che ci protegge dallo scacco anche sul piano della separazione; che ci ripara dalla depressione che emergerebbe se il pieno di oggetti di consumo non servisse più a colmare il vuoto del nostro essere, una volta scoperto che il nostro inseguire quella ‘nsegna ci aliena da noi stessi.
Bibliografia:
Anzieu D., Il gruppo e l’inconscio, Borla, Roma, 1979
Fromm E., Avere o essere, Mondadori, Milano, 1977
Kaës R. Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010
Lanier J., Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore, Mi, 2018
Masud Khan M., Le figure della perversione, Boringhieri, To, 1982
Salmon Ch, La politica nell’era dello storytelling, Fazi ed, Roma, 2014
Tustin F., Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti, R. Cortina, Milano, 1991
Wallace P., La psicologia di Internet, R. Cortina, Mi, 2017
Winnicott D.W, 'Oggetti transizionali e fenomeni transizionali', in: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Martinelli , Firenze, 1977
Per cui nel tentare un’analisi dell’influenza che social media hanno su di noi dobbiamo sempre aver presente la loro capacità di sommarsi ed intersecarsi con la 'vecchia' capacità di coltivazione che la TV esercita sui nostri desideri e sulle nostre menti.
In un vecchio post di recente ripubblicato su questa rubrica – Alcune note sulla coltivazione televisiva – ho cercato di porre in evidenza gli effetti di omologazione ai sistemi di credenze televisive che la TV induce nei suoi grandi consumatori (che poi – specialmente in certe età della vita – siamo, o siamo stati un po’ tutti noi). E lo facevo riprendendo un passaggio di Mauro Wolf in cui si affermava: “il mezzo televisivo non coltiva solo sistemi di credenze, ma produce anche atteggiamenti emotivi corrispondenti ai sistemi di credenze”.
Rimaneva implicito in questo passaggio qualcosa che oggi, nell’epoca della massiva diffusione dei social media va esplicitato poiché aiuta a marcare una differenza fra Tv e social media:
– La Tv con la coltivazione televisiva si limita a indurre atteggiamenti emotivi corrispondenti ai (propri) sistemi di credenze; riduce i propri fruitori a contenitori passivi, che sono indotti da una parte a dare “risposte televisive” ai problemi sociali ed individuali, dall’altra a sposare un sistema di protezione eteronoma e consumistica, che li metta al riparo dalle ansie e dalle angosce che tali problemi inducono.
– Cercheremo di dimostrare con queste note che i social media invece – pur non sostituendosi alla TV, ed anzi sfruttandone ed esasperando le sue potenzialità – si basano e si implementano in base ad un attivismo sempre più esasperato dei soggetti che si interfacciano con essi, che in questo modo non possono più essere definiti come contenitori passivi, poichè diventano soggetti attivi, anzi iperattivi, apparentemente ‘re della strada e della foresta’ delle app, in affetti usati e manipolati ad ogni click.
Partiamo con un esempio tratto da un recente articolo di giornale. Sul Fatto Quotidiano di lunedì 2 Settembre, a pagina 9 in un articolo di Patrizia De Rubertis a proposito di ‘social media e mestruazioni’ leggiamo fra l’altro:
“ … Ora a fare gola sono i risvolti della female technology, vale a dire la tecnologia a servizio della salute femminile, il cui termine è stato coniato nel 2013 dall’ideatrice danese di “Clue”, una delle app più utilizzate per tracciare il ciclo mestruale. Usare un’app femtech significa monitorare quante volte si esce, si beve alcol, si fuma, si prendono medicine, si fa sesso, si ha il ciclo, si è in ovulazione, e come è la qualità del sonno di una donna. Quello però di cui si parla di meno è l'investimento che aziende collaterali, che a prima vista poco c’entrano con ormoni, gravidanze e salute in generale, stanno facendo di queste app. “Il rischio più concreto quando si parla di contraccezione digitale e femtech è quello della cosiddetta “sorveglianza mestruale”, ha lanciato l’allarme pochi giorni fa il Guardian che in un’inchiesta ha ricostruito come dati biometrici, strettamente personali, raccolti da app e device anticoncezionali o sfruttati comunque per la cura della salute femminile siano finiti nelle mani di altri soggetti e vengano utilizzati per scopi diversi da quelli per cui sono raccolti… Il comportamento e le abitudini femminili cambiano durante il mese principalmente in base agli ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo e sono in grado di influenzare la propensione allo shopping verso alcuni prodotti piuttosto che altri, senza rendersene conto. Così nessuna donna che usa queste app per monitorare il ciclo dovrebbe più sorprendersi se nei giorni di maggior fertilità troverà tra le pubblicità sui social network o lampeggiare nei banner che campeggiano sui siti Internet delle fotografie di completini per neonato o culle che, guarda caso, sono facilmente acquistabili sui portali di e-commerce più diffusi. Insomma, quando si tratta di quattrini ogni tabù sparisce e i corpi delle donne si trasformano in strumenti più che mai particolarmente lucrativi. A fare i conti è la società di consulenza Frost & Sullivan, secondo cui quello delle femtech è un settore che entro il 2025 potrebbe valere fino a 50 miliardi di dollari …”
Cosa possiamo desumere da questo esempio? che l’uso attivo di questa app genera una serie di dati, monitorati attimo per attimo da “agenzie collaterali” che li elaborano incrociandoli fraudolentemente con altri dati (in questo caso gli “ormoni che controllano le funzioni cellulari del corpo) al fine di usarli o di venderli ad altre agenzie interessate al mercato femtech per fini commerciali.
Ciò che l’articolo non ci dice è che ogni ricerca fatta sui social media, ogni click, ogni like alimenta almeno altri due livelli di sfruttamento: quello dell’influencer marketing, e soprattutto quello operato e implementato dalla cosiddetta ‘macchina delle fregatura’ (Jaron Lanier).
L’ormai oliatissimo apparato dell’influencer marketing opera – potremmo dire – ‘a corredo’ delle agenzie collaterali, e si avvale di un insieme di operatori che attraverso la lettura dei nostri movimenti in rete sono in grado di massimizzare i risultati di una campagna di marketing, e di minimizzare i rischi che possono provenire dalla concorrenza, utilizzando un insieme di accorgimenti e di strategie che, per essere efficaci, vanno continuamente monitorate nei loro risultati, e implementate. Alcune di queste figure – come quella dell’influencer – sono più visibili, altre molto meno, ma in qualsiasi campo devono operare in squadra e sempre a tamburo battente al fine di ‘guidare’ le nostre scelte.
Molto meno evidente, ma terribilmente più efficace è l’azione ‘a monte’ della macchina della fregatura, che poi è costituita dai grandi colossi social (soprattutto Facebook e Google ..), che usano gli algoritmi non solo per monitorare e catalogare i nostri gusti e le nostre propensioni al consumo in base ad ogni nostro movimento in rete, ma anche per indurre dipendenza dalla rete applicando creativamente i principi del comportamentismo, e cioè sfruttando ogni nostra emozione per porci in una posizione di dipendenza dalla rete. Sia sfruttando la nostra primigenia propensione di ‘animali nidicoli’ che hanno bisogno di essere contenuti; sia “scatenando la rabbia” (Lanier), cioè slegando thanatos da eros, ed innescando processi di defusione che sfruttano la polarizzazione che ne deriva da una parte per affinare il feedback adattivo dell’algoritmo al fine di rendere sempre più affinata la coltivazione della nostra dipendenza maniacalmente attiva dai social. Dall’altra per manipolarci a fini commerciali vendendo ad aziende ed altre entità interessate tutte le informazioni che ci profilano come consumatori.
Va annotato che fra le entità interessate ad acquisire questi dati vanno comprese anche le agenzie che compongono lo storytelling della politica, nei cui confronti i colossi social non operano affatto in base a scelte di natura ideologica, ma solo per vile denaro[1].
Riassumendo: mentre lo storytelling della Tv mira a conformare un fruitore passivo, quello dei social media punta a conformarci in un uso attivo che ci pone come una mosca in una tela di ragno avvolgendoci sempre più e imprigionandoci in uno stato di dipendenza che è tanto più efficace quanto più ci agitiamo maniacalmente sui media. E ci rende tanto più alienati quanto più pensiamo di agire da soggetti liberi. Entrambe però costituiscono un combinato disposto che va svolgendo una funzione decisiva nel definire e affinare una nuova potente macchina di propagazione di falsi bisogni, che a mio avviso è l’anima della versione odierna del neoliberismo.
Ora ciò che deriva sul piano individuale e sociale da questo pervasivo e ormai universale stato di cose è un mondo nuovo che necessita di innumerevoli elementi di approfondimento, che ovviamente non sono assolutamente in grado di fare. Ciò su cui vorrei cominciare a fare qualche appunto – in continuità con quando tentavo di dire nel mio precedente post “Alcune note sulla coltivazione televisiva” – è solo il dato della maniacalità indotta dai social media.
Per prima cosa mi vengono in mente i versi di Dante: la ‘nsegna che va girando ratta, e che non si ferma mai! e la lunga tratta di gente che le va dietro!
Quella lunga tratta di gente – penso – siamo noi, privati di ogni connotato particolare, ridotti a un enorme gruppo virtuale contrassegnato da una propensione maniacale all’uso dei social ed al consumo.
Propensione maniacale che finisce col cancellare la nostra individualità e ci spinge a rimanere confusamente in uno stato di illusione gruppale contrassegnato dall’euforia; che pare fondata sulla istituzione dentro ciascuno di noi di un’area transizionale di tipo feticistico, che permette la separazione, ma non calma, e che pare come un’ultima trincea che ci protegge dallo scacco anche sul piano della separazione; che ci ripara dalla depressione che emergerebbe se il pieno di oggetti di consumo non servisse più a colmare il vuoto del nostro essere, una volta scoperto che il nostro inseguire quella ‘nsegna ci aliena da noi stessi.
Bibliografia:
Anzieu D., Il gruppo e l’inconscio, Borla, Roma, 1979
Fromm E., Avere o essere, Mondadori, Milano, 1977
Kaës R. Le alleanze inconsce, Borla, Roma, 2010
Lanier J., Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social, Il Saggiatore, Mi, 2018
Masud Khan M., Le figure della perversione, Boringhieri, To, 1982
Salmon Ch, La politica nell’era dello storytelling, Fazi ed, Roma, 2014
Tustin F., Protezioni autistiche nei bambini e negli adulti, R. Cortina, Milano, 1991
Wallace P., La psicologia di Internet, R. Cortina, Mi, 2017
Winnicott D.W, 'Oggetti transizionali e fenomeni transizionali', in: Dalla Pediatria alla Psicoanalisi, Martinelli , Firenze, 1977
[1] Lanier ci informa del fatto che Facebook nelle ultime presidenziali USA avesse offerto (per denaro) i propri servigi sia alla Clinton, che declinò l’offerta, sia a Trump che accettò.
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