Ferdinando Martini (1841-1928), toscano, fu un eminente giornalista, scrittore, docente alla Scuola Normale di Pisa, uomo politico, deputato del Regno d’Italia. Fu eletto la prima volta in Parlamento nel 1876 e vi rimase ininterrottamente per 43 anni dalla XII alla XXIV legislatura; appartenne alla corrente del liberalismo democratico moderato di segno risorgimentale. Martini fu iscritto alla loggia Propaganda massonica di Roma in cui rivestì il grado di maestro dal 23 nov. 1883.
Ebbe incarichi di Governo: Governatore dell’Eritrea dal 16 dicembre 1897 al 25 marzo 1907 , Ministro dell'Istruzione Pubblica nel Governo Giolitti I e Ministro delle Colonie negli anni della Prima guerra mondiale (1914-16) nei gabinetti Salandra I e II. Dopo Caporetto, fu tra i fondatori del Fascio Parlamentare di difesa nazionale costituitosi per scongiurare l’ipotesi di una pace separata; sostenne la politica delle nazionalità nell’ex Impero asburgico. Il 1º marzo 1923 fu nominato Senatore del Regno. Aderì al Fascismo e nel 1925 sottoscrisse il “Manifesto degli intellettuali fascisti” redatto da Giovanni Gentile.
Agli inizi del suo impegno parlamentare fu scettico sulle scelte di politica coloniale del governo del Regno d’Italia: nel 1887 fu tra i pochi che votarono contro gli stanziamenti per l’Africa. Nel 1891 fu costituita una Commissione d’inchiesta su alcune oscure, inquietanti vicende accadute nella Colonia Eritrea: Martini ne fece parte e ne fu nominato vice-presidente. In tale veste compì un viaggio di visita nella Colonia; da quel viaggio di due mesi nacquero le note Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi.
Come sopra detto, a un anno dalla catastrofe militare di Adua (1 marzo 1896) e dopo che il 26 ott. 1896 la pace di Addis Abeba aveva salvato il territorio della colonia Eritrea, Martini fu nominato «Commissario civile straordinario», ossia Governatore dell'Eritrea, incarico che tenne fino al 1907. La sua nomina rappresentò il passaggio dall’amministrazione militare a quella civile e la scelta di un politico “moderato”. Unanime è il giudizio positivo degli storici sul modo con cui gestì il suo mandato: Angelo Del Boca, il più importante studioso del colonialismo italiano, così ne traccia il profilo: “Conclusa l’annosa e sanguinosa vertenza con l’Etiopia di Menelik, e instaurato in Eritrea un governo civile, presieduto da un personaggio di alto livello come Ferdinando Martini, letterato, filologo, politico accorto, futuro Ministro delle Colonie, l’Eritrea entrava in un periodo di pace che favoriva i viaggi e consentiva di tracciare della colonia i primi bilanci di valore scientifico. In definitiva, l’operato di Ferdinando Martini in Africa Orientale venne coronato da successo dopo un passato coloniale di disavventure politiche e mala amministrazione. Questa opinione […] è espressa dalla storiografia più importante del colonialismo italiano”.
Vi è quindi una grande convergenza di giudizi circa la moderazione e la lungimiranza dell’operato di Martini in Eritrea. È proprio in contrasto con tale coro di apprezzamenti che, scorrendo le pagine di Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi mi hanno profondamente colpito e turbato alcuni passaggi, che mostrano un inquietante doppio volto del Nostro e una sua serena, liliale appartenenza al più becero razzismo colonialista dell’Ottocento:
"Da cinquant’anni le guerre civili travagliano l’Abissinia; ne’ recenti anni vi piombarono sopra calamità d’ogni specie: epizoozia, cavallette, colera e da tante maledizioni un ultimo flagello: la fame. Gli abitanti, poco propensi per indole all’agricoltura e più avvezzi ormai a maneggiare il fucile che a guidare l’aratro, si svogliarono dal coltivare. Coltivare con che, se i buoi li ha uccisi la peste? Coltivare perché? Perché le cavallette divorino e i ras e i preti piglino quel che rimane? Così, dopo aver patita la carestia più anni, ora la cagionavano. (p. 29)
L’Abissino distrugge tutto per ignoranza, e per inerzia lascia tutto decadere e distruggersi. La popolazione del Samhar, dell’Hamasen e del Tigrè, sulle cui miserie vi siete già probabilmente impietositi, è volontariamente miserabile e profondamente corrotta. Gente che non è capace a nulla, e non vuole addestrarsi a nulla; meglio i Sudanesi, meglio gli stessi negri dell’Affrica centrale. Qui gli indigeni sono tuttavia nello stato infantile e ve ne accorgerete quando avrete a servirvene; non sanno né legare un carico né equilibrare un peso. Sebbene l’argilla abbondi, non si fa qui il menomo lavoro in terracotta; il menomo lavoro di vimini: potete cercare quanto volete, non troverete traccia di alcuna delle forme rudimentali dell’industria umana. La guerra, il colera, le rapine sono stati certamente cagione di molti guai: ma nonostante le rapine, il colera, le guerre gli Habab e i Beni-Amer, i quali sono operosi, vivono agiatamente. La miseria universale nei Bogos, nei Mensa, nell’Hamasen, nel Tigrè, nel Sambar deve dunque essere effetto di altre cagioni più potenti e più intime: quelle che ho detto. (p. 39)
Ma noi siamo bugiardi: non è vero che speriamo diffondere la civiltà in Abissinia. […] Non si tratta di tribù selvagge e idolatre, bensì di un popolo cristiano da secoli, la cui compagine politica è secolare, nel cui paese, per secoli, conquistatori e viaggiatori tentarono imprimere tracce dell’incivilimento europeo; quel popolo non ne volle sapere: le sue capanne sono ancora quelle de’ tempi biblici, i suoi costumi presenti furono quelli conosciuti da Erodoto. Noi figuriamo di voler porre un termine alle guerre fratricide che spezzarono in quelle regioni ogni molla dell’operosità umana, e arroliamo ogni giorno e paghiamo Abissini perché si sgozzino con Abissini. Eh! Via; replicate a noi malinconici che in Europa stiamo troppo pigiati, che in Etiopia vi sono tre o quattro abitanti per ogni chilometro quadrato, che oramai le conquiste coloniali sono un’empia necessità; ma non parlate di incivilimento. Chi dice che s’ha da incivilire l’Etiopia dice una bugia o una sciocchezza. Bisogna sostituire razza a razza: o questo o niente. […] All’opera nostra l’indigeno è un impiccio; ci toccherà dunque volenti o nolenti rincorrerlo, aiutarlo a sparire, come altrove le Pelli Rosse, con tutti i mezzi che la civiltà, odiata da lui per istinto, fornisce: il cannone intermittente e l’acquavite diuturna. È triste a dirsi, ma pur troppo abbiamo cominciato, le generazioni avvenire seguiteranno a spopolare l’Affrica dai suoi abitatori antichi, fino al penultimo. L’ultimo no: l’ultimo lo addestreremo in collegio a lodarci in musica dell’avere, distruggendo i negri, trovato finalmente il modo di abolire la tratta. (pp. 43-44)
Se fosse vero che le cure adoperate nel costruire la casa, nel mantenerla netta e salubre, sono altrettante prove del grado di civiltà a cui un popolo è giunto, indizi della sua maggiore o minore elevatezza morale; se proprio ciò fosse vero, bisognerebbe dire che gli Abissini stanno nella scala degli esseri umani sotto a’ selvaggi medesimi". (p. 70)
Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi, diario di viaggio in un territorio mai prima attraversato, è scritto con leggerezza, godibilissimo alla lettura. Martini vi si lascia andare e viene fuori quello che pensa davvero delle persone e dei popoli di cui si sarebbe poi occupato come amministratore. Il fatto che non si sia preoccupato di censurare il proprio pensiero ci dice quanto razzismo ci fosse nell’establishment post-risorgimentale laico italiano fra Ottocento e Novecento.
Nota: le citazioni sono tratte dalla riedizione de Nell’Affrica italiana. Impressioni e ricordi, Treves, Milano 1896, curata dal Touring Club Italiano nel 1998.
Un buon 2020 a POL.it
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