La paura di essere contagiati dal Coronavirus ha un fondamento concreto: un rischio più alto di morire rispetto alla normale influenza, specialmente se si è anziani e già sofferenti di altre malattie. La paura reale di essere contagiati viene dalla voglia di vivere.
Il pericolo dell’infezione virale è associato a un pericolo incomparabilmente più catastrofico: il degrado ambientale a partire dalle variazioni climatiche, l’inquinamento e le pessime condizioni igieniche in cui vive la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Vista in questa prospettiva l’influenza da Coronavirus è solo uno dei sintomi, il più immediatamente percepibile, di una malattia del nostro modo di vivere, nei confronti della quale non si sviluppa una paura vera, efficace che mobiliti la ricerca di soluzioni. Siamo di fatto dissociati: la nostra attenzione è rivolta alla possibilità di ammalarsi e non all’incuranza di cui siamo già ammalati che mette a repentaglio, in modo altrettanto reale e ben più grave, la nostra sopravvivenza fisica.
È ovvio che il rischio (relativo) di morire oggi pesi più di un rischio (più serio) di morire domani. È meno ovvio il fatto che la mobilitazione per far fronte al primo non tiene assolutamente conto di una prospettiva più ampia che includa una politica preventiva nei confronti del secondo. Le prescrizioni con cui si cerca di affrontare il contagio riflettono in modo inequivocabile una mentalità che occupa un ruolo centrale nella genesi del degrado della nostra vita: la logica dell’isolamento, della comunicazione remota in cui la lontananza si finge prossimità, l’ostilità verso ciò che non è addomesticato, metabolizzato secondo i codici della nostra autoreferenzialità. L’individuo isolato vive in un presente permanente, ha dimenticato l’ieri e non si preoccupa del domani.
Le misure cautelari che portano a una restrizione del movimento nei focolai dell’infezione e all’isolamento dei contagiati sono necessarie, ma il modo di intenderle da parte dell’opposizione e del governo sembra più dettato da una logica autoritaria, da stato d’eccezione, di congelamento degli scambi e dei rapporti, per la prima, e da una logica di difesa dalle accuse di mancanza di rigore e di inefficienza, per il secondo. Gli appelli dei medici che si occupano dei contagiati ad abbassare i toni, sono stati ignorati o zittiti da virologi mediatici che danno la loro battaglia in televisione. Non è questo il modo migliore per approntare un sistema efficace di contenimento della diffusione del virus, che non sia prevalentemente reattivo, questa è piuttosto la strada per incentivare la paura nei confronti dell’untore.
La psicologia del coprifuoco, le tonnellate di amuchina con cui si aspira di candeggiare la propria vita, le mascherine che dovrebbero essere usate per non contagiare e vengono, invece, usate per non essere contagiati, illuminano la tendenza strisciante a chiudersi ai legami con gli altri, a cui la presenza del virus ha offerto l’alibi necessario per manifestarsi apertamente.
Quando ci si ritira dalla vita, contraendosi psichicamente, si temono come destabilizzanti la sua complessità e imprevedibilità. Così la paura di essere ammalati di una cosa concreta può essere facilmente infiltrata dalla paura, che prende silenziosamente il sopravvento, di essere ammalati di qualcosa di indefinibile, intrusivo che se ci si riuscisse a mettere davvero a fuoco si rivelerebbe essere il vivere stesso.
Il mondo globalizzato è chiuso all’alterità, al nostro contatto coinvolgente, profondo con gli altri. Il desiderio è diffusamente vissuto come esposizione pericolosa all’altro e percepito come contagio di cui egli è portatore. Per ciò le nostre paure tendono a essere inconsciamente conformate alla paura della contaminazione e quando un’infezione virulenta fa la sua apparizione, funziona come un cerino acceso nel barile di petrolio.
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