E’ una notte di gennaio. Dell’11 gennaio per l’esattezza. In reparto ci sono 12 pazienti.
Il mio turno è appena cominciato.
Come d’abitudine sono arrivato in anticipo, e ho visto l’andirivieni degli infermieri che chiedevano alla collega di turno di “incontrare” i pazienti, o, meglio, si facevano portatori del desiderio dei pazienti di “incontrare” il medico di turno.
E’ sempre un evento quando un paziente ricoverato in acuto chiede di incontrare il medico.
Che senso ha, ora, qui, affrontare il tema dell’incontro nei frangenti della clinica degli stati psicopatologici, in un mondo, come quello attuale, dove la superficializzazione, la velocizzazione, la tecnicizzazione, la proceduralizzazione (PDTA, PT, PTI, guidelines, Protocolli) sembrano aver raggiunto il massimo grado del consenso tra gli operatori, fino anche all’idolatria di chi li percepisce come un’ottimo scudo difensivo? “Non ho fatto quello che ho deciso io di fare, ma quello che è previsto che io faccia. Dunque non sono responsabile, se non del grado di adeguamento al protocollo”. Questo sembra essere l’implicito che legittima l’adozione di procedure standardizzate. La procedura uniformata crea, infatti, una modalità impersonale di condotta, rassicurante anche se sacrificante delle esigenze del singolo e della libertà di scienza e coscienza dell’operatore. Ad ogni modo le esigenze di sicurezza, di standardizzazione, di uniformità finiscono per prevalere su tutto. A qualcosa, certo, bisogna rinunciare. Ma chi non è responsabile, ovvero chi non risponde di qualcosa, non si sente neppure interrogato da qualcosa. La procedure non ti interroga, la procedura dispone di un’esecuzione. La procedura trasforma operatore in un esecutore. E’ solo rispetto a questa esecuzione che io posso essere giudicato. Meno ci metto di personale, quindi, e più sono garantito. Questo sembra essere ormai lo stato dell’arte del nostro operare clinico, da esseri umani con altri esseri umani.
Tutto questo apparato, mirante ad “ottimizzare” e, soprattutto, ad informatizzare, la “gestione” delle varie fasi della clinica, nella medicina generale scientifica trova un’ulteriore corroborazione grazie all’iter diagnostico strumentale e di laboratorio, e grazie ad una faretra farmacologica quanto mai varia e ricca. Potremmo anche dire che l’inasprirsi della cosiddetta “medicina difensiva” ha ulteriormente reso necessaria, in questo ambito, la strutturazione di “algoritmi” diagnostico-terapeutici riconosciuti, convalidati, che togliessero d’imbarazzo il clinico il più possibile, e che facessero da schermo in caso di controversie legali.
Non voglio qui entrare sul senso della clinica in generale, rispetto alle patologia “organiche”, vorrei invece concentrarmi sulla dimensione cruciale dell’incontro con pazienti portatori di una sofferenza “psichica” latu sensu, ovvero quel tipo di sofferenza a tuttoggi, nonostante tutto, non obiettivabile secondo i parametri di una “medicina delle evidenze”.
Il punctum dolens cruciale dell’incontro nell’ambito della clinica degli stati psicopatologici è dovuto al fatto che, proprio dai “dati” colti e desunti durante l’incontro, e non da altro, dipendono sia la diagnosi che la terapia, o comunque il prosieguo della relazione terapeutica tra il clinico e il paziente. Cioè, in altri termini, dall’incontro dipende tutto. A volte dal singolo incontro, come è nelle situazioni cliniche acute.
Questo elemento, ovvero della centralità dell’incontro per la diagnosi e la terapia, sembra essere stato del tutto trascurato dalla formazione “ufficiale” degli psycho-clinici, psichiatri e psicologi, la quale fornisce loro forse sufficienti elementi neuroscientifici o tecnici relativi a diversi modelli di funzionamento della mente in rapporto all’encefalo, ma che sorvola a piè pari proprio sulla strutturazione dell’incontro. L’incontro tra due esseri umani, di cui per convenzione uno si denomina paziente e l’altro clinico, è tuttavia una summa di eccezioni e di imprevedibilità, che accadono sullo sfondo di un tessuto comune.
Questo tessuto comune vorrei tentare, qui, partendo da alcune situazioni cliniche acute, di descriverlo come la “carne viva” dell’incontro.
L’incontro “a mani nude”, o a corpo a corpo, cioè quello che non prevede, se non per caratterizzare una diagnosi differenziale con il fronte “organico” altri mezzi, di fatto, nella sua struttura processuale, è una mescolanza di elementi “atmosferici” e di elementi “eidetici”.
Per elementi atmosferici intendo, qui, aspetti squisitamente “estetici”, coglibili con una estensione metaforica dei sensi, ovvero il “gustativo”, il “tattile”, l’”olfattivo”. L’atmosfera generata da due esseri umani che si incontrano, e dal contesto dove essi si incontrano è un qualcosa che “si palpa”, o che si “tocca”, o che ti arriva “a pelle”, oppure è un qualcosa che si “annusa”, o un qualcosa che si “assapora” o si “sente”.
Quando utilizzo queste espressioni “sensoriali”, va chiarito che esse rimandano solo nominalmente alle vie specifiche di senso. Ovvero annusare, toccare, gustare un’atmosfera non hanno nulla a che vedere con le catene neuronali che partono dalle mucose olfattive, o dalle papille gustative, o dai corpuscoli del Pacini negli strati dell’epidermide e del derma, ma, cionondimeno, rappresentano prospettive immediate di conoscenza molto potenti (“dati immediati” di conoscenza). Queste modalità conoscitive si possono ricondurre ad un sentire patico, che affonda le sue radici nel nostro corpo vissuto, nel corpo-che-siamo, ovvero in quella estensione vibrata e partecipata del nostro essere che tiene accesa una continua relazione simpatetica con il mondo.
Un paziente di circa 56 anni, afferito in PS, ricoverato da un collega durante una notte, di aspetto macilento, presenta dei movimenti involontari del capo e del collo, spesso presenti quando egli parla del diavolo che lo possiede. Questi movimenti di rotazione e torsione con espressive grimaces facciali sono stati associati a movimenti coreoatetoidi. La valutazione neurologica, anche basata su neuroimaging, è negativa. Ciononostante gli è stata, durante un precedente ricovero in clinica psichiatrica universitaria, prescritta della tetrabenazina. L’impressione (atmosferica) è quella di una complessiva smorfia di disgusto. Si tratta, evidentemente, di stereotipie. Questo dato atmosferico, ovvero l’emozione di base del disgusto, si rivelerà molto utile nell’orientare il successivo percorso diagnostico e terapeutico. Ora la questione è la seguente: come sarebbe stato altrimenti desumibile questo elemento del disgusto se non con la modalità con cui è stato colto, ovvero l’impressione atmosferica? Si tratta di un qualcosa di non riducibile ad item di una scala, di non quantizzabile, eppure di qualitativamente apprezzabile e di grossa rilevanza semantica.
Gli aspetti eidetici fanno riferimento, invece, alla capacità di cogliere dettagli discreti. Sugli aspetti eidetici i sensi in gioco sono la vista e l’udito, sia nel senso di vista retinica, che di occhio interno di “avere occhio”, quindi sia nel senso di orecchio esterno, che di orecchio interno, nel senso di capacità e sensibilità di ascolto. Il termine eidetico deriva dal greco eidos e significa forma, immagine.
Dunque rispetto agli elementi atmosferici, che sono relativi ad una sorta di nube che avvolge, di “palla” nella quale si è calati, di spazialità affettivamente colorata o impregnata, gli elementi eidetici si riferiscono invece a dettagli discreti, in qualche modo di senso compiuto, anche se non di natura preminentemente concettuale.
Ma, ritornando all’incontro, noi chi incontriamo veramente quando incontriamo qualcuno? Siamo sicuri di incontrare il paziente in carne ed ossa? Vale a dire, tra chi accade l’incontro? L’incontro accade tra le due persone fisiche o piuttosto tra due figure a latere, trasposte, che si completano a mano a mano che l’incontro procede? Vorrei cercare di proporre qui questa rappresentazione della non coincidenza tra la persona fisica che abbiamo di fronte, come entità occupante spazio, e invece la dislocazione, rispetto allo spazio fisico occupato dal corpo dell’altro, del corpo vissuto dell’altro, e del nostro stesso corpo vissuto, che colmano la sfera di vuoto che apparentemente (visibilmente) ci sta dentro il setting dell’incontro.
Quello che sto cercando di dire è che mentre i nostri corpi-che-abbiamo assumono una posizione prossemica l’uno verso l’altro e di distanza, i corpi-che-siamo, invece, hanno già stabilito un contatto. Sono loro che regolano la distanza, sono loro che regolano il livello di interazione, è dalla loro interazione che arrivano informazioni di prima mano. E tutto questo avviene su un piano che precede il linguaggio, il pensiero, la riflessione. Ovvero tutto questo avviene su un piano implicito per tutti. Il compito di noi psy è quello di accendere, nei limiti del possibile, su di questo una consapevolezza e, fenomeno logicamente, una visibilità, entro certi limiti una governabilità ed una utilizzabilità conoscitiva ed operativa.
Credo che questo sia il punto cruciale. La semeiotica, in quanto scienza dei segni, ci fa incontrare ciò che il corpo produce all’esterno di sé, i segni significativi. Ad esempio che il paziente presenta dei movimenti involontari. Ma la decrittazione di suddetti movimenti in una direzione precisa di senso (il disgusto) è frutto di un lavoro implicito, che avviene, immediatamente, al di sotto della soglia di consapevolezza, al confine di contatto tra il nostro corpo-che-siamo e il corpo-che-è l’atro. La attribuzione di un nome è un fatto successivo, quasi di riconoscimento di un’esperienza, quella del disgusto, che l’esaminatore prova al cospetto diretto del paziente, e che fornisce un dato fondamentale per la costituzione successiva del mondo della vita del paziente.
La fenomenologia clinica ci dà le basi teoriche per comprendere tutto questo, per farcene una ragione, per rappresentarci che il nostro corpo vissuto, estensione della nostra “mente”, ci fa incontrare un altro corpo vissuto, o il corpo che il paziente è, il suo corpo vivente, attraverso la risonanza e la vibrazione e il coinvolgimento del nostro stesso corpo vivente. Il vantaggio del corpo-che-sono è che esso affonda e si muove in un orizzonte insaturo, preverbale, pretematico che è proprio del mondo-della-vita, e dunque attinge in questa dimensione informazioni essenziali, incontrovertibili, che hanno a che fare con il radicamento della persona nel suo proprio mondo-della-vita, disoccultano la sua verità. Ovviamente si tratta di elementi che vanno valorizzati, disoccultati, resi visibili e in questo gioca la formazione dell’operatore. L’operatore dunque realizza una conoscenza dell’altro su basi umane, e poi ne diventa consapevole, ossia la sottrae al capriccio della simpatia e dell’antipatia, dell’attrazione o della repulsione, attraverso un lavoro o un esercizio di consapevolezza.
Il disgusto non è solo un’emozione basica espressa dal paziente con la smorfia cervicofacciale. Egli è disgustoso in tutto il suo essere, con una patina seborroica sulla galea capitis, con il suo un atteggiamento sbilenco, con la sua trascuratezza fisica, egli dà proprio l’idea di un rottame, di un uomo consumato, che non si tiene più in piedi. Durante i suoi “accessi di possessione” il paziente urla. Urla dannatamente. Durante la notte egli vaga per il reparto, non rispondendo ai farmaci, terrorizzando gli altri pazienti e gli infermieri, con i bulbi oculari che fuoriescono dalle orbite scavate. E’ un paziente troppo iperespressivo per essere un paziente delirante cronico, è una sorta di icona del matto di sempre. Ora quest’uomo dichiara di essere posseduto da un demonio che si chiama Lucifero. Si tratta di un delirio? Secondo la superficializzazione del DSM 5, trattandosi di convinzione evidentemente erronea, si. Sta di fatto che questo “sintomo” non risponde ai farmaci antipsicotici. Come dobbiamo considerare questa non risposta ai farmaci antipsicotici sia di prima che di seconda generazione? Come un carattere non responder del soggetto o della sua patologia o, piuttosto, come un indicatore del fatto che non siamo di fronte ad un delirio?
E’ solo se assumiamo l’esistenza, o, meglio la materializzazione incarnata di questo corpo vivente, noi possiamo capire questa storia del “sentire a pelle”, dell’ “avere orecchio”, dell’ “avere occhio”. Ovvero di accorgersi della consistenza, del colore, del calore, dello spessore, della rigidità, della spigolosità, della rotondità, della morbidezza di certe esperienze.
Si pongono, qui le basi, di una clinica dell’invisibile, che mette fortemente in scacco la clinica delle procedure standardizzate. Infatti sto tratteggiando l’incontro tra due corpi-che-siamo che si sentono evidentemente l’un l’altro, ma che non si vedono o non si toccano materialmente. Ma, cionondimeno, si vedono e si toccano, quei due corpi vissuti, su un altro piano di sensibilità. Può una clinica dell’invisibile essere compatibile con gli item di una scala di valutazione (rating scale) o di un test psicodiagnostico?
Questa è una domanda impegnativa. Ma riguarda più la ricerca e il tentativo di “oggettivare” o di “validare” gli elementi, che l’esperienza dell’incontro. In realtà, al di là di una cristallizzazione o intrappolamento dei dati scaturiti da un incontro clinico, io vorrei soffermarmi ancora sull’incontro in carne ed ossa, quello vissuto a bordo letto, oppure in pronto soccorso, oppure a domicilio, o anche in uno studio o in un ambulatorio. Cioè sull’incontro “ad alzo zero”, costituito di carne viva, senziente, dolente, sperante, amante, angosciata, allucinante, delirante. In tutte quelle situazioni nelle quali il clinico deve, nel tempo ragionevole di un incontro, tirare fuori delle informazioni e, cosa ancora più importante, strutturare un’interazione con il paziente. Secondo me è cruciale prendere confidenza con queste peculiari modalità di contatto vitale con l’altro. Sarà compito di una ricerca qualitativa, poi, mettere a punto un dispositivo di intervista in grado di cristallizzare questi elementi di persé sfuggenti e invisibili.
Sono quasi le due della notte, adesso. Sono tornato dal PS. Fa freddo, il vento è gelido. In PS c’era un uomo in arresto cardiaco, in codice rosso. Il silenzio era tombale. Il team rianimatorio era intorno a lui. E un collega eseguiva senza sosta il massaggio cardiaco. In codice giallo, invece, ci aspettava il nostro paziente. Un uomo solo, divorato dall’angoscia: “Dottore vivo solo. Non ho nessuno. Mi sono svegliato all’improvviso, mi sono affacciato al balcone, ho visto tutte le luci delle case spente. Ho provato l’impulso di buttarmi giù. Stanotte non passa. Mi è salita l’angoscia. Non so come ho fatto, ho chiamato il 118. Non avevo nessuno che potesse farmi un’iniezione di calmante. Il cuore mi sbatte. Il cuore mi scoppia. Mi pare che si fermi da un momento all’altro, tanto che pulsa. Non mi faccia andare via. Mi tenga qui stanotte”. Penso, in quel momento, all’uomo che sta morendo nella stanza accanto. O, meglio, all’uomo che è morto, il cui cuore si è fermato, che stanno tentando di riportare alla vita. Di quale cuore si tratta? Evidentemente, come clinici, io e il collega ci stiamo occupando di cue cuori diversi. Lui del muscolo-pompa aspirante e premente, io del “cuore vissuto”. L’angoscia di quest’uomo, ad esempio, mi investe. Provo un senso di agitazione più mi avvicino a lui. Mentre ho contemplato, freddo, la scena della rianimazione della morte. Come se ormai non mi riguardasse più. Mi angoscia, invece, questo uomo vivo che ho di fronte. Parla con voce tremula, tutto il suo corpo è tremante. Ma è un altro corpo, questo qui, di fronte a quello dell’uomo che sta morendo. Questo è un corpo vissuto. Quello è un corpo morente, sul quale la vita sta sospesa. Questo qui è un corpo vissuto, intriso di angoscia, come una spugna d’acqua. Evidentemente il suo cuore non sta nel petto. Il suo cuore è la frizione con il mondo. Il suo cuore è la pulsazione della sua esistenza. E’ l’incarnazione della sua esistenza nel mondo. Il suo cuore aggancia il mio in questa fibrillazione panica. Mi riporta alla mia solitudine, alla mia paura di morire solo, alla mia angoscia di essere venuto al mondo. L’angoscia che provo è fisica. Tra di noi si nebulizza una vera angustia vitale. Ci incamminiamo, in silenzio, verso il reparto. Di là continua la rianimazione. I miei colleghi stanno scontrandosi con il suo corpo fisico. Io non ho potuto far relazionare neanche il tracciato cardiaco del mio paziente, perché il cardiologo è occupato nel tentativo di salvare all’altro la vita. E’ venuto, il mio paziente, già con la busta dei panni. Penso, tra me e me, che è tornato a casa. Che entrambi, questa notte, stiamo tornando ad un letto che ci attende e ad una casa dove c’è qualcuno. Mentre usciamo gettiamo l’ultimo sguardo alla scena rianimatoria. Ma il mio paziente è indifferente al mondo, è occupato solo dal suo cuore. E io dal “nostro cuore”.
Il vero punto della questione allora, posto che ognuno di noi in quanto essere umano è portato e vocato all’incontro con l’altro, che, di fatto, accade attraverso questo tipo di conoscenza immediata e incarnata, è il seguente : che tipo di formazione è opportuno che abbia il clinico per poter leggere, in questa maniera per l’appunto “incarnata” la partitura di un incontro vissuto?
Un musicologo o un enologo sono in grado di comprendere, ascoltando o assaggiando, la struttura di un testo musicale o di un vino. Ovvero sono in grado di ricostituire, approcciando il prodotto finale di un’arte, molto di quel fenomeno o di quell’esperienza. Non ci sono macchine o procedure standardizzate per arrivare a questo tipo di risultato conoscitivo. E’ chiaro che ci vuole una predisposizione, una vocazione, un piacere, e poi un esercizio organolettico. Ma il paragone ancora non tiene con la clinica dell’incontro interumano, poiché in musica, o in cucina, o in arte si tratta di processi sensoriali, raffinati culturalmente, ma sensoriali. Invece, nel nostro campo, quello dell’incontro con l’esperienza alterata, si tratta ricavare rapidamente, e più correttamente ed utilmente possibile, “dati” da esperienze squisitamente “immateriali”. Un altro passaggio concettuale necessario per comprendere questa clinica dell’incontro attraverso al nozione di corpo vissuto è lo spostamento del baricentro dell’esperienza. Secoli di filosofia e di psicologia hanno confinato l’idea di mente o di stati mentali al dentro il confine corporeo o del cranio, o del cervello stesso. Il petto, la pancia, il cuore, l’anima, gli stati d’animo, il pensiero e i suoi contenuti e così via sono stati da sempre collocati dentro.
Qui si tratta, inece, di mutare radicalmente la prospettiva. Ci troviamo di fronte ad un fuori. Il fenomeno che noi vogliamo conoscere è fuori di noi, e anche il nostro apparato conoscitivo “vivente” è fuori di noi. Se non fosse fuori di noi non potremmo utilizzarlo. Ciò che sto cercando di dire è che nell’incontro con il paziente ciò che noi abbiamo tematizzato come mente, non è collocato o confinato dentro il paziente, ma fuori, ovvero nello spazio vissuto tra di noi. Nell’incontro la mente del paziente e la nostra mente sono esternalizzate, interagiscono in una dimensione co-incarnata che è fuori, tra-incarnata, evaginata dai nostri due corpi fisici che mantengono la loro distanza. Forse questo è il colpo più duro che lo psicocentrismo encefalo-centrico deve subire. Il pregiudizio più duro da rimuovere soprattutto per noi psy.
Forse questa perdita della “testa” come punto di riferimento è un qualcosa che un pò ci detronizza. Eravamo abituati a concepirci come depositari o esperti della cosiddetta esperienza interna. Tanta letteratura nostra è piena di espressioni come “esperienza interna”, “confini dell’io”, “barriera dell’io” , “oggetti interni”…..
Tutto questo diverso concettualizzare il “fuori” come unico “dentro” possibile corrisponde alla formazione del nostro clinico? L’impressione è piuttosto che il nostro clinico venga lasciato a se stesso, alla propria autodidattica, o al proprio s-praticarsi, o all’avere un qualche maestro occasionale. Gli aspetti atmosferici sono, certo, più affidati alla “predisposizione” del clinico, alla sua ricettività generale, alla sua impressionabilità. Dalla sua corretta formazione dipende, tuttavia, la sua capacità di utilizzare in maniera significativa il portato dell’incontro.
Un uomo della strada con una pratica psichica ma senza una teoria legittimante. Spesso noi siamo questo. Ribadisco : noi siamo questo. Le impressioni di un tassista, di un salumiere, di un benzinaio, siglate dal un codice ICD o DSM. Nente di più. Mi dispiace dirlo, ma lo ribadisco : l’insistenza sulla proceduralizzazione e sull’etichettamento ha rivestito di (pseudo)scientificità “dati” che scaturiscono da “impressioni” non esercitate, con formate, non condivisibili, non educate, non innervate da un pensiero. E taccio sulle ricadute degli studi di coorte in cui i pazienti vengono reclutati a naso e formattati dai codici.
In questo momento, purtroppo, non me ne vogliano gli onorevoli colleghi universitari, ma l’Accademia, non sollevando questo problema cruciale, non dichiarando lo scandalo epistemologico (su cui molti curricula sono fondati) sta effettuando una operazione di tradimento e di svendita di quella psicopatologia generale e clinica che, da oltre un secolo, ci consente, invece, ben applicata, un certo grado di appropriatezza nella diagnosi e nella terapia.
Le diagnosi vengono sparate a lume di naso, a sensazione, alla rispondenza idio-patica e certi pattern o cluster più o meno costanti che presentano “gli schizofrenici”, “i bipolari”, “i borderline”, “gli ansiosi”, “i depressi”.
Tutto qui? Possibile che tanta approssimazione, che è l’altra faccia della standardizzazione, non possa essere in qualche mondo strutturata in maniera più rigorosa, con una metodologia, certo, non proprio usuale nelle scienze esatte, ma non per questo meno scientifica?
Lascio qui questo mio appello, come un tracciante fosforescente e sottile nel cielo di questa notte senza stelle, nella speranza che qualcuno raccolga, e che i traccianti si moltiplichino, per svelare, semplicemente, che “il re è nudo”, e che, del pari, solo “nudi”, benché clinici, si va alla carne viva dell’incontro con l’altro.
Il mio turno è appena cominciato.
Come d’abitudine sono arrivato in anticipo, e ho visto l’andirivieni degli infermieri che chiedevano alla collega di turno di “incontrare” i pazienti, o, meglio, si facevano portatori del desiderio dei pazienti di “incontrare” il medico di turno.
E’ sempre un evento quando un paziente ricoverato in acuto chiede di incontrare il medico.
Che senso ha, ora, qui, affrontare il tema dell’incontro nei frangenti della clinica degli stati psicopatologici, in un mondo, come quello attuale, dove la superficializzazione, la velocizzazione, la tecnicizzazione, la proceduralizzazione (PDTA, PT, PTI, guidelines, Protocolli) sembrano aver raggiunto il massimo grado del consenso tra gli operatori, fino anche all’idolatria di chi li percepisce come un’ottimo scudo difensivo? “Non ho fatto quello che ho deciso io di fare, ma quello che è previsto che io faccia. Dunque non sono responsabile, se non del grado di adeguamento al protocollo”. Questo sembra essere l’implicito che legittima l’adozione di procedure standardizzate. La procedura uniformata crea, infatti, una modalità impersonale di condotta, rassicurante anche se sacrificante delle esigenze del singolo e della libertà di scienza e coscienza dell’operatore. Ad ogni modo le esigenze di sicurezza, di standardizzazione, di uniformità finiscono per prevalere su tutto. A qualcosa, certo, bisogna rinunciare. Ma chi non è responsabile, ovvero chi non risponde di qualcosa, non si sente neppure interrogato da qualcosa. La procedure non ti interroga, la procedura dispone di un’esecuzione. La procedura trasforma operatore in un esecutore. E’ solo rispetto a questa esecuzione che io posso essere giudicato. Meno ci metto di personale, quindi, e più sono garantito. Questo sembra essere ormai lo stato dell’arte del nostro operare clinico, da esseri umani con altri esseri umani.
Tutto questo apparato, mirante ad “ottimizzare” e, soprattutto, ad informatizzare, la “gestione” delle varie fasi della clinica, nella medicina generale scientifica trova un’ulteriore corroborazione grazie all’iter diagnostico strumentale e di laboratorio, e grazie ad una faretra farmacologica quanto mai varia e ricca. Potremmo anche dire che l’inasprirsi della cosiddetta “medicina difensiva” ha ulteriormente reso necessaria, in questo ambito, la strutturazione di “algoritmi” diagnostico-terapeutici riconosciuti, convalidati, che togliessero d’imbarazzo il clinico il più possibile, e che facessero da schermo in caso di controversie legali.
Non voglio qui entrare sul senso della clinica in generale, rispetto alle patologia “organiche”, vorrei invece concentrarmi sulla dimensione cruciale dell’incontro con pazienti portatori di una sofferenza “psichica” latu sensu, ovvero quel tipo di sofferenza a tuttoggi, nonostante tutto, non obiettivabile secondo i parametri di una “medicina delle evidenze”.
Il punctum dolens cruciale dell’incontro nell’ambito della clinica degli stati psicopatologici è dovuto al fatto che, proprio dai “dati” colti e desunti durante l’incontro, e non da altro, dipendono sia la diagnosi che la terapia, o comunque il prosieguo della relazione terapeutica tra il clinico e il paziente. Cioè, in altri termini, dall’incontro dipende tutto. A volte dal singolo incontro, come è nelle situazioni cliniche acute.
Questo elemento, ovvero della centralità dell’incontro per la diagnosi e la terapia, sembra essere stato del tutto trascurato dalla formazione “ufficiale” degli psycho-clinici, psichiatri e psicologi, la quale fornisce loro forse sufficienti elementi neuroscientifici o tecnici relativi a diversi modelli di funzionamento della mente in rapporto all’encefalo, ma che sorvola a piè pari proprio sulla strutturazione dell’incontro. L’incontro tra due esseri umani, di cui per convenzione uno si denomina paziente e l’altro clinico, è tuttavia una summa di eccezioni e di imprevedibilità, che accadono sullo sfondo di un tessuto comune.
Questo tessuto comune vorrei tentare, qui, partendo da alcune situazioni cliniche acute, di descriverlo come la “carne viva” dell’incontro.
L’incontro “a mani nude”, o a corpo a corpo, cioè quello che non prevede, se non per caratterizzare una diagnosi differenziale con il fronte “organico” altri mezzi, di fatto, nella sua struttura processuale, è una mescolanza di elementi “atmosferici” e di elementi “eidetici”.
Per elementi atmosferici intendo, qui, aspetti squisitamente “estetici”, coglibili con una estensione metaforica dei sensi, ovvero il “gustativo”, il “tattile”, l’”olfattivo”. L’atmosfera generata da due esseri umani che si incontrano, e dal contesto dove essi si incontrano è un qualcosa che “si palpa”, o che si “tocca”, o che ti arriva “a pelle”, oppure è un qualcosa che si “annusa”, o un qualcosa che si “assapora” o si “sente”.
Quando utilizzo queste espressioni “sensoriali”, va chiarito che esse rimandano solo nominalmente alle vie specifiche di senso. Ovvero annusare, toccare, gustare un’atmosfera non hanno nulla a che vedere con le catene neuronali che partono dalle mucose olfattive, o dalle papille gustative, o dai corpuscoli del Pacini negli strati dell’epidermide e del derma, ma, cionondimeno, rappresentano prospettive immediate di conoscenza molto potenti (“dati immediati” di conoscenza). Queste modalità conoscitive si possono ricondurre ad un sentire patico, che affonda le sue radici nel nostro corpo vissuto, nel corpo-che-siamo, ovvero in quella estensione vibrata e partecipata del nostro essere che tiene accesa una continua relazione simpatetica con il mondo.
Un paziente di circa 56 anni, afferito in PS, ricoverato da un collega durante una notte, di aspetto macilento, presenta dei movimenti involontari del capo e del collo, spesso presenti quando egli parla del diavolo che lo possiede. Questi movimenti di rotazione e torsione con espressive grimaces facciali sono stati associati a movimenti coreoatetoidi. La valutazione neurologica, anche basata su neuroimaging, è negativa. Ciononostante gli è stata, durante un precedente ricovero in clinica psichiatrica universitaria, prescritta della tetrabenazina. L’impressione (atmosferica) è quella di una complessiva smorfia di disgusto. Si tratta, evidentemente, di stereotipie. Questo dato atmosferico, ovvero l’emozione di base del disgusto, si rivelerà molto utile nell’orientare il successivo percorso diagnostico e terapeutico. Ora la questione è la seguente: come sarebbe stato altrimenti desumibile questo elemento del disgusto se non con la modalità con cui è stato colto, ovvero l’impressione atmosferica? Si tratta di un qualcosa di non riducibile ad item di una scala, di non quantizzabile, eppure di qualitativamente apprezzabile e di grossa rilevanza semantica.
Gli aspetti eidetici fanno riferimento, invece, alla capacità di cogliere dettagli discreti. Sugli aspetti eidetici i sensi in gioco sono la vista e l’udito, sia nel senso di vista retinica, che di occhio interno di “avere occhio”, quindi sia nel senso di orecchio esterno, che di orecchio interno, nel senso di capacità e sensibilità di ascolto. Il termine eidetico deriva dal greco eidos e significa forma, immagine.
Dunque rispetto agli elementi atmosferici, che sono relativi ad una sorta di nube che avvolge, di “palla” nella quale si è calati, di spazialità affettivamente colorata o impregnata, gli elementi eidetici si riferiscono invece a dettagli discreti, in qualche modo di senso compiuto, anche se non di natura preminentemente concettuale.
Ma, ritornando all’incontro, noi chi incontriamo veramente quando incontriamo qualcuno? Siamo sicuri di incontrare il paziente in carne ed ossa? Vale a dire, tra chi accade l’incontro? L’incontro accade tra le due persone fisiche o piuttosto tra due figure a latere, trasposte, che si completano a mano a mano che l’incontro procede? Vorrei cercare di proporre qui questa rappresentazione della non coincidenza tra la persona fisica che abbiamo di fronte, come entità occupante spazio, e invece la dislocazione, rispetto allo spazio fisico occupato dal corpo dell’altro, del corpo vissuto dell’altro, e del nostro stesso corpo vissuto, che colmano la sfera di vuoto che apparentemente (visibilmente) ci sta dentro il setting dell’incontro.
Quello che sto cercando di dire è che mentre i nostri corpi-che-abbiamo assumono una posizione prossemica l’uno verso l’altro e di distanza, i corpi-che-siamo, invece, hanno già stabilito un contatto. Sono loro che regolano la distanza, sono loro che regolano il livello di interazione, è dalla loro interazione che arrivano informazioni di prima mano. E tutto questo avviene su un piano che precede il linguaggio, il pensiero, la riflessione. Ovvero tutto questo avviene su un piano implicito per tutti. Il compito di noi psy è quello di accendere, nei limiti del possibile, su di questo una consapevolezza e, fenomeno logicamente, una visibilità, entro certi limiti una governabilità ed una utilizzabilità conoscitiva ed operativa.
Credo che questo sia il punto cruciale. La semeiotica, in quanto scienza dei segni, ci fa incontrare ciò che il corpo produce all’esterno di sé, i segni significativi. Ad esempio che il paziente presenta dei movimenti involontari. Ma la decrittazione di suddetti movimenti in una direzione precisa di senso (il disgusto) è frutto di un lavoro implicito, che avviene, immediatamente, al di sotto della soglia di consapevolezza, al confine di contatto tra il nostro corpo-che-siamo e il corpo-che-è l’atro. La attribuzione di un nome è un fatto successivo, quasi di riconoscimento di un’esperienza, quella del disgusto, che l’esaminatore prova al cospetto diretto del paziente, e che fornisce un dato fondamentale per la costituzione successiva del mondo della vita del paziente.
La fenomenologia clinica ci dà le basi teoriche per comprendere tutto questo, per farcene una ragione, per rappresentarci che il nostro corpo vissuto, estensione della nostra “mente”, ci fa incontrare un altro corpo vissuto, o il corpo che il paziente è, il suo corpo vivente, attraverso la risonanza e la vibrazione e il coinvolgimento del nostro stesso corpo vivente. Il vantaggio del corpo-che-sono è che esso affonda e si muove in un orizzonte insaturo, preverbale, pretematico che è proprio del mondo-della-vita, e dunque attinge in questa dimensione informazioni essenziali, incontrovertibili, che hanno a che fare con il radicamento della persona nel suo proprio mondo-della-vita, disoccultano la sua verità. Ovviamente si tratta di elementi che vanno valorizzati, disoccultati, resi visibili e in questo gioca la formazione dell’operatore. L’operatore dunque realizza una conoscenza dell’altro su basi umane, e poi ne diventa consapevole, ossia la sottrae al capriccio della simpatia e dell’antipatia, dell’attrazione o della repulsione, attraverso un lavoro o un esercizio di consapevolezza.
Il disgusto non è solo un’emozione basica espressa dal paziente con la smorfia cervicofacciale. Egli è disgustoso in tutto il suo essere, con una patina seborroica sulla galea capitis, con il suo un atteggiamento sbilenco, con la sua trascuratezza fisica, egli dà proprio l’idea di un rottame, di un uomo consumato, che non si tiene più in piedi. Durante i suoi “accessi di possessione” il paziente urla. Urla dannatamente. Durante la notte egli vaga per il reparto, non rispondendo ai farmaci, terrorizzando gli altri pazienti e gli infermieri, con i bulbi oculari che fuoriescono dalle orbite scavate. E’ un paziente troppo iperespressivo per essere un paziente delirante cronico, è una sorta di icona del matto di sempre. Ora quest’uomo dichiara di essere posseduto da un demonio che si chiama Lucifero. Si tratta di un delirio? Secondo la superficializzazione del DSM 5, trattandosi di convinzione evidentemente erronea, si. Sta di fatto che questo “sintomo” non risponde ai farmaci antipsicotici. Come dobbiamo considerare questa non risposta ai farmaci antipsicotici sia di prima che di seconda generazione? Come un carattere non responder del soggetto o della sua patologia o, piuttosto, come un indicatore del fatto che non siamo di fronte ad un delirio?
E’ solo se assumiamo l’esistenza, o, meglio la materializzazione incarnata di questo corpo vivente, noi possiamo capire questa storia del “sentire a pelle”, dell’ “avere orecchio”, dell’ “avere occhio”. Ovvero di accorgersi della consistenza, del colore, del calore, dello spessore, della rigidità, della spigolosità, della rotondità, della morbidezza di certe esperienze.
Si pongono, qui le basi, di una clinica dell’invisibile, che mette fortemente in scacco la clinica delle procedure standardizzate. Infatti sto tratteggiando l’incontro tra due corpi-che-siamo che si sentono evidentemente l’un l’altro, ma che non si vedono o non si toccano materialmente. Ma, cionondimeno, si vedono e si toccano, quei due corpi vissuti, su un altro piano di sensibilità. Può una clinica dell’invisibile essere compatibile con gli item di una scala di valutazione (rating scale) o di un test psicodiagnostico?
Questa è una domanda impegnativa. Ma riguarda più la ricerca e il tentativo di “oggettivare” o di “validare” gli elementi, che l’esperienza dell’incontro. In realtà, al di là di una cristallizzazione o intrappolamento dei dati scaturiti da un incontro clinico, io vorrei soffermarmi ancora sull’incontro in carne ed ossa, quello vissuto a bordo letto, oppure in pronto soccorso, oppure a domicilio, o anche in uno studio o in un ambulatorio. Cioè sull’incontro “ad alzo zero”, costituito di carne viva, senziente, dolente, sperante, amante, angosciata, allucinante, delirante. In tutte quelle situazioni nelle quali il clinico deve, nel tempo ragionevole di un incontro, tirare fuori delle informazioni e, cosa ancora più importante, strutturare un’interazione con il paziente. Secondo me è cruciale prendere confidenza con queste peculiari modalità di contatto vitale con l’altro. Sarà compito di una ricerca qualitativa, poi, mettere a punto un dispositivo di intervista in grado di cristallizzare questi elementi di persé sfuggenti e invisibili.
Sono quasi le due della notte, adesso. Sono tornato dal PS. Fa freddo, il vento è gelido. In PS c’era un uomo in arresto cardiaco, in codice rosso. Il silenzio era tombale. Il team rianimatorio era intorno a lui. E un collega eseguiva senza sosta il massaggio cardiaco. In codice giallo, invece, ci aspettava il nostro paziente. Un uomo solo, divorato dall’angoscia: “Dottore vivo solo. Non ho nessuno. Mi sono svegliato all’improvviso, mi sono affacciato al balcone, ho visto tutte le luci delle case spente. Ho provato l’impulso di buttarmi giù. Stanotte non passa. Mi è salita l’angoscia. Non so come ho fatto, ho chiamato il 118. Non avevo nessuno che potesse farmi un’iniezione di calmante. Il cuore mi sbatte. Il cuore mi scoppia. Mi pare che si fermi da un momento all’altro, tanto che pulsa. Non mi faccia andare via. Mi tenga qui stanotte”. Penso, in quel momento, all’uomo che sta morendo nella stanza accanto. O, meglio, all’uomo che è morto, il cui cuore si è fermato, che stanno tentando di riportare alla vita. Di quale cuore si tratta? Evidentemente, come clinici, io e il collega ci stiamo occupando di cue cuori diversi. Lui del muscolo-pompa aspirante e premente, io del “cuore vissuto”. L’angoscia di quest’uomo, ad esempio, mi investe. Provo un senso di agitazione più mi avvicino a lui. Mentre ho contemplato, freddo, la scena della rianimazione della morte. Come se ormai non mi riguardasse più. Mi angoscia, invece, questo uomo vivo che ho di fronte. Parla con voce tremula, tutto il suo corpo è tremante. Ma è un altro corpo, questo qui, di fronte a quello dell’uomo che sta morendo. Questo è un corpo vissuto. Quello è un corpo morente, sul quale la vita sta sospesa. Questo qui è un corpo vissuto, intriso di angoscia, come una spugna d’acqua. Evidentemente il suo cuore non sta nel petto. Il suo cuore è la frizione con il mondo. Il suo cuore è la pulsazione della sua esistenza. E’ l’incarnazione della sua esistenza nel mondo. Il suo cuore aggancia il mio in questa fibrillazione panica. Mi riporta alla mia solitudine, alla mia paura di morire solo, alla mia angoscia di essere venuto al mondo. L’angoscia che provo è fisica. Tra di noi si nebulizza una vera angustia vitale. Ci incamminiamo, in silenzio, verso il reparto. Di là continua la rianimazione. I miei colleghi stanno scontrandosi con il suo corpo fisico. Io non ho potuto far relazionare neanche il tracciato cardiaco del mio paziente, perché il cardiologo è occupato nel tentativo di salvare all’altro la vita. E’ venuto, il mio paziente, già con la busta dei panni. Penso, tra me e me, che è tornato a casa. Che entrambi, questa notte, stiamo tornando ad un letto che ci attende e ad una casa dove c’è qualcuno. Mentre usciamo gettiamo l’ultimo sguardo alla scena rianimatoria. Ma il mio paziente è indifferente al mondo, è occupato solo dal suo cuore. E io dal “nostro cuore”.
Il vero punto della questione allora, posto che ognuno di noi in quanto essere umano è portato e vocato all’incontro con l’altro, che, di fatto, accade attraverso questo tipo di conoscenza immediata e incarnata, è il seguente : che tipo di formazione è opportuno che abbia il clinico per poter leggere, in questa maniera per l’appunto “incarnata” la partitura di un incontro vissuto?
Un musicologo o un enologo sono in grado di comprendere, ascoltando o assaggiando, la struttura di un testo musicale o di un vino. Ovvero sono in grado di ricostituire, approcciando il prodotto finale di un’arte, molto di quel fenomeno o di quell’esperienza. Non ci sono macchine o procedure standardizzate per arrivare a questo tipo di risultato conoscitivo. E’ chiaro che ci vuole una predisposizione, una vocazione, un piacere, e poi un esercizio organolettico. Ma il paragone ancora non tiene con la clinica dell’incontro interumano, poiché in musica, o in cucina, o in arte si tratta di processi sensoriali, raffinati culturalmente, ma sensoriali. Invece, nel nostro campo, quello dell’incontro con l’esperienza alterata, si tratta ricavare rapidamente, e più correttamente ed utilmente possibile, “dati” da esperienze squisitamente “immateriali”. Un altro passaggio concettuale necessario per comprendere questa clinica dell’incontro attraverso al nozione di corpo vissuto è lo spostamento del baricentro dell’esperienza. Secoli di filosofia e di psicologia hanno confinato l’idea di mente o di stati mentali al dentro il confine corporeo o del cranio, o del cervello stesso. Il petto, la pancia, il cuore, l’anima, gli stati d’animo, il pensiero e i suoi contenuti e così via sono stati da sempre collocati dentro.
Qui si tratta, inece, di mutare radicalmente la prospettiva. Ci troviamo di fronte ad un fuori. Il fenomeno che noi vogliamo conoscere è fuori di noi, e anche il nostro apparato conoscitivo “vivente” è fuori di noi. Se non fosse fuori di noi non potremmo utilizzarlo. Ciò che sto cercando di dire è che nell’incontro con il paziente ciò che noi abbiamo tematizzato come mente, non è collocato o confinato dentro il paziente, ma fuori, ovvero nello spazio vissuto tra di noi. Nell’incontro la mente del paziente e la nostra mente sono esternalizzate, interagiscono in una dimensione co-incarnata che è fuori, tra-incarnata, evaginata dai nostri due corpi fisici che mantengono la loro distanza. Forse questo è il colpo più duro che lo psicocentrismo encefalo-centrico deve subire. Il pregiudizio più duro da rimuovere soprattutto per noi psy.
Forse questa perdita della “testa” come punto di riferimento è un qualcosa che un pò ci detronizza. Eravamo abituati a concepirci come depositari o esperti della cosiddetta esperienza interna. Tanta letteratura nostra è piena di espressioni come “esperienza interna”, “confini dell’io”, “barriera dell’io” , “oggetti interni”…..
Tutto questo diverso concettualizzare il “fuori” come unico “dentro” possibile corrisponde alla formazione del nostro clinico? L’impressione è piuttosto che il nostro clinico venga lasciato a se stesso, alla propria autodidattica, o al proprio s-praticarsi, o all’avere un qualche maestro occasionale. Gli aspetti atmosferici sono, certo, più affidati alla “predisposizione” del clinico, alla sua ricettività generale, alla sua impressionabilità. Dalla sua corretta formazione dipende, tuttavia, la sua capacità di utilizzare in maniera significativa il portato dell’incontro.
Un uomo della strada con una pratica psichica ma senza una teoria legittimante. Spesso noi siamo questo. Ribadisco : noi siamo questo. Le impressioni di un tassista, di un salumiere, di un benzinaio, siglate dal un codice ICD o DSM. Nente di più. Mi dispiace dirlo, ma lo ribadisco : l’insistenza sulla proceduralizzazione e sull’etichettamento ha rivestito di (pseudo)scientificità “dati” che scaturiscono da “impressioni” non esercitate, con formate, non condivisibili, non educate, non innervate da un pensiero. E taccio sulle ricadute degli studi di coorte in cui i pazienti vengono reclutati a naso e formattati dai codici.
In questo momento, purtroppo, non me ne vogliano gli onorevoli colleghi universitari, ma l’Accademia, non sollevando questo problema cruciale, non dichiarando lo scandalo epistemologico (su cui molti curricula sono fondati) sta effettuando una operazione di tradimento e di svendita di quella psicopatologia generale e clinica che, da oltre un secolo, ci consente, invece, ben applicata, un certo grado di appropriatezza nella diagnosi e nella terapia.
Le diagnosi vengono sparate a lume di naso, a sensazione, alla rispondenza idio-patica e certi pattern o cluster più o meno costanti che presentano “gli schizofrenici”, “i bipolari”, “i borderline”, “gli ansiosi”, “i depressi”.
Tutto qui? Possibile che tanta approssimazione, che è l’altra faccia della standardizzazione, non possa essere in qualche mondo strutturata in maniera più rigorosa, con una metodologia, certo, non proprio usuale nelle scienze esatte, ma non per questo meno scientifica?
Lascio qui questo mio appello, come un tracciante fosforescente e sottile nel cielo di questa notte senza stelle, nella speranza che qualcuno raccolga, e che i traccianti si moltiplichino, per svelare, semplicemente, che “il re è nudo”, e che, del pari, solo “nudi”, benché clinici, si va alla carne viva dell’incontro con l’altro.
Caro Gilberto,
“vengo con
Caro Gilberto,
“vengo con questa a dirvi”. Ho voluto iniziare proprio con questo enunciato perché mi piaceva, perché mi riporta alla leggerezza che solo le battute di Antonio De Curtis (in arte Totò) sanno esprimere, con però l’innata consapevolezza di colpire nel profondo sia del colto che di quello che arranca.
Ho ripreso il tuo invito, mi sono messo a leggere qualche romanzo in più. Condivido con te che la scrittura è una cosa seria e deve dell’immaginario esserne ricca. Chi scrive si deve impegnare intenzionalmente affinché le immagini siano, attraverso le parole, aperte a ventaglio. La mano-vista del lettore deve poter agitare il ventaglio e lasciar che il vento lo raggiunga per rinfrescarlo, sperando che non lo adoperi come orpello che copra il volto.
Forse i romanzi, proprio per la forma con cui ci vengono presentati, riescono a restituire al contenuto quel giusto tono; inoltre, riescono a lasciare aperto il discorso, proprio perché non mettono il punto, come direbbe Adorno.
Sono sempre affascinato dai racconti dei nostri pazienti, contenuti avvolti nella forma che li caratterizza, ed è proprio questa forma che dona l’atmosfera all’incontro, che talvolta raccoglie e talaltra lascia che sfugga, all’occhio poco attento, l’essenza del contenuto. Dare forma? È questo il compito che ci prefiggiamo? Domande che quantomeno dovrebbero sempre accompagnarci nel nostro quotidiano operare. È utile sia a noi che ai nostri pazienti, che il contenuto si renda manifesto. Un buon contenuto, ed ora prendo in prestito le tue parole, senza una corretta forma finisce per perdersi: come mettere un litro di latte in un coppo di foglio di giornale, oppure avvolgere della carne fresca con carta igienica.
Ebbene ho appena terminato di leggere, tutto di un fiato, “La cura Schopenhauer” di Irvin Yalom. Non so se ti sorprenderà, ma in me ha sortito questo effetto, soprattutto dopo averlo anche letto. Nell’ultima seduta, un nostro comune paziente, ha estratto dallo zaino questo volume, sulla copertina il volto del filosofo Schopenhauer, dicendomi: questo l’ho preso per te.
Ti rammento di chi sto parlando, quello che è disforico quando non è assuefatto dal tetracannabinolo; quell’uomo che dal primo momento mi è apparso puro contenuto senza forma, che cercava di compiacere l’altro che di fronte aveva, che accettava passivamente di essere quello che l’altro gli suggeriva di essere.
Non dimenticherò mai il primo incontro, arrivò strafatto, con in mano una busta di plastica, di un azzurrino spento, di quelle che il salumiere ci dà per raccogliere le cose che abbiamo acquistato, con dentro le sue cose: chiavi, occhiali, una rivista ecc. Con il suo raccontare fatto di premesse, parentesi, introduzioni, che attendeva desideroso una nuova definizione in cui rifugiarsi. L’unica cosa che vedovo era una busta che poteva raccogliere qualsiasi cosa.
L’idea che si imponeva sulle altre, quando lo attenzionavo nel qui ed ora, mettendo tutto tra parentesi, si condensa attorno al: come se cercasse affannosamente di poter apparire come quello oltre e di là dal mondo, che non riusciva a scavalcare il muro per gettarsi, e nemmeno era lì sul ciglio. Vedevo il continuo e ripetuto sbattere contro il muro. In fondo come tu sostieni: “[…]nell’incontro con il paziente ciò che noi abbiamo tematizzato come mente, non è collocato o confinato dentro il paziente, ma fuori, ovvero nello spazio vissuto tra di noi.”
Il periodo che è stato lontano dalle canne, qualche mese, ha lasciato emergere un’estrema irrequietezza, una parvente componente ipertimica; il litio prescrittogli non lo aveva voluto iniziare a prendere. È ritornato a fumare, in maniera meno intensa, dalle circa 20 canne al giorno è arrivato ad una decina.
Ora da poco più di una settimana non sta fumando. C’è un pensiero che mi accompagna mentre scrivo, cioè: è trascorso qualche anno di psicoterapia, senza che lui abbia mai ottenuto, anche quando bramava, nessuna indicazione su chi essere.
Proprio ora mi porta quel meraviglioso romanzo che ti dicevo prima, che talaltro aveva letto circa cinque anni fa, quando era ricoverato a Milano per disassuefarsi: riuscendoci. Le cose, come sai, cambiarono e giunse, dopo qualche tempo, a tentare il suicidio iniettandosi promazina in vena. Consegnò l’ultimo saluto ad un post su Facebook, ed il caso volle che fosse letto da un’amica di famiglia in Sud Africa; questa avvisò la famiglia che allertò i vicini di casa: lo salvarono.
Non ricorda bene il contenuto del romanzo, qualcosa però lo spinge verso quel testo; quando lo rivede in libreria, non ci pensa due volte, lo prende per portarlo in psicoterapia, allo psicoterapeuta, come dono, come rivelazione: questo è il momento in cui la busta azzurrina assume le sembianze di un contenitore di parole, un libro. Mi ritrovo, a questo punto, sul fatto che: “[…] mentre i nostri corpi-che-abbiamo assumono una posizione prossemica l’uno verso l’altro e di distanza, i corpi-che-siamo, invece, hanno già stabilito un contatto.”
Il titolo mi ha da subito colpito, ed anche il suo inizio: “Julius conosceva bene le prediche sulla vita e sulla morte, come le conosce ogni uomo”. Intrigante l’intreccio: la vita del terapeuta giunto alla consapevolezza che gli resta un anno buono da vivere a causa di un melanoma; la storia vissuta di Arthur Schopenhauer, l’uomo di Danzica con il nome inglese. Tutto si dispiega nei momenti di intenso coinvolgimento emotivo che accadono nei vari “qui ed ora” di ogni singola seduta di psicoterapia di gruppo.
Che dirti leggerò altro di Irvin Yalom. Mi ha fatto sentire da subito nel viaggio che aveva abilmente costruito nella cornice del romanzo. Restituisce quelle vesti umane allo psicoterapeuta da sempre glacialmente stereotipato dietro le ormai desuete pipe e occhialini di freudiana memoria. Uno psicoterapeuta colpito da quello di cui i pazienti che quotidianamente incontro in oncologia parlano, senza mai nominarlo.
Julius è il nome dello psicoterapeuta gettato dalla spietata diagnosi nell’imminente prossimità della morte, che si volta indietro a vedere quello che è rimasto irrisolto, mettendosi a cercare in quello in cui da sempre si è sentito vocato, nel mondo dei suoi pazienti.
Philip è il caso irrisolto, che tre anni di incontri settimanali non sono riusciti ad incidere minimamente sulla compulsione sessuale, senza che si sia potuta scalfire l’insistente ricerca di piacere intenso senza coinvolgimenti. Ricercato e ritrovato guarito dall’incontro con i testi di Schopenhauer, o meglio così crede, si sente in diritto di suggerire allo stesso terapeuta di farlo, come unica cura all’incombente fine che lo attende. Viene nelle pagine del testo riportato nel presente del terapeuta e dei suoi incontri di psicoterapia di gruppo.
Altri personaggi accompagnano la narrazione, ma quelli che assumono un ruolo rilevante sono tutti i membri delle sedute di gruppo, oltre Philip, come: Tony, la gemma grezza; Pam, la donna alla ricerca dell’equanimità di orientale ispirazione; Gill, che vela il proprio alcolismo dietro alle incomprensioni coniugali che ne sono la conseguenza; Rebecca, la bella; Bonnie, la brutta; Stuart, alla ricerca della prossimità empatica.
Il gruppo per Julius diviene la zattera che lo conduce all’estremo opposto della nascita, nel punto preciso in cui vita e morte si incontrano, i personaggi elencati sono i traghettatori; il gruppo diviene terapeutico per il terapeuta stesso. Allo stesso tempo il terapeuta incarna e rende manifesto, in maniera essenziale, il mandato dell’Io-Tu di Buber. L’incursione del vissuto del terapeuta innesta un moto facilitatore alla rivelazione dei pazienti stessi, che spogliati e messi a nudo si ritrovano più prossimi alle proprie autenticità.
Sai Gilberto tutto questo moto rappresentato nelle dinamiche di gruppo descritte, sembra ricalcare non in maniera identica ma alquanto prossimo a quello dei gruppi di gruppoanalisi dell’esserci.
Yalom lascia passare il messaggio e la necessità dell’orizzontalità nel rapporto terapeutico, come opportunità dell’incontro con l’altro e con sé stesso. Schopenhauer, come la filosofia in generale, diviene una sorta di propedeutica che dà gli strumenti per partire, ma il fine resta da rintracciare nell’incontro, nel corpo a corpo, tra gli esseri.
Gilberto anche il nostro paziente, che in un certo senso era alla ricerca dello Schopenhauer che gli dicesse come doveva essere, come aveva inizialmente fatto Philip, sta affinando negli incontri con noi, quella gemma grezza, come Tony, che è in fondo al suo essere; sta insistentemente cercando di dare forma ad un contenuto tenuto insieme confusamente.
Il romanzo si conclude con la morte di Julius alla vigilia dell’ultima seduta, e con la rinascita del gruppo guidato da Tony e Philip; la giusta sintesi in cui l’intuizione ingenua lascia il posto all’intuizione intenzionata e la filosofia come dogma lascia il posto alla filosofia come guida.
Ti saluto Gilberto per rivederti a Figline Valdarno, nella casa della Scuola Italiana di Psicopatologia Fenomenologica, al consueto, ora XX°, corso residenziale di Psicopatologia Fenomenologica.
G.C.
Caro Giuseppe, ti ringrazio
Caro Giuseppe, ti ringrazio del tuo esteso commento, che cuce pathos, narrazione e cura. Mi sembra che il filo rosso di tutto stia nel coinvolgimento del terapeuta, non come apparato cognitivo, ma come apparato umano. Credo che questo rappresenti il reale ostacolo alla diffusione sul campo di un certo tipo di formazione. Il coinvolgimento del clinico nella relazione con il paziente è la vera “bestia nera” della cura. Si cura con ciò che si è, innanzitutto. E ciò che si è, non si è mai definitivamente. il paradigma della conoscenza oggettiva, prevede il soggetto distante e asimetrico rispetto all’oggetto. Un altro ostacolo è rappresentato dalla perdita della dimensione immaginaria, trascendentale, metafisica nelle pratiche della cura. Il terapeuta mainstream è l’uomo ad una dimensione. I nostri pazienti, tra le altre cose, incarnano l’insopprimibile istanza metafisica che attraversa ogni uomo come esistenza, ovvero come corpo al mondo. Come vedi bastano questi due ostacoli, il terrore del coinvolgimento personale e la cecità metafisica, a sbarrare bene la strada. Come vedi, a parte il tuo commento, dettato anche dalla nostra vicinanza di percorso, il tracciante sparato finora è rimasto solo a rischiarare la notte. forse c’è bisogno di perdere veramente tutto per poter tornare a recuperare qualcosa. Ti abbraccio.
Caro Gilberto,
questa tua
Caro Gilberto,
questa tua ultima testimonianza si muove sull’interstizio così inafferrabile e insieme così decisivo che avevi aperto, drammaticamente, nel tuo precedente testo sull’Oxford Dictionary .tra oggetto del mondo e oggetto concettuale, tra corpo malato e malato concettuale (versione mia riduttiva). Qui ti muovi tra l’apprensione gestaltica del tutto umano e una sfida filosofica di portata radicalmente perturbante: il fuori. Riporto il tuo testo che commenterò non teoricamente ma con una storia clinica:
< Un altro passaggio concettuale necessario per comprendere questa clinica dell’incontro attraverso al nozione di corpo vissuto è lo spostamento del baricentro dell’esperienza. Secoli di filosofia e di psicologia hanno confinato l’idea di mente o di stati mentali al dentro il confine corporeo o del cranio, o del cervello stesso. Il petto, la pancia, il cuore, l’anima, gli stati d’animo, il pensiero e i suoi contenuti e così via sono stati da sempre collocati dentro. Qui si tratta, invece, di mutare radicalmente la prospettiva. Ci troviamo di fronte ad un fuori. Il fenomeno che noi vogliamo conoscere è fuori di noi, e anche il nostro apparato conoscitivo “vivente” è fuori di noi. Se non fosse fuori di noi non potremmo utilizzarlo. Ciò che sto cercando di dire è che nell'incontro con il paziente ciò che noi abbiamo tematizzato come mente, non è collocato o confinato dentro il paziente, ma fuori, ovvero nello spazio vissuto tra di noi. Nell'incontro la mente del paziente e la nostra mente sono esternalizzate, interagiscono in una dimensione co-incarnata che è fuori, tra-incarnata, evaginata dai nostri due corpi fisici che mantengono la loro distanza. Forse questo è il colpo più duro che lo psicocentrismo encefalo-centrico deve subire. Il pregiudizio più duro da rimuovere soprattutto per noi psy. Forse questa perdita della “testa” come punto di riferimento è un qualcosa che un pò ci detronizza. Eravamo abituati a concepirci come depositari o esperti della cosiddetta esperienza interna. Tanta letteratura nostra è piena di espressioni come “esperienza interna”, “confini dell’io”, “barriera dell’io” , “oggetti interni”…..>
E’ da tanto tempo che esploro le situazioni cliniche cercando i luoghi dei transiti nella vita di un paziente e della sua famiglia. I transiti sono sempre dislocazioni complesse, geografiche, culturali, atmosferiche, etc. I transiti possono tuttavia non essere esperienze che danno esperienza, ma lacerazioni che dislocano la mente, la scindono tra il luogo di partenza, il luogo di arrivo e, nelle situazioni più complesse, anche lungo il tragitto. Per me la domanda drammatica “dove è la mente?” mi accompagna da tanto tempo. Mi è chiaro, per esempio, che le gravi patologie dei bambini adottati grandicelli da terre altre, sono connesse al loro essere un po’ di là e un po’ di qua. Senza la reintegrazione radicale tra le due storie scisse non c’è guarigione. Ma adesso una vicenda clinica, che diviene comprensibile per l’appassionato e competente lavoro di un mio collaboratore.. Non può ancora, come il figliol prodigo, ritornare nella casa della sua famiglia. Il lavoro socio-psicoterapico, profondamente antropoanalitico (il collega non lo chiamerebbe così) ha rammendato le lacerazioni, i luoghi dispersi dell’apparire senza tramature simboliche radicanti. E il viaggio della vita e della mente si è compiuto. Adesso Maria, i genitori/nonni festeggiano. Quale sarà adesso il compito del collega? Esplorare con Maria e con i familiari il senso di quello scomparire a 19 anni, il senso entro la vita delle generazioni e della relazione genitori- Maria. Dove è la mente?
Una giovane donna incinta viene segnalata dai servizi sociali di Verona a quelli del Gemelli. E’ di Roma, la famiglia è a Roma, lei dall’età di 19 anni (oggi ne ha 34) è andata a studiare a Verona e non è più ritornata. Inizia una carriera psichiatrica, ricoveri, farmaci, diagnosi, lavoro e promiscuità. Rimane incinta e, all’improvviso vuole ritornare, ma non in famiglia, in una Casa Famiglia. Il collega è coinvolto in quanto psicologo nel servizio di Ginecologia. Il tribunale dei minori, attivato, sospende la responsabilità genitoriale, e l’affida ad un Centro dove la paziente regge due giorni, diventa impossibile, gravemente sintomatologica e sta per essere cacciata. IL collega, del tutto gratuitamente propone e ottiene diverse riunioni tra i vari servizi sociali e gli operatori della Casa Famiglia. Maria rimane con ulteriori incontri di gruppo tra lei, il collega e gli operatori. Intanto, nonostante il divieto di Maria il collega contatta i genitori, li incontra più volte, lo condivide con Maria. Per farla breve, da un anno Maria vive con i genitori, nella sua stanza di allora; i genitori sono nonni felici, Maria lavora. Il clima, gli eventi, le relazioni a casa sono serene, affettuose, calde. Maria non ha il minimo comportamento abnorme, sembra miracolosamente risanata nella dimensione adulta, coerente, responsabile della sua età. Miracolo? No. Maria ha indicato a sé e al mondo il suo cammino di guarigione: essere incinta attiva il viaggio di ritorno nei luoghi dove è depositata, scissa, tanta parte della sua
Ti abbraccio,
Corrado
Caro Corrado, come sempre
Caro Corrado, come sempre stai sui nodi e sulle spine del discorso. Un verso di Quasimodo diceva “ognuno si scalza e vacilla/in ricerca”. Così io ti immagino, che ti scalzi e che vacilli, al cospetto delle storie, delle situazioni, delle vite. la questione del “dove” della mente forse rappresenta davvero una chiave di volta. Lo spazio del mentale, lo spazio vissuto, benchè evidenziato dalla fenomenologia, ha ricevuto meno considerazione rispetto al tempo. La questione del tempo, già di agostiniana memoria, è stata più stressata, soprattutto da Bergson in avanti, perchè sembrava la trincea del discrimine tra scineze della natura, attestate sulla misura del tempo cronologico, e scienze umane, capaci di cogliere il tempo kairotico. Il tempo vissuto, ad ogni modo, ha fatto poi corpo con l’interiorità, mentre il tempo ufficiale, misurabile, è rimasto un tempo esterno. Lo spazio è stato considerato come il luogo abitato dalla presenza. Il Da del Dasein. I modi di abitare lo spazio, di farlo vissuto, cioè proprio, sono i modi di essere della presenza, che è prae-essentia in quanto è nel mondo. il tuo modo di considerare lo spazio, come illustra la vicenda clinica, io lo trovo ancora diverso dal modo dell’etnopsichiatria o etnopsicologia che dir si voglia. Il concetto di mente estesa (extended mind) di Fuchs, che predica l’aggettivo extensa alla res cogitans cartesiana, creando una nuova entità della quale sappiamo poco, prigionieri come siamo dell’interiorità. I luoghi come stadi e come figure della mente. Lo spirito dei luoghi, le atmosfere, i mosaico identitario fatto di tessere sparpagliate di qua e di la. La fuda dell’uomo ipermoderno dalla solidificazione identitaria. La “dromomania” come dipendenza, come tentativo di continua gemmazione di identità nuove e diverse le une dalle altre. Nella clinica noi assistiamo al fallimento di tuto questo, siamo quelli che rimaniamo con chi non si ritrova più, con chi ha perso l’ubi consistam. Appunto : l’ubi consistam. E’ molto interessante la prospettiva che tu proponi del terapeuta non solo come rammendatore di lacerazioni interna, ma come rammendatore di lacerazioni esterne, perchè è li che si è originata la fissione della mente, ed è li che bisogna andare a ricomporla. Credevamo di essere diversi dai riduzionisti organicisti perchè ci occupavamo del “mentale” e non del “cerebrale”. Ma, nel momento in cui chiudiamo il mentale dentro, facciamo lo stesso riduzionismo. Nel momento in cui pensiamo che certe esperienze possano essere riparate solo attrverso una elaborazione interna noi pecchiamo di ubris, diventiamo tracotanti ed arroganti, al pari di quelli che pensano che con una via di trasmissione gabaergica hanno risolto un proble,a. Non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi. E forse, recuperare con umiltà, le pratiche di ascolto e anche un certo “interventismo” dei guaritori tradizionali potrebbe essere una via percorribile. Una mente monolocalizzata nell’interiorità di ognuno è un mistero insondabile, che ci consegna all’autismo. Una mente condivisa nella spazio tra di noi forse è una via praticabile, una possibilità di incontrarsi. Perchè è il mondo il luogo dell’incontro. Se il mondo è il luogo dell’incontro, alla tua domanda : “Dov’è la mente?”, io rispondo senza esitare : “La mente è nel mondo”. Grazie sempre……