di Leonardo Angelini e Deliana Bertani ([1])
Da: “Storie di famiglie. Bisogni e risorse nei racconti di vita familiare a Reggio Emilia”, in Strumenti, N.3, a cura dell’Osservatorio Permanente sulle famiglie del comune di Reggio Emilia, Guerini Ed., Mi, pp.123-126, che racchiude gli interventi al Convegno tenutosi a Reggio Emilia il 6 Ottobre 1998
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1. Con questo contributo intendiamo entrare nel merito dei problemi del rapporto fra la generazione dei giovani e quella dei padri e, più in specifico, sul tema della prevenzione fra i giovani, tema che l’attuale ricerca condotta dalla dott.sa Rampazi, a nostro avviso, non ha evidenziato a sufficienza. Il discorso sui giovani che, all’apparenza, a Reggio Emilia vede tutti concordi, in effetti presenta al proprio interno aspetti molto controversi, che meritano un’attenzione maggiore di quella che hanno fin qui ottenuto, ed – oseremmo dire – un atteggiamento più discriminato, più dialettico, più autocritico da parte di tutti, noi scriventi compresi.
2. E’ indubbio che la generazione dei nostri figli si impone con problemi nuovi agli occhi di noi genitori di oggi. Innanzitutto, è vero che la nostra generazione – quella dei genitori di oggi – fu la prima ad affrontare, in termini di massa in Italia, l’enorme cambiamento prodotto dall’esplosione della scolarizzazione post-obbligo e dalla conseguente espansione dell’adolescenza; ma, nonostante questo elemento di condivisione, che pure pone la nostra generazione vicina sul piano temporale ed esperienziale a quella dei nostri figli, vi sono importanti differenze fra noi e loro.
Differenze che trovano le loro radici nelle mutate condizioni storiche, sociali ed economiche della società attuale, rispetto a quella che ci vide giovani. Differenze con le quali dobbiamo fare quotidianamente i conti se non vogliamo (inutilmente) colonizzare i giovani, portarli sul nostro terreno, "rompergli le p…" con il nostro discorso su di loro.
3. In una situazione di questo genere, è facile che, alla lunga, i legami generazionali tendano ad usurarsi. Questa tendenza, che va pericolosamente verso una situazione di vera e propria assenza del senso del legame, è ancora un tratto latente nel nostro contesto sociale, ma, se le cose dovessero essere lasciate alla cieca spontaneità, c’è il rischio che essa diventi il tratto dominante e distintivo del rapporto fra le generazioni, con il risultato di un dissolvimento totale del legame fra di esse, tale da impedire quella trasmissione generativa tra una fascia d’età ed un’altra in grado di produrre la nuova società in un rapporto polemico, certo, ma anche dialettico con la vecchia. E non è certamente l’amplificarsi del fenomeno delle "famiglie lunghe", dove il legame troppo stretto annulla le distanze e diventa soffocante per tutti, che ci può garantire da questo rischio.
4. Un altro elemento che rende dissimile l’adolescenza attuale dalla nostra è rappresentato dalle mutate condizioni di accesso al mondo del lavoro (e quindi all’età adulta). Oggi, non solo è più difficile entrare nel mondo del lavoro, ma occorre più tempo per formarsi, poiché, da una parte, il progresso tecnologico richiede una manodopera sempre più qualificata a tutti i livelli, dall’altra il benessere ha reso poco appetiti determinati lavori, più semplici e meno remunerativi (o meno considerati sul piano dell’autostima), aprendo così la nostra società all’arrivo di una nuova generazione di giovani, ci riferiamo ai giovani immigrati, che non hanno (ancora) un posto a tavola nella nostra società affluente e che rappresentano l’altra faccia della medaglia del nostro benessere, e l’altra faccia, la più impresentabile, della nostra gioventù.
5. Cosicché la gioventù attuale si biforca: una parte di essa si espande in quell’Isola che non c’è – sempre più fuori del tempo e dello spazio del lavoro – che è l’adolescenza attuale della maggior parte dei giovani autoctoni, l’altra, quella dei giovani nuovi arrivati, costituisce la base per un ulteriore cambiamento di fondo della nostra società che potrà andare nel senso dell’integrazione o dell’arroccamento, a seconda di come ci sapremo coniugare con loro che, intanto, ci stanno lentamente, ma inesorabilmente invadendo.
6. Più in particolare, entrando nel merito delle caratteristiche storiche della società reggiana, noi pensiamo si possa affermare che ci troviamo oggi di fronte ad una svolta importante nel modo di vivere, nel modo di concepire la vita, da parte delle giovani generazioni autoctone, che implica uno s-centramento rispetto alla tradizione, una ricollocazione rispetto ai valori tradizionali, ricollocazione che sta andando avanti in maniera pericolosamente scissionale e che, per noi della generazione precedente, è un’ulteriore sfida che ci prende quotidianamente e ci dilacera. Ci riferiamo a quello che, in altra sede, abbiamo definito come passaggio da una società basata su una sorta di etica padana del lavoro ad un’altra (quella dei nostri giovani autoctoni) basata su di una sorta di estetica consumista che non ha più al centro della propria ideologia di vita il lavoro, il risparmio, l’investimento, ma altri valori che ci sono molto meno familiari, e che, pure, noi stessi abbiamo trasmesso loro (abboffandoli compensativamente di cose).
7. La generazione dei nostri padri – che, a parte sparute minoranze, aveva visto condensarsi la propria adolescenza nelle rapide cerimonie dell’apprendistato – inorridirebbe di fronte a questa enorme dilatazione dei tempi di formazione e farebbe una enorme fatica a superare l’invidia che questi giovani suscitano in chi non ha avuto neanche la fortuna di entrare per un attimo nell’Isola (senza tempo) che non c’è. Figuriamoci cosa direbbe di fronte al venir meno dell’etica padana del lavoro. E noi siamo proprio lì in mezzo, dilacerati fra fedeltà alle tradizioni che ci vogliono laboriose formiche e transizioni alla modernità che abbiamo voluto, ma con le quali non ci concilieremo mai fino in fondo.
8. In questo iato, che diventa sempre di più una voragine, l’adolescente odierno ai nostri occhi diventa sempre più un alieno che non siamo in grado di comprendere. Le tappe della crescita psicologica che, nella vecchia società, avevano solidi e ben visibili paletti, e cioè le cerimonie dell’apprendistato (i riti che segnavano il passaggio all’età adulta) oggi non sono più sancite da nessuno. La scuola, che pure attraverso la propria funzione selettiva ed individualizzante, è forse l’unica istituzione che regola il passaggio e la "promozione" all’età adulta, non è assolutamente consapevole del significato così ampio della funzione di cui pure è portatrice, e questa cecità, che è frutto della riduzione dell’educazione all’istruzione, ha delle conseguenze a volte disastrose sul giovane.
9. Una maggiore attenzione alle ragioni che motivano o demotivano il giovane ad apprendere, al substrato affettivo dell’insegnamento, al rapporto fra plesso scolastico ed ambiente di vita sociale delle famiglie ci sembra importante, al fine di ridurre la dispersione scolastica e per affrontare il problema che l’elevazione dell’obbligo porrà a quella fascia marginale di giovani che rifiutano la scuola ed, infine, per non lasciare alla cecità del mercato quella fondamentale risorsa per l’avvenire rappresentata dalla disposizione al lavoro delle giovani generazioni.
10. D’altro lato, come dicevamo prima, i giovani immigrati, venuti al nord-ovest con le loro attese e senza le loro famiglie, generano una serie di problemi che vanno la di là di quelli che pure nascono sul piano dei conflitti e della concorrenza per il lavoro. Problemi connessi al tema dell’integrazione (intesa sia in termini individuali che sociali e culturali), con tutta l’ambivalenza e la scissionalità che in questi processi è riscontrabile (soprattutto all’inizio) sia in chi arriva, sia in chi accoglie.
E’ sulle spalle di questa seconda gioventù che, alla fine, confluisce buona parte delle problematiche che stoltamente a volte definiamo di "ordine pubblico", e che, invece, rappresentano – come la droga, la delinquenza ad esempio – un altro tentativo di risoluzione autoterapeutica di problemi psicologici e sociali che, secondo noi, meritano perlomeno la stessa attenzione e la stessa cura che dedichiamo ai nostri giovani autoctoni.
11. Come è possibile vedere, il problema della nostra gioventù attuale investe tutte le problematiche centrali del nostro vivere quotidiano, tutte le politiche economiche e sociali del nostro oggi. Nonostante questo, occorre dire che, affinché l’intervento preventivo che tutti ci proponiamo abbia un minimo di efficacia, un intervento sui giovani che sia limitato ai giovani stessi non basta (non parliamo poi dei tentativi di mettersi l’anima a posto con qualche conferenza o ricerca ad hoc).
Non basta poiché la struttura della personalità del giovane reggiano d’oggi è il frutto di una educazione ricevuta a casa e a scuola, di scelte di politica economica e sociale, di programmazione del tessuto urbano della città e del territorio, di organizzazione del tempo libero, di definizione, in una parola, delle premesse attraverso le quali si costituiscono, o meno, le basi di una personalità forte, di un Io forte, scelte che sono state fatte a monte, e che continuano ad essere fatte per la generazione di giovani successiva a questa odierna. E’ su questo terreno che occorre, a nostro avviso, sondare – con spirito autocritico e senza sicumere, a fini pratici, preventivi, e non accademici – da parte di tutti.
12. Dal nostro punto di vista, il passaggio alla famiglia nucleare (e ancor di più quello alla famiglia lunga, come dicevamo prima), l’eclissi delle figure genitoriali, da una parte, e la conseguente necessità, dall’altra, di definire un modello di maternage multiplo, fin dalla più tenera età, che minimizzi i rischi di indurre nel bambino la formazione di introietti deboli, e che anzi lo aiuti ad integrare, in una cogestione educativa fra casa e nido, fra casa e scuola materna, fra casa e scuola elementare e media, tutto ciò che, sul piano educativo proviene da questa pluralità di istanze genitoriali: questi sono i punti centrali della scommessa che sul piano educativo, la nostra società reggiana, tutti noi, abbiamo fatto nei decenni scorsi.
13. Ebbene, se vediamo retrospettivamente gli obiettivi che pre-scuola e scuola, statali e comunali, pubbliche e private, si sono date nei decenni scorsi non possiamo dimenticare che, dopo l’enfasi iniziale data a quella che potremmo definire come pedagogia compensativa (volta cioè ad un più sostanziale richiamo alla parità dei punti di partenza sul piano scolastico di quanto predisponga, in termini formali, la nostra Costituzione), è venuta poi una lunga stagione in cui le preoccupazioni di tutti erano sostanzialmente di perseguire fini di istruzione, più che di educazione, di definizione di percorsi curricolari, volti alla costruzione di un bambino "MEC2000" oggi e di un adulto competente domani, più che di percorsi maturativi volti alla costruzione ed al rafforzamento del Sé critico del bambino di oggi e dell’adulto di domani.
14. Il "bambino cognitivo", competente, ma lontano da noi adulti – poiché ogni mozione degli affetti fra noi e lui era stata bandita, per essere sostituita dal pieno degli oggetti di consumo a casa e del pieno del curricolo a scuola – era l’emblema di questa pedagogia della performance. Pedagogia ieri esibita fin negli asili nido e nelle scuole per l’infanzia, ancora oggi presente nei programmi scolastici (basti pensare a come viene attuato il cosiddetto modulo nelle elementari, o alla frantumazione della funzione docente della scuola media inferiore) ma che, fortunatamente, nella coscienza di molti educatori sta andando in crisi.
Ebbene, noi pensiamo che, fra estetica consumista e bambino cognitivo, vi possa essere un nesso, che, fra ideologia di vita dei giovani d’oggi e retroterra della pedagogia della performance (ideologia della competizione), ci possa essere un legame; nessi e legami che andrebbero attentamente studiati al fine di fondare, teoreticamente e praticamente, non un impossibile ritorno ad un passato di educazione monocentrica (come pure nostalgicamente in taluni ambienti si vagheggia), ma un modello policentrico capace di formare cittadini più critici e più forti.
15. Vi è, cioè, necessità di una indagine senza veli sulle cause della virata scissionale dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista.
Cause che, ovviamente, non sono solo riconducibili al dato educativo. Pensiamo, tanto per fare un esempio, al dato della conformazione urbana del nostro territorio, al dato cui accennavamo all’inizio del prolungamento dei tempi di formazione, alle nuove caratteristiche del mondo del lavoro, eccetera.
Cause che, quindi, vanno lette in un’ottica sistemica, e che cioè richiedono il concorso, sul piano preventivo, di una pluralità di soggetti disponibili a riflettere ed a muoversi insieme, pur non rinunciando alle proprie differenze. A muoversi sia sul piano della prevenzione che della cura: cioè dell’intervento sia sulle cause che sugli effetti. A muoversi verso la costituzione di uno spazio unico che armonizzi, programmi, spinga verso un intervento integrato, espanda tutti i vari scomparti istituzionali che lavorano sugli adolescenti.
Cause che, fortunatamente, sul piano empirico, non si sono sempre risolte sotto il segno della scissionalità, ma che pure vedono, a nostro avviso, nel momento educativo un momento centrale per tutto il resto, poiché è lì che si determinano le modalità introiettive e proiettive in base alle quali tutto il resto verrà messo dentro o lasciato fuori.
Non ultimo il rapporto con l’altro da me rappresentato, come profeticamente diceva Pasolini dai milioni di immigrati, di "Alì dagli occhi azzurri" che vanno migrando verso di noi dai "Regni della Fame" "….. per insegnare ai compagni operai la gioia della vita \ per insegnare ai borghesi \ la gioia della libertà \ per insegnare ai cristiani \ la gioia della morte".
E per imparare da noi quello che di buono sapremo offrir loro, se noi saremo in grado di metterci con loro in una situazione di scambio e di arricchimento, però, e non di presunzione e di chiusura: poiché in questo secondo caso il rischio è l’emergere, prima o poi, nella nostra padania di una nuova barbarie, molto, molto più preoccupante dello spinello facile e dello sballo di qualche giovane sfigato. E questo, si, che sarebbe il nostro vero fallimento.
2. E’ indubbio che la generazione dei nostri figli si impone con problemi nuovi agli occhi di noi genitori di oggi. Innanzitutto, è vero che la nostra generazione – quella dei genitori di oggi – fu la prima ad affrontare, in termini di massa in Italia, l’enorme cambiamento prodotto dall’esplosione della scolarizzazione post-obbligo e dalla conseguente espansione dell’adolescenza; ma, nonostante questo elemento di condivisione, che pure pone la nostra generazione vicina sul piano temporale ed esperienziale a quella dei nostri figli, vi sono importanti differenze fra noi e loro.
Differenze che trovano le loro radici nelle mutate condizioni storiche, sociali ed economiche della società attuale, rispetto a quella che ci vide giovani. Differenze con le quali dobbiamo fare quotidianamente i conti se non vogliamo (inutilmente) colonizzare i giovani, portarli sul nostro terreno, "rompergli le p…" con il nostro discorso su di loro.
3. In una situazione di questo genere, è facile che, alla lunga, i legami generazionali tendano ad usurarsi. Questa tendenza, che va pericolosamente verso una situazione di vera e propria assenza del senso del legame, è ancora un tratto latente nel nostro contesto sociale, ma, se le cose dovessero essere lasciate alla cieca spontaneità, c’è il rischio che essa diventi il tratto dominante e distintivo del rapporto fra le generazioni, con il risultato di un dissolvimento totale del legame fra di esse, tale da impedire quella trasmissione generativa tra una fascia d’età ed un’altra in grado di produrre la nuova società in un rapporto polemico, certo, ma anche dialettico con la vecchia. E non è certamente l’amplificarsi del fenomeno delle "famiglie lunghe", dove il legame troppo stretto annulla le distanze e diventa soffocante per tutti, che ci può garantire da questo rischio.
4. Un altro elemento che rende dissimile l’adolescenza attuale dalla nostra è rappresentato dalle mutate condizioni di accesso al mondo del lavoro (e quindi all’età adulta). Oggi, non solo è più difficile entrare nel mondo del lavoro, ma occorre più tempo per formarsi, poiché, da una parte, il progresso tecnologico richiede una manodopera sempre più qualificata a tutti i livelli, dall’altra il benessere ha reso poco appetiti determinati lavori, più semplici e meno remunerativi (o meno considerati sul piano dell’autostima), aprendo così la nostra società all’arrivo di una nuova generazione di giovani, ci riferiamo ai giovani immigrati, che non hanno (ancora) un posto a tavola nella nostra società affluente e che rappresentano l’altra faccia della medaglia del nostro benessere, e l’altra faccia, la più impresentabile, della nostra gioventù.
5. Cosicché la gioventù attuale si biforca: una parte di essa si espande in quell’Isola che non c’è – sempre più fuori del tempo e dello spazio del lavoro – che è l’adolescenza attuale della maggior parte dei giovani autoctoni, l’altra, quella dei giovani nuovi arrivati, costituisce la base per un ulteriore cambiamento di fondo della nostra società che potrà andare nel senso dell’integrazione o dell’arroccamento, a seconda di come ci sapremo coniugare con loro che, intanto, ci stanno lentamente, ma inesorabilmente invadendo.
6. Più in particolare, entrando nel merito delle caratteristiche storiche della società reggiana, noi pensiamo si possa affermare che ci troviamo oggi di fronte ad una svolta importante nel modo di vivere, nel modo di concepire la vita, da parte delle giovani generazioni autoctone, che implica uno s-centramento rispetto alla tradizione, una ricollocazione rispetto ai valori tradizionali, ricollocazione che sta andando avanti in maniera pericolosamente scissionale e che, per noi della generazione precedente, è un’ulteriore sfida che ci prende quotidianamente e ci dilacera. Ci riferiamo a quello che, in altra sede, abbiamo definito come passaggio da una società basata su una sorta di etica padana del lavoro ad un’altra (quella dei nostri giovani autoctoni) basata su di una sorta di estetica consumista che non ha più al centro della propria ideologia di vita il lavoro, il risparmio, l’investimento, ma altri valori che ci sono molto meno familiari, e che, pure, noi stessi abbiamo trasmesso loro (abboffandoli compensativamente di cose).
7. La generazione dei nostri padri – che, a parte sparute minoranze, aveva visto condensarsi la propria adolescenza nelle rapide cerimonie dell’apprendistato – inorridirebbe di fronte a questa enorme dilatazione dei tempi di formazione e farebbe una enorme fatica a superare l’invidia che questi giovani suscitano in chi non ha avuto neanche la fortuna di entrare per un attimo nell’Isola (senza tempo) che non c’è. Figuriamoci cosa direbbe di fronte al venir meno dell’etica padana del lavoro. E noi siamo proprio lì in mezzo, dilacerati fra fedeltà alle tradizioni che ci vogliono laboriose formiche e transizioni alla modernità che abbiamo voluto, ma con le quali non ci concilieremo mai fino in fondo.
8. In questo iato, che diventa sempre di più una voragine, l’adolescente odierno ai nostri occhi diventa sempre più un alieno che non siamo in grado di comprendere. Le tappe della crescita psicologica che, nella vecchia società, avevano solidi e ben visibili paletti, e cioè le cerimonie dell’apprendistato (i riti che segnavano il passaggio all’età adulta) oggi non sono più sancite da nessuno. La scuola, che pure attraverso la propria funzione selettiva ed individualizzante, è forse l’unica istituzione che regola il passaggio e la "promozione" all’età adulta, non è assolutamente consapevole del significato così ampio della funzione di cui pure è portatrice, e questa cecità, che è frutto della riduzione dell’educazione all’istruzione, ha delle conseguenze a volte disastrose sul giovane.
9. Una maggiore attenzione alle ragioni che motivano o demotivano il giovane ad apprendere, al substrato affettivo dell’insegnamento, al rapporto fra plesso scolastico ed ambiente di vita sociale delle famiglie ci sembra importante, al fine di ridurre la dispersione scolastica e per affrontare il problema che l’elevazione dell’obbligo porrà a quella fascia marginale di giovani che rifiutano la scuola ed, infine, per non lasciare alla cecità del mercato quella fondamentale risorsa per l’avvenire rappresentata dalla disposizione al lavoro delle giovani generazioni.
10. D’altro lato, come dicevamo prima, i giovani immigrati, venuti al nord-ovest con le loro attese e senza le loro famiglie, generano una serie di problemi che vanno la di là di quelli che pure nascono sul piano dei conflitti e della concorrenza per il lavoro. Problemi connessi al tema dell’integrazione (intesa sia in termini individuali che sociali e culturali), con tutta l’ambivalenza e la scissionalità che in questi processi è riscontrabile (soprattutto all’inizio) sia in chi arriva, sia in chi accoglie.
E’ sulle spalle di questa seconda gioventù che, alla fine, confluisce buona parte delle problematiche che stoltamente a volte definiamo di "ordine pubblico", e che, invece, rappresentano – come la droga, la delinquenza ad esempio – un altro tentativo di risoluzione autoterapeutica di problemi psicologici e sociali che, secondo noi, meritano perlomeno la stessa attenzione e la stessa cura che dedichiamo ai nostri giovani autoctoni.
11. Come è possibile vedere, il problema della nostra gioventù attuale investe tutte le problematiche centrali del nostro vivere quotidiano, tutte le politiche economiche e sociali del nostro oggi. Nonostante questo, occorre dire che, affinché l’intervento preventivo che tutti ci proponiamo abbia un minimo di efficacia, un intervento sui giovani che sia limitato ai giovani stessi non basta (non parliamo poi dei tentativi di mettersi l’anima a posto con qualche conferenza o ricerca ad hoc).
Non basta poiché la struttura della personalità del giovane reggiano d’oggi è il frutto di una educazione ricevuta a casa e a scuola, di scelte di politica economica e sociale, di programmazione del tessuto urbano della città e del territorio, di organizzazione del tempo libero, di definizione, in una parola, delle premesse attraverso le quali si costituiscono, o meno, le basi di una personalità forte, di un Io forte, scelte che sono state fatte a monte, e che continuano ad essere fatte per la generazione di giovani successiva a questa odierna. E’ su questo terreno che occorre, a nostro avviso, sondare – con spirito autocritico e senza sicumere, a fini pratici, preventivi, e non accademici – da parte di tutti.
12. Dal nostro punto di vista, il passaggio alla famiglia nucleare (e ancor di più quello alla famiglia lunga, come dicevamo prima), l’eclissi delle figure genitoriali, da una parte, e la conseguente necessità, dall’altra, di definire un modello di maternage multiplo, fin dalla più tenera età, che minimizzi i rischi di indurre nel bambino la formazione di introietti deboli, e che anzi lo aiuti ad integrare, in una cogestione educativa fra casa e nido, fra casa e scuola materna, fra casa e scuola elementare e media, tutto ciò che, sul piano educativo proviene da questa pluralità di istanze genitoriali: questi sono i punti centrali della scommessa che sul piano educativo, la nostra società reggiana, tutti noi, abbiamo fatto nei decenni scorsi.
13. Ebbene, se vediamo retrospettivamente gli obiettivi che pre-scuola e scuola, statali e comunali, pubbliche e private, si sono date nei decenni scorsi non possiamo dimenticare che, dopo l’enfasi iniziale data a quella che potremmo definire come pedagogia compensativa (volta cioè ad un più sostanziale richiamo alla parità dei punti di partenza sul piano scolastico di quanto predisponga, in termini formali, la nostra Costituzione), è venuta poi una lunga stagione in cui le preoccupazioni di tutti erano sostanzialmente di perseguire fini di istruzione, più che di educazione, di definizione di percorsi curricolari, volti alla costruzione di un bambino "MEC2000" oggi e di un adulto competente domani, più che di percorsi maturativi volti alla costruzione ed al rafforzamento del Sé critico del bambino di oggi e dell’adulto di domani.
14. Il "bambino cognitivo", competente, ma lontano da noi adulti – poiché ogni mozione degli affetti fra noi e lui era stata bandita, per essere sostituita dal pieno degli oggetti di consumo a casa e del pieno del curricolo a scuola – era l’emblema di questa pedagogia della performance. Pedagogia ieri esibita fin negli asili nido e nelle scuole per l’infanzia, ancora oggi presente nei programmi scolastici (basti pensare a come viene attuato il cosiddetto modulo nelle elementari, o alla frantumazione della funzione docente della scuola media inferiore) ma che, fortunatamente, nella coscienza di molti educatori sta andando in crisi.
Ebbene, noi pensiamo che, fra estetica consumista e bambino cognitivo, vi possa essere un nesso, che, fra ideologia di vita dei giovani d’oggi e retroterra della pedagogia della performance (ideologia della competizione), ci possa essere un legame; nessi e legami che andrebbero attentamente studiati al fine di fondare, teoreticamente e praticamente, non un impossibile ritorno ad un passato di educazione monocentrica (come pure nostalgicamente in taluni ambienti si vagheggia), ma un modello policentrico capace di formare cittadini più critici e più forti.
15. Vi è, cioè, necessità di una indagine senza veli sulle cause della virata scissionale dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista.
Cause che, ovviamente, non sono solo riconducibili al dato educativo. Pensiamo, tanto per fare un esempio, al dato della conformazione urbana del nostro territorio, al dato cui accennavamo all’inizio del prolungamento dei tempi di formazione, alle nuove caratteristiche del mondo del lavoro, eccetera.
Cause che, quindi, vanno lette in un’ottica sistemica, e che cioè richiedono il concorso, sul piano preventivo, di una pluralità di soggetti disponibili a riflettere ed a muoversi insieme, pur non rinunciando alle proprie differenze. A muoversi sia sul piano della prevenzione che della cura: cioè dell’intervento sia sulle cause che sugli effetti. A muoversi verso la costituzione di uno spazio unico che armonizzi, programmi, spinga verso un intervento integrato, espanda tutti i vari scomparti istituzionali che lavorano sugli adolescenti.
Cause che, fortunatamente, sul piano empirico, non si sono sempre risolte sotto il segno della scissionalità, ma che pure vedono, a nostro avviso, nel momento educativo un momento centrale per tutto il resto, poiché è lì che si determinano le modalità introiettive e proiettive in base alle quali tutto il resto verrà messo dentro o lasciato fuori.
Non ultimo il rapporto con l’altro da me rappresentato, come profeticamente diceva Pasolini dai milioni di immigrati, di "Alì dagli occhi azzurri" che vanno migrando verso di noi dai "Regni della Fame" "….. per insegnare ai compagni operai la gioia della vita \ per insegnare ai borghesi \ la gioia della libertà \ per insegnare ai cristiani \ la gioia della morte".
E per imparare da noi quello che di buono sapremo offrir loro, se noi saremo in grado di metterci con loro in una situazione di scambio e di arricchimento, però, e non di presunzione e di chiusura: poiché in questo secondo caso il rischio è l’emergere, prima o poi, nella nostra padania di una nuova barbarie, molto, molto più preoccupante dello spinello facile e dello sballo di qualche giovane sfigato. E questo, si, che sarebbe il nostro vero fallimento.
[1] all’epoca entrambi operanti come psicoterapeuti nell’Open G, il Consultorio Giovani dell’Ausl di Reggio Emilia
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