Il dorso e buona parte dell’avampiede d’Italia, fin dai tempi remoti sono stati abitati da popolazioni un po’ complicate e tutto sommato fragili, malgrado la loro resilienza. La vita durissima e precaria, dotata solo della parola ma non della scrittura, è sempre stata difficile. La morte di una persona cara, una tragica perdita di senso dell’esistenza, che andava recuperata con espedienti magico religiosi: la destorificazione demartiniana del negativo. In pratica, bisognava uscire dalla storia della vita per potervi rientrare con tecniche rituali di magia, sincretismi religiosi e opportune lamentazioni funebri delle prefiche professionali, ampiamente provate ed efficaci, fin dalla protostoria della condizione umana. Un originale tentativo di lettura storica e socio-antropologica di queste categorie dell’esistenza delle “classi subalterne”, delle “plebi rurali” la troviamo a raffica in tre opere fondamentali di Ernesto de Martino. Morte e pianto rituale nel mondo antico Dal lamento pagano al pianto di Maria. Einaudi, Torino, 1958. Sud e magia. Feltrinelli, Milano, 1959. La terra del rimorso. Il Saggiatore, Milano 1961. Furore Simbolo Valore. Il Saggiatore, Milano, 1962.
Le cronache di questo incredibile inizio d’anno 2020 – per restare alle cose di casa nostra, anzi di quelle indie di casa nostra, come ci richiamava ad andarcele a studiare nel Mezzogiorno d’Italia senza attraversare gli oceani, Ernesto de Martino – ci parlano di una spedizione punitiva vera e propria, tribale, intollerante, settaria, primitiva, preistorica, ancestrale, arcaica e chi più ne ha, più ne pensi. Embè? Si dirà. La solita rissa tra tifosi. Non è la prima e non sarà l’ultima. L’epifenomeno di un malessere che serpeggia nelle società attuali ed esplode settimanalmente alle partite di calcio in tutte le parti del mondo. Guarda gli Hooligan inglesi, che il fenomeno pare l’abbiano inventato. Ma anche noi non abbiamo scherzato: ultras, irriducibili, brigate, mazze ferrate, bastoni, agguati, tifo violento da guerriglia, talvolta anche in alleanza contro le forze di polizia. Hanno inventato i “Daspo” per interdirli dall’accesso allo stadio. Non sempre la violenza si annida nelle curve degli stadi di “serie A”, ma anche fuori, per strada. Lungo i tragitti per le stazioni ferroviarie, di pullman, gli aeroporti, ecc. I tifosi spesso si combattono, mettono a soqquadro le città dove vanno in trasferta. Siamo abituati. Non è più una notizia. Non si possono più portare i figli piccoli allo stadio. Ci sono noti capi tifosi che arringano e governano le folle di tifosi, ricattano le Società (che si fanno ricattare), scalano tutti i gradini della malavita fino a giungere allo “spaccio”. Guarda “Diabolik”, l’ultras leader degli ‘Irriducibili-Lazio’, freddato con un colpo di pistola alla testa in un agguato al Parco degli Acquedotti. Si è poi scoperto che comandava il mondo degli spacciatori! Ti pare calcio, sport, domenica di svago, di riposo? Più o meno i commenti generali e comuni.
È proprio questo che mi ha colpito. Come mai, mi sono chiesto, che ciò che si mette in scena nelle grandi piazze, dove ci sono grossi interessi, grandi fabbriche, folto pubblico, bisogno di visibilità, sia stato riprodotto, in sedicesimo, da quattro gatti disperati, ma con pari ferocia, se non maggiore, i quali hanno inteso mimare, per contagio, la violenza delle grandi metropoli? Mi sgomenta prendere atto che proprio questo stupido gesto collettivo e gregario d’imbecilli che chiamiamo “tifo”, abbia attecchito, nell’antica terra del dolore inconsolabile, della fame atavica, degli stenti e delle fatiche quotidiane, dell’impossibilità del riscatto, delle credenze magiche per poter sopravvivere. Del punto più critico dell’esistenza quello che ti fa vacillare quando “niente si tiene più” (Mario Rossi Monti) , che per de Martino è “la crisi della presenza”. Mi stupisce e mi addolora che la pantomima del “tifo” quella dei “tifosi” (anche lucani), che oltretutto non è nemmeno un virus contagioso e mutante come il coronavirus che ci minaccia da Wuhan, ma una malattia infettiva sistemica, a trasmissione oro-fecale (basta lavarsi le mani) provocata da un batterio l’Eberthella Typhi che invece di colpire l’apparato enterico, dà alla testa causando una strana dissenteria mentale. M’infastidisce questa becera profanazione di quella lontana Lucania delle fattucchiere – quelle di Colobraro, per intenderci – del fascìno e dello sfascìno, delle indie de accà. Dei luoghi simbolo della nascita sventurata, “come inversione della norma” che il bracciante di Irsina dice a de Martino: “Quando io nacqui mia madre non c’era / era andata a lavare le fasce / la culla che mi doveva cullare / era di ferro e non si dondolava / il prete che doveva battezzarmi / sapeva leggere e non sapeva scrivere”. O della centenaria di Savoia di Lucania, dove per punire l’anarchico Giovanni Passanante i reali cambiarono il nome al paese dov’era nato che si chiamava Salvia senza più restituirglielo, la quale ricordava la nascita come catastrofe: “Quando io nacqui mia madre morì / morì mio padre il giorno dopo / e anche la levatrice morì / mi andai a battezzare / nessuno attorno”. Ed altre lamentazioni ancestrali. Ora c’è questa sanguinosa lordatura dell‘antica Lucania, di cui prendere atto. Inflitta con banalità inaudita, in una strada provinciale, una parallela della Basentana, in questa moderna (?) Basilicata. Che significa tutto questo? Qual è il registro di lettura? Cosa penserebbe de Martino di uno stravolgimento così radicale rispetto alle sue spedizioni? Cosa, quando e chi è cambiato? Ci sembra forse così inaudito perchè nulla è cambiato e il tempo dell’inazione e dell’incultura si è allungato?
Meno di una dozzina di chilometri di amara Lucania separano Melfi da Rionero. Il dialetto, le abitudini, le costumanze, le tradizioni, sono le stesse con minime varianti. Meno di una settantina d’anni sono trascorsi da quando Ernesto de Martino andò ad incontrare Rocco Scotellaro prima di dover giustificare con la parola “spedizione” la sua ricerca antropologica in Lucania, ma ben altra spedizione si è verificata una domenica di sangue nelle stesse terre e negli stessi scenari delle plebi meridionali, non più rurali. Queste genti, col passar del tempo si sono (o le hanno?) trasformate in tutt’altra cosa che neppure de Martino saprebbe come altrimenti definire. Ora però, rispetto al passato, c’è il lavoro. A Melfi c’è una fabbrica della FIAT, anzi della FCA [02], un’azienda-pasticcio italo-american-francese, di diritto olandese con domicilio fiscale a Londra, per pagare meno tasse. A Rionero in Vulture, medaglia d'argento al merito civile per atti di abnegazione durante il secondo conflitto mondiale e famosa per un ottimo vino rosso (“Aglianico del Vulture”), c’è un’azienda per l’imbottigliamento di acque minerali e un centro di eccellenza sulla ricerca oncologica d'importanza nazionale, il CROB. Ma basta il lavoro – c’è da chiedersi – a rendere l’uomo libero, senza la memoria e la cultura? Evidentemente no, se ancora oggi ci domandiamo che tipo di lavoro, a che prezzo e con quali tutele, guardando i riders del cibo a domicilio e scorrendo il numero dei morti sul lavoro. Evidentemente no se è indispensabile andare annualmente in pellegrinaggio, al macabro universo concentrazionario di Auschwitz Birkenau – dove campeggia sinistra l’arcata metallica ARBEIT MACHT FREI – perchè mai più abbia ad abbattersi una simile follia nazista sull’umanità. Ho perfino pensato ai pronipoti del contadino smarrito e tremante, senza la vista del campanile di Marcellinara, che de Martino aveva preso a bordo per ricondurlo più rapidamente al suo paese. Poi mi son detto di no per due motivi. Marcellinara è in Calabria, provincia di Catanzaro, la parte di sotto dell’avampiede d’Italia. Le squadracce di sedicenti tifosi melfitani, dalle corrispondenze mediatiche, le ho viste girare con troppi VAN “Fiat Ducato Minibus” per 8/9 persone. Non avevano certo bisogno di scrutare il profilo del Castello normanno. Non erano nè smarriti nè tremanti, sapevano dove guardare per puntare le loro prede.
Riascolto perplesso la voce di Ernesto de Martino che esce, ferma e lucida come una lectio magistralis, dall’altoparlante che trasmette il celeberrimo “Documentario audiofonico storico sulla spedizione in Lucania di Ernesto de Martino del 1952”. «L’idea di una spedizione in Lucania per la raccolta del materiale relativo alla vita culturale e tradizionale del mondo popolare di questa regione può suscitare qualche riserva e qualche diffidenza soprattutto per l’impiego, a proposito della Lucania, della parola “spedizione”, normalmente usata per viaggi collettivi di studio in regioni lontane e poco conosciute come il Congo o il Tibet. Ma la colpa non è nostra … se oggi siamo ancora nella deplorevole condizione di dovere organizzare spedizioni per conoscere la storia e la vita di alcuni gruppi di cittadini della repubblica … D’altra parte, noi non siamo andati laggiù alla ricerca del pittoresco … ma per tentare di ricostruire la vita culturale tradizionale delle generazioni contadine che si sono avvicendate sul suolo lucano».
Non c’è niente di “pittoresco” in questa spedizione punitiva tra tifosi lucani e, men che meno, di “culturale” e “tradizionale”. La feroce contrapposizione e l’acuta disperazione permangono come un tempo. Mi torna alla mente un distributore di benzina a Lagonegro dove m’ero fermato a fare rifornimento mezzo secolo fa. Alla richiesta di darmi informazioni sul territorio dove mi trovavo, rispose con un ghigno diabolico «Vedi, qui e lu-calabro, lì è lu-cano». I contrasti permangono, l’antica miseria economica si è attenuata, ma quella culturale non sembra essersi mossa dai tempi del maestro napoletano. E neppure da quelli dei suoi allievi che hanno continuato il suo lavoro.
Riprendo de Martino, la sua voce. «Da una parte, sotto l’impulso della quistione meridionale, furono condotte importanti inchieste sulle condizioni economiche e sociali di quelle plebi nel quadro della società meridionale e della sua storia. Dall’altra … soprattutto per l’impulso e l’esempio di Giuseppe Pitré, sono state largamente raccolte e indagate le loro tradizioni culturali il folclore, cioè la loro natura non scritta, ma affidata alla tradizione orale e visiva come si conviene che sia la cultura in un mondo di uomini che non possiede il mezzo tecnico della scrittura. A noi sembra che la separazione e l’indipendenza di questi due ordini di ricerche abbia nociuto non poco alla esatta valutazione del mondo contadino meridionale e che oggi sia davanti a noi il compito di fonderli organicamente valutando le condizioni culturali popolari del mezzogiorno nei loro molteplici nessi con ciò che con una frase divenuta ormai di moda si può chiamare la condizione umana».
Già! L’antica Lucania dimentica. La condizione umana delle plebi. Quella trovata nell’immediato secondo dopoguerra – da de Martino – abbandonata da tutti perchè troppo primitiva, arcaica, illetterata, dedita alla magia, dunque esclusa dai grandi progetti di ricostruzione bellica. Proprio da lì, Ernesto de Martino, si ostinava a partire con le sue equipe multiformi e polispecialistiche, dotate anche di etnomusicologi, coreuti e fotografi, per studiare i residui, le persistenze di una tradizione remota sopravvissuta, col dolore, la magia, la religione. Ora, dopo il morto-ammazzato di tifo pedatorio a Melfi, mi par d’intuire perchè de Martino volesse prendere le mosse – per il suo contributo personale alla ricostruzione culturale del paese – proprio da quelle terre, dove non c’era nulla da ricostruire, semmai da comprendere come mai dal medioevo in poi, dopo la grande civiltà degli Hohenstaufen, non si fosse più verificato alcunché di così clamorosamente importane dal punto di vista storico-culturale. E poiché l’agguato Melfi-Rionero Vultur non era la disfida di Barletta, in effetti ci sarebbe da capire, perchè dopo la lunga parabola italiana dello jesino Federico II Ruggero di Hohenstaufen (1194-1250), l’astro più luminoso del suo tempo, Re di Sicilia, Duca di Svevia, Re dei Romani, Imperatore del Sacro Romano Impero, Re di Gerusalemme – autore, en passant, delle Costituzioni di Melfi [03] – su quei territori governati da Federico II [04] con saggia lungimiranza e raffinata competenza delle arti e delle lettere, fosse caduto l’oblio per molti secoli fino al brusco e stonato risveglio di questo inizio gennaio 2020.
Elenchiamole, dunque, codeste terre. L’antica Lucania, di cui si sta dicendo, comprendeva un pezzo di Salento, un pezzo di Basilicata, un pezzo di Calabria Bruzia, esclusa la Venosa, Melfi e il Vulture. Andava dal Tirreno al golfo di Taranto ed erano di sua competenza amministrativa gli attuali Cilento e Vallo di Diano; la zona sannita dell'Irpinia; a sud, la parte nordorientale dell'alta Calabria, da Castrovillari a Sibari; al centro, conteneva tutta l'attuale regione Basilicata. I confini superiori erano la Valle del Sele a nord-ovest, che la separava dalla Campania; la Valle del Bradano a est-sud-est, che la separava dall'Apulia; i due fiumi Lao e Crati, che a sud-sud-ovest la separavano dalla Bruzia. Gli Appennini occupano gran parte di queste zone montuose, cintate dalla catena degli Alburni verso nord. A nord-ovest si può intuire il golfo di Policastro, ma prima di scorgere il mare bisogna scavallare le due cime dei monti Pollino e Sirino. Sotto, c’è la foce del fiume Lao. Procedendo verso est si scende dolcemente, altopiano dopo altopiano, fino alla mitica piana metapontina dove un tempo c’era una vecchia ferrovia. Da lì, i più temerari, avrebbero potuto raggiungere il golfo di Taranto, attualmente in pessima fama italo-indiana per l’acciaio assassino. Non quest’ultima parte, ma tutta la precedente, ossia quella geografica, l’abbiamo imparata da uno splendido narratore di nome Strabone che l’aveva raccontata in Geografia (collocabile tra il 14 e il 23 d.C.), opera in diciassette libri, scritta in greco antico dall'erudito autore di Amasea, provincia asiatica dell’impero romano e poi di quello ottomano.
È dalle piccole cose, dai dettagli, che si risale ai mutamenti o alle persistenze. Se i fatti di Melfi indichino alcunché ed effettivamente qualcosa di animalesco lo rivelano, stiamo messi male. Inutile tentare di giustificarsi che negli stadi “tutto il mondo è paese”. Ci sarebbe, invece, da interrogarsi su cosa sia realmente cambiato, dopo settantanni, in questa Lucania moderna della Fiat, delle acque minerali, delle eccellenze nella ricerca tumorale. Questa Lucania, o se preferite questa strada provinciale della Basilicata-potentina dove, coi “pullmini VAN” 8-9 posti, si ardisca giocare una esecrabile partita di biliardo, provando a fare filotto coi tifosi avversari. Si può essere entrati nella modernità senza aver dato risposte ai temi posti da Ernesto de Martino sulla vita, la morte, la perdita, il pianto, la disperazione, il dolore, il lutto, il furore, i simboli dell’esclusione, la crisi della presenza, epifenomeni di una cultura subalterna? Delle due l’una. O si riprende la “Quistione meridionale” da dove l’aveva lasciata l’antropologo napoletano, portandocela, anche e soprattutto, da Antonio Gramsci. Oppure sia l’uno che l’altro hanno parlato a vuoto, e tanto vale dimenticarli, se non siamo in grado di coltivare le idee da loro seminate. Per sentire qualcosa di progressista, diciamo pure “di sinistra”, non possiamo continuare a contare solo e soltanto su Ken Loach, “il regista rosso”, come dice Francesco Bollorino, che da una vita ci racconta la sinistra degli ultimi. Come sono costretti a campare quelli che rincorrono il lavoro perso per salari sempre più miseri. In tutto il mondo, non solo a Newcastle, come in Sorry We Missed You (2019). “Spiacenti, non ti abbiamo trovato”, un avviso lasciato per licenziare un precario, è l’ultimo suo film sugli effetti devastanti che subiscono gli sfruttati e le loro famiglie, come quella di Ricky, Abby e i loro due figli. Non ti abbiamo trovato in casa per cacciarti dal lavoro, quello che dovrebbe liberarti dalla schiavitù! Nel frattempo il nostro pianeta si avvia all’estinzione col fuoco che gli brucia gli antipodi e i ghiacciai dell’Artico, i coronavirus cinesi che lo pandemizzano di broncopolmoniti paucisintomatiche, mentre viene sadicamente sferzato dal ciuffo biondo e posticcio di un presidente americano balordo e bugiardo che twitta – a mitraglia sul mondo – minacce apocalittiche e insulti protervi, con una incontinenza meritevole di pannolone. Ma non rinnoverà il mandato di capo del più potente stato del mondo, ne siamo certi. È già qualcosa!
Appendice
Panorama verghiano del latifondo.
(Risolvere la questione siciliana)
di Ernesto Mellina
Prospettata in ogni suo aspetto da uomini politici come Stefano Iacini, Sidney Sonnino, Diego Tajàni e Giuseppe Bruccoleri, e persino da sociologi ed economisti stranieri quali Alexander Rumpelt in «Sizilien und die sizilianer», 1902 e Sartorius von Waltershausen in «Die Sizilianischer agrarverfassung u. ihre Wandlungen 1780», 1912, è come dissero senza ambagi che la questione siciliana si presentò sul nascere quanto mai complessa. E la ragione è questa: che, mentre negli altri paesi le questioni economiche e sociali, anche a substrato politico, sono originate dalla spinta di necessità che le porta a superare metodi e sistemi, per la Sicilia invece il problema fu diverso in quanto si trattò di rimuovere i relitti di un passato ancora incombente a motivo del pervicace conservatorismo di un ceto privilegiato, il quale si difese e difende disperatamente, opponendo ogni sorta di rèmore per impedire che fossero gittate le premesse d’una moderna ricostruzione. Per tanto condizione prima e necessaria per coloro che si accingessero alla riforma fu quella di distruggere per ricostruire e tale compito, apparentemente pacifico, è sempre di natura rivoluzionario. Per ricorrere a un’immagine, si potrebbe dire che la situazione siciliana rassomigliava a una mostruosa fortezza da prendere d’assalto e demolire e capirete che prima di costruirvi su fu necessario rimuovere le … macerie.
«Punctum pruriens» della questione siciliana fu il latifondo. Per chi non lo sapesse, il latifondo in antico fu un derivato storico delle usurpazioni dell’ «ager publicus» che diventò concentrazione di proprietà provenienti da successioni testamentarie gentilizie oppure il risultato dell’espropriazione di piccoli e medi fondi di possessori insolventi. Esso caratterizzava pertanto la sopravvivenza di un’eredità feudale che sfruttava a proprio vantaggio il lavoro altrui col sistema dell’affittanza del terreno lasciato a prato o coltivato in parte, ossia per quel tanto che bastasse per trarne un reddito per vivere senza pensieri.
Detto ciò, qualcuno potrebbe osservare: poche migliaia di ettari di terreno non saranno state la fine del mondo. Piano, allora voi ignorate quale diavoleria cela il latifondo in Sicilia, e particolarmente nell’interno montagnoso che ha per centro geometrico la provincia di Enna. Trattavasi di 1 milione e 286.296 ettari di terreno a coltura estensiva e 319.941 a pascolo e a prato su due milioni e mezzo di superficie agraria. Il rapporto era sconcertante, e vi dà l’idea dell’abbandono in cui era tenuta la terra, se lo confrontate con quello del Piemonte, che aveva 273.456 ettari di terreno a coltura estensiva e 965.909 a pascolo su due milioni e mezzo di superficie agraria, e del Veneto, che ne aveva 224.335 e 733.134 rispettivamente su due milioni e 124.161, senza contare che in Sicilia la lavorazione era ed è in qualche sito primordiale ed empirica per la scarsità di macchine agricole. Il che è sufficiente a spiegare la gravità del fenomeno.
Ammorbato dalla malaria, scavato dai torrenti, spoglio di alberi, assordato dagli strilli delle cicale. Il latifondo siciliano era un’ingente proprietà. In esse il padrone era assente, il grande gabelloto. Assente; e se vi era qualche segno di padronanza, consisteva si e no, in una vecchia villa e un selvatico roseto rampicante e tal volta in un paio di platani che vi facevano la guardia in attesa di chi non tornava. Era codesta immensa, sterminata possessione di terra non coltivata o mal coltivata, squallida e riarsa, che impediva la costituzione della piccola e media proprietà fondiaria, senza la quale non sorge la casa, non si apre la strada, non scorre l’acqua per beverare il podere. Socialmente, l’esistenza del latifondo favoriva l’insicurezza delle persone e la piaga dell’abigeato, perpetuava la servitù della gleba, ostacolava lo sviluppo agrario e la coltivazione razionale, impediva l’assorbimento della manodopera. Esso era pertanto un assurdo in pieno secolo ventesimo: una catena che stringeva in vincoli, oltreché l’economia, il progresso civile d’una intera regione.
Ma questo che era l’inconveniente già grave, non sarebbe stato pernicioso, se non fosse stato complicato dall’incredibile accentramento di pressoché tutta la proprietà terriera nelle mani di pochi ricchi signori, onde si assisteva allo strano paradosso che la Sicilia – che è una delle più doviziose regioni d’Italia – era altresì la più povera in rapporto alla condizione dei suoi abitanti.
Potrebbe sembrare fantastica o ispirata a tesi la nostra asserzione della povertà delle popolazioni siciliane, eppur non è, ove si consideri che, in base a dati desunti dalle Agenzie delle Imposte, nella civilissima Italia, la Sicilia era l’unico paese in cui, su 3.896.866 abitanti, soltanto 200.00 possiedono terra, nella proporzione di 1.200.00 ettari a 5.000 persone e di 1.289.870 ettari alle altre 195.000, il che voleva dire che dei due milioni e mezzo di ettari di terra – quanto è la superficie catastale dell’isola – 240 ettari erano attribuiti a ciascuno degli anzidetti 5.000 privilegiati e 6.666 ettari a ciascuno degli altri 195.000.
Traducendo in moneta tali cifre, e fissando in due miliardi il valore delle terre di Sicilia, giusto il calcolo fatto nel 1911 dall’Amministrazione delle Finanze, avevamo che al cambio di 300 della lira sterlina, quelle terre rappresentavano un valore di 600 miliardi di lire, delle quali 228 miliardi erano attribuiti a 5.000 persone e 312.015.600.000 a 195.000, mentre tutte le altre non possedevano una zolla di terra! Pensate: 5.000 persone che usufruivano di una proprietà individuale di lire 57.600.000 e 195.000 di una proprietà individuale di lire 1.600.080 e le altre, stavano a guardare. Cifre sbalorditive che scattano e persuadono più di un qualsiasi squarcio di eloquenza e che, se non fossero state attinte a fonti e pubblicazioni ineccepibili, potrebbero sembrare diabolicamente inventate per mettere in sinistra luce certi anacronismi tutt’altro che innocenti.
In tali condizioni di privilegio, forti della loro potenza e influenza, erano i latifondisti che facevano il bello e il cattivo tempo, perchè erano loro che detenevano il potere politico e amministrativo, che circuivano e suggestionavano l’opera dei prefetti, che manovravano i galoppini durante le elezioni, che narcotizzavano con diversivi le legittime aspirazioni del popolo. Eran loro che congelavano i capitali provenienti dai prodotti del suolo, depositando il denaro nelle cassette di sicurezza delle Banche in luogo di farlo circolare nel commercio, che compravano brillanti e cose d’arte, anziché macchine e attrezzi da lavoro. E gli altri, gli altri Siciliani erano costretti a subire il danno e le beffe.
Senza approfondire le cause naturali e storiche che hanno perpetuato l’assurdo del latifondo e dell’accumulazione della ricchezza terriera e quello parimenti esiziale dell’addensamento degli abitati rurali – onde nell’isola esistevano 361 Comuni contro i 1906 della Lombardia e i 1488 del Piemonte, che pure avevano una pressoché uguale densità di popolazione – è lampante che fino a quando questi fenomeni, tra loro connessi e in parte interdipendenti non cominciarono a essere attaccati alla radice, era ingenuo parlare di ricostruzione, di rinascita, di palingenesi
Che cosa avevano fatto viceversa in tanti anni i feudatari, più o meno blasonati, e i loro grandi gabelloti? Delle chiacchiere. Parole, parole, parole, direbbe Amleto. Perchè loro preoccupazione, unica e assillante era quella di eludere furbescamente il problema per dimostrare che non si poteva venire a capo di nulla. Sono memorabili, attraverso la letteratura politica, i palleggiamenti di responsabilità e di competenza tra gli organi centrali e le caste interessate a fine di non ricevere. Per tanto, i feudatari, placidi e beati, attesero che il Governo assolvesse i compiti di sua pertinenza, mentre il Governo attese,a sua volta, che i feudatari si scotessero dall’accidia e dessero prova di capacità e buon volere … E così traccheggiandosi, nessuno si mosse per cui il latifondista continuò imperterrito ad affittare al grande gabelloto, il grande gabelloto al piccolo, e questi a uno sciame di affittuari, vittime sconosciute di codesta feudale gerarchia di vassalli e valvassori. Gerarchia che, fatta astrazione di una trentina di latifondisti intelligenti – quanti ne enumera onestamente il Lorenzoni nella sua relazione parlamentare – aveva al proprio vertice una casta sciatta e infingarda di signori ermetici nel proprio egoismo, in lotta perpetua col nuovo, la quale non trovava di meglio che levarsi alle ore dieci, giocare a «poker» e cianciare con l’accento bleso nelle grandi città o appartarsi, se non mondana, in un angolino insignificante e scolorito della vita provinciale.
In vero, dopo l’occupazione delle terre, che negli anni successivi all’altro dopoguerra assunse in Sicilia forme drammatiche, il fascismo tentò una parziale riforma del latifondo, ma impostò il problema con la preoccupazione della messa in scena propagandistica per cui, dopo aver tracciato piani, indetto gare, inviati gerarchi e funzionari, quando si venne al sodo, i peri e i meli marcirono non appena pescarono con le radici nella falda acquifera del sottosuolo, le case coloniche, linde e pinte, rimasero disabitate per mancanza di pozzi, e la malaria in agguato continuò a ingiallire le facce dei bifolchi. Ciò non tolse, tuttavia, che i … pionieri ritornassero vincitori e sfrondassero allori e prebende.
Abbandonato a sé stesso in tanti anni di reggimento irresoluto: vessato senza posa dalla cricca benestante ostinatamente retriva, il popolo siciliano ricorse all’espediente di emigrare. Messo al bivio tra la rivolta a sistemi intollerabili e l’evasione dalla prigione domestica, il popolo scelse la via dell’esilio, e portò seco un po’ del suo sole e della sua terra, e quella pungente nostalgia del ritorno che mai l’abbandonò sull’itinerario di proprio destino.
La plebe emigrò per le terre d’America e dell’Australia e Tunisia e lo fece con tanta foga (120.000 unità nel 1906), che il Governo se ne allarmò al punto di disporre un’inchiesta, presieduta dal Senatore Faina, per accertare le ragioni determinanti l’esodo delle popolazioni. E se ne allarmarono, «incredibile dictu», perfino i signori, giacché se in un primo tempo il movimento migratorio sanò pulitamente il male della disoccupazione, causò, a lungo andare, per eccesso, la rarefazione del bracciantato delle campagne le cui pretese naturalmente presero quota con grave disappunto dei datori di lavoro. Troppa grazia S. Antonio!
Non ostante questo la plebe non disarmò e, rassegnata alla sua «via crucis», mandò le rimesse di emigrazione a piccole banche fiduciarie già fondate un po’ ovunque nei paesi col risparmio privato per sottrarre il contadino all’usuraio. Sorse per altro e si raffermò nel settore cooperativistico quella attività creditizia delle Casse Rurali che prime in Italia, e floride e potenti – come riconosce imparzialmente Giuseppe Bruccoleri – ingaggiarono la crociata contro lo strozzinaggio a favore dei contadini, organizzati o no nelle affittanze collettive che ad esse attinsero, come attingono, prestiti e sovvenzioni per l’acquisto di sementi, concimi e di quanto altro occorre all’agricoltura. Volete dire che questo popolo non sia intelligente?
D’altro canto, non tutti eran nati per lavorare le terre della «pampas» e della «fazendas». E allora pure il piccolo e medio ceto cercò uno sbocco, ma in un’altra direzione, cioè verso la Penisola, come i Corsi in Francia, dando la scalata alla … burocrazia.
L’Italia ebbe per tal motivo ed ha una falange di impiegati e funzionari in tutti i rami – nella Magistratura, nell’Esercito, nella Scuola, nella Polizia – la quale, temuta per l’acuzie e la versatilità dell’ingegno e in parte invisa per … ragioni di concorrenza, copre un buon terzo dei posti delle Amministrazioni statali e parastatali, tanto che scappò detto a Giolitti, tra l’agro e il dolce, che lo Stato era in balia del Mezzogiorno che ne detiene il potere, benchè è noto che esso mai usò di questo potere per sollecitare non penso un trattamento di privilegio, ma una perequativa amministrazione dei propri diritti.
Comunque tale e non altra fu la causa del sorgere e infittirsi di quella ben individuata classe siciliana a reddito fisso che ha le pretese e l’orpello e non i mezzi per condurre un’elegante vita borghese. Burocratica senza volerlo, proletaria senza saperlo, un po’ signora e un po’ tapina, colta e raffinata e sempre con pochi quattrini in tasca. Tal che la colpa che abitualmente si attribuisce a essa d’invadere e occupare in gran numero i posti nella direzione della cosa pubblica, non è una colpa, sibbene una necessità che la obbliga a disertare – esule involontaria – dalla sua Isola, ieri in sussulto per emanciparsi dalle dominazioni straniere, oggi campo conteso tra una classe ricca, che nulla concede e una classe spaesata condannata a patire.
Depauperata del lavoro manuale e intellettuale di molti suoi figli, incredula nella giustizia degli uomini e risentita, fu giocoforza per altro che la Sicilia si rassegnasse a campare con le risorse di una mezza agricoltura e di una mezza industria, impedita nel progresso da una specie di camicia di Nesso, invero un po’ lisa, ma che nessuno osava stracciare per tema di urtare la neofobia, comoda e interessata, di una decadente società anacronistica.
Note
01. Cfr. Scazzicare la nostalgia. Il ritorno del rimorso. Cinquantenario delle spedizioni in Lucania di Ernesto de Martino 1952-2002 di Sergio Mellina Pol.It. Psychiatry Italia 18 novembre, 2019.
02. Oggi Melfi è divenuta sede di un importante centro industriale e di un gran numero di imprese. Riportiamo da vari depliant interessati “Il polo industriale di San Nicola di Melfi, sorto nei primi anni novanta, ospita la fabbrica automobilistica SATA, il più avanzato stabilimento del gruppo FCA in Italia, basato su sistemi innovativi d'automazione delle fasi produttive e sull'organizzazione del lavoro che massimizza la produttività”.
03. Tra le massime assunzioni giuridiche e manifestazioni culturali di Federico II di Svevia, sono ricordate da tutti e in tutto il mondo, le “Costituzioni di Melfi” (dette anche melfitane). Promulgate il 1º settembre 1231 nel Castello di Melfi, sono raccolte e contenute nel “Liber Augustalis”. Dette Costituzioni, che si riallacciano in vario modo alle pregresse “Assise di Ariano” del periodo normanno, prescrivono normative e legislazioni atte a regolare il vivere civile nel regno di Sicilia.
04. L’imperatore svevo, italiano di Jesi (AN), e palermitanoper parte di madre nonché per jus solis ante litteram, non solo amò l’italia per il suo clima dolce e le sue preziose bellezze, ma s’ingegnò con la sua rara abilità politica e diplomatica ad evitare le crociate volute insistentemente dai papi Onorio III e Gregorio IX fino ad infischiarsene della doppia scomunica. Arrivò, tempo dopo a San Giovanni d’Acri per patteggiare la “conquista di Gerusalemme” senza spargimento di sangue, pur da scomunicato, al contrario dei suoi antenati, Federico I Barbarossa il nonno, ed Enrico VI il padre. Dopo Acquisgrana si guardò bene dal tornare nel suo Castello atavico (il maniero, nel Giura svevo del Baden-Württemberg trovasi a 864 m. s.l.m.), per fare il re di Germania. Era di belle fattezze tanto da esser additato come lo stupor mundi, o anche il puer Apuliae, costituì in Sicilia e nell'Italia meridionale un governo politico molto somigliante a un regno moderno, amministrato centralmente con efficienza e giustizia, coltivando le arti e la cultura. Colto, affascinante e risoluto, parlava sei lingue. Quattro delle quali – essendo uomo di alto lignaggio. di nobile stirpe, di diritto e di retta morale – si puo dire “linguemadri”: tedesco, francese, latino e greco, ma due stupefaceti: il siciliano e l’arabo. È strano, ma non senza un motivo facilmente intuibile nella consapevolezza della corruttibilità del corpo, che non ci abbia lasciato nè quadri, nè statue della sua figura. Tutto quello che circola è ricavato dal capolettera di un antico manoscritto miniato medioevale.
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