Ai miei sette nipoti
Ginevra, Francesca Romana, Marco Valerio
Silvietta, Francesco Saverio,
Matteo, Andrea
e alla nonna
La mia Silvia.
L’ultimo dei miei nipoti, Andrea, 4 anni, che di questi tempi ha smesso – come tutti – di andare a scuola (la materna) per coronavirus, disegna benissimo e così passa parte del suo tempo a fare quello che lui chiama il “coloravirus”. Un gioco bellissimo. È solo dispiaciuto di non poterlo fare in classe coi suoi compagni. Poiché gli hanno detto che non deve uscire di casa e, meno ancora andare dal nonno per non contagiarlo, ho deciso di andare io da lui.
A dire il vero, avevo si interrotto la “quarantin” – come dice la badante Natalia – ma c’era di mezzo, però, se non proprio un “imprescindibile e giustificato motivo”, almeno un perfetto cavillo sanitario. Andrea aveva detto al suo papà, medico specialista alla Neurologia d’Urgenza (UOD UTN) e Stroke unit del Policlinico Umberto I, e alla sua mamma, costretta anche lei a casa dalla scuola dove insegna, che “gli batteva forte il cuoricino”. Ci voleva pertanto un videat cardiologico con tanto di ECG. Era appena tornato. I genitori lo avevano portato a Policlinico, dov’era atteso e i test erano andati bene. Niente paura. Tutti i quattrenni sono un po’ tachicardici, aveva detto lo specialista e Andrea era stato felicissimo (non per la diagnosi) ma di aver avuto quelle attenzioni extra a scapito del fratello grande Matteo di 12. Nondimeno, il suo vantaggio poteva essere ulteriormente incrementato. Aveva, anche sentito dire, da un cugino di 14, Saverio, che semmai avesse avuto bisogno di un medico bravo, si sarebbe fidato solo di nonno Sergio. Dunque Andrea voleva fare anche lui come Saverio. Per gli amanti dei dettagli – i lettori di Pol.It. che si appassionano alle mie storie – posso aggiungere che il papà di Andrea e la mamma di Saverio sono gemelli biovulari, bicoriali, capelli lisci, capelli ricci, flemmatico, fumantina, insomma una coppia di fratelli.
Disegnava tranquillo, immerso in un mare di fogli e pennarelli, quando dopo un po’ che ero da lui, s’interruppe come folgorato da un dubbio improvviso. Alzò lo sguardo verso di me.
– Nonno ai tuoi tempi c’era la luce elettrica?
Restai perplesso, i bambini mi hanno sempre spiazzato. I miei figli per primi. Non sai mai cos’hanno in mente, nè dove vogliano andare a parare. Fino a che non sono diventato nonno, sono sempre stato un pediatra pauroso e scadente. Eppure i corsi (Clinica Pediatrica I Giuseppe Caronia, e II Gino Frontali), i programmi (Fisiopatologia dell’infanzia, Illustrazione clinica delle malattie dell’infanzia, Compito sociale della pediatria, Peculiarità anatomo-fisiologiche dell’età infantile, Alimentazione del bambino, Casi clinici illustranti le principali malattie del bambino), le esercitazioni le avevo fatte. Avevo intercettato perfino un paio di visite di Loris Malaguzzi, allora al CNR, che era venuto a trovare l’Aiuto della clinica. Gli esami li avevo dati, magari fra gli ultimi quattro, con pessimi voti. Dalla mia incerta frequenza, di quell’Istituto scuro e severo che sulla facciata portava marchiato «in puero homo» non trassi alcun profitto, anzi una sorta di inadeguatezza mia a curare i bambini sofferenti. E per un medico, detto sinceramente, non è per niente professionale e neppure bello. Il fatto è che – da qualche parte – ero stato contagiato da un pregiudizio peggio del coronavirus. Proprio quell’aforisma leonardesco mi spaventava e coltivava la mia ignoranza, forse anche la mia stupidità di allora, per aver subìto la fascinazione degli Asclepidi.
Per fare l’anamnesi, ripetevo tra me, devi parlare col paziente, ascoltare la sua storia … ma se non parla, perchè è un bambino, peggio … un lattante? Mi arrovellavo inutilmente pensando tra me ma quand’è che il puero diventa homo? Quand’è che si sviluppa l’Ego e col bambino ci puoi parlare? Eccolo qual era “il rospo” (d’angoscia), che, malgrado Silvia, mia moglie, con la quale abbiamo avuto cinque figli, avesse tentato di cavarmelo, restò intatto fino a quando non diventai nonno, un nonno “infallibile”, come dicono i miei nipoti. Mi sono rivelato accudendo la prima delle mie nipoti Ginevra (oggi psicologa medica alla laurea magistrale), insieme a mia moglie, quando mia nuora me la lasciava per i turni ospedalieri. Poi abbiamo continuato la routine con i sei restanti. Praticamente ho fatto la specialità di neuropsichiatria infantile, quella imparata da Giovanni Bollea. La semeiotica dell’infanzia l’ho imparata benissimo. Il puero non sarà ancora homo (alcuni non lo diventano mai pur avendo un “Ego”), ma capisce e risponde. Da subito. Appena apre gli occhi e te li figge nei tuoi! Il fantolino ti parla e capisce prima di te. Se lo prendi in braccio capisce dal tono della tua muscolatura se deve allarmarsi o se può stare tranquillo. Se poi metti una musica e accenni un passo di danza puoi constatare che la preferenza tra un frenetico ritmo “Band Odessa”, lo “Yambù” della rumba pacata dei nonni, dove sono assenti i movimenti pelvici e un tipico samba di Chico Buarque de Hollanda, Vinicius de Moraes, Joao Gilberto o Jobim, varia a seconda delle ore del giorno (in coincidenza coi “turni” delle mamme). Va da sé che se i fantolini – i componenti del tuo personale Kinderheim – ti sentono ansioso, preoccupato ma anche leggermente nervoso o semplicemente scocciato, generalmente non parlano. Stanno muti e ti guardano pure storto. Quelli della baby observation al “Maudsley Hospital” lo sanno molto bene ed è la prima cosa che t’insegnano.
– Oh si Andrea! C’era, la luce elettrica, ma anche le candele perchè ogni tanto andava via la luce e bisognava accenderle. Anzi no! Bisognava tenere tutto spento perchè c’era la guerra.
– Come adesso?
– Beh no! Adesso non c’è proprio una guerra come quella che ho visto io, anche se potrebbe sembrare. Ma una volta, tanto, tanto tempo fa, quando io avevo l’età di tuo fratello e tuo cugino… c’era più cattiveria, ecco! … forse.
– Ah si? E chi erano i cattivi Nonno?
– Oh! Guarda un po’ che la mamma ha portato il caffé. Adesso il nonno se lo beve con calma … sai come dicono a Napoli Andrea?
– No, come dicono Nonno?
– Il caffé va preso con tre C: caldo comodo e carico!
– Va bene nonno, io continuo a giocare col coloravirus, ché voglio mettere questo nero, e poi mi dici chi erano i cattivi, ma anche i buoni …
Ho avuto il mio bel daffare per districarmi dal ginepraio in cui mi ero cacciato con Andrea, felice di restare a casa, perchè il disappunto di non andare alla “materna” per giocare e fare la merenda coi compagni, era ricompensato dal piacere di usare i pennarelli per fare il “coloravirus” un gioco per lui molto divertente.
In effetti ci sono molti punti in comune tra questo clima minaccioso, inquieto, invisibile, col numero di morti in aumento della pandemia di coronavirus e quello che mi capitò di vivere a Bologna nella metà degli anni Quaranta del secolo scorso, ma come raccontarlo a un bambino di oggi, 76 anni dopo?
Eppure c’era tutto, anche allora. Il coprifuoco, l’oscuramento, la paura, il sospetto … camminare furtivi radendo i muri, stare all’erta, nascondersi, girare muniti di permesso, fare la fila, finire rinchiusi. Solo che allora ci si dava del voi e il rumore era molto più forte di adesso. Si! La colonna sonora, voglio dire. Sparavano, scoppiavano, bombardavano, mitragliavano, attentavano … però bisognava stare anche molto attenti perchè intimavano, requisivano, rastrellavano, confiscavano, piombavano all’improvviso … e zitti perchè in giro c’erano le spie. «Taci! Il nemico ti ascolta» diceva un cartello. «Dio stramaledica gli inglesi» c’era scritto su un altro. Ecco, il chiasso era minore, rispetto al silenzio spettrale di oggi, ma la paura tanta. Adesso, però cantano dalle finestre per farsi coraggio e forse evadere la convivenza che non siamo più abituati a tollerare.
Sto leggendo Carlo Lucarelli, L’inverno più nero, Einaudi, 2020, e solo oggi comincio appena a ricucire, mettere insieme le tessere di un terribile mosaico di ricordi, per cominciare a capire qualcosa di quello che ho passato.
«1944, Bologna sta vivendo il suo «inverno più nero». La città è occupata, stretta nella morsa del freddo, ferita dai bombardamenti. Ai continui episodi di guerriglia partigiana le Brigate Nere rispondono con tale ferocia da mettere in difficoltà lo stesso comando germanico. Anche per De Luca, ormai inquadrato nella polizia politica di Salò, quei mesi maledetti sono un progressivo sprofondare all'inferno. Poi succede una cosa. Nella Sperrzone, il centro di Bologna sorvegliato dai soldati della Feldgendarmerie, pieno di sfollati, con i portici che risuonano dei versi degli animali ammassati dalle campagne, vengono ritrovati tre cadaveri. Tre omicidi su cui il commissario è costretto a indagare per conto di tre committenti diversi e con interessi contrastanti. Convinti che solo lui possa aiutarli». (C. Lucarelli, L’inverno più nero, quarta di copertina)
Ho fatto fatica a leggerlo. Ci ho messo qualche giorno. Ogni tanto dovevo fermarmi. Il passato, quel passato raccontato spietatamente da Lucarelli, senza sconti, tal quale allora, una memoria lontana 76 anni che io avevo completamente rimosso, mi dava la nauseava. Dovevo riposarla, farla sedimentare, per liberare le immagini dai vapori mefitici di quell’inverno del 44, l’inverno più nero. C’erano i cattivi, Andrea, c’erano eccome! Proverò ad andare indietro nel tempo e a raccontartelo come l’ho vissuto io, quel tempo.
Il caso ha voluto che avessi tenuto un paio di quaderni della I e II Ginnasio, una specie di diario che racconta l’inverno del 1943 e anche quello del 1944. Avevo 11-12 anni e scrivevo, male, ma raccontavo quello che vedevo. Inutile aggiungere – a chi ha la pazienza di leggermi su Pol. It da Bollorino – che sono saltati fuori dagli ormai noti “scatoloni”. Si tratta di un impulso. Quando mi viene alla mente un ricordo lontano, corro lì e, rimestando, ci trovo sempre qualcosa. Dopo l’8 settembre 1943 quelli che non accettarono di aver perso e sbagliato, continuarono a farlo. Inventarono la Repubblica Sociale Italiana: seicento giorni di guerra civile, di crudeltà fratricide, di vendette tedesche. Io c’ero! Poco più di un bambino. Vedi Andrea, i bambini ricordano molto meglio dei grandi. Vedono i dettagli, osservano i particolari. Le cose minute rimangono impresse a fuoco. S’ingigantiscono, diventano quadri, icone. Immagini eidetiche come diceva Bruno Callieri. I bambini, osservano tutto dal basso e tutto vedono senza pensare di esser visti perchè il mondo dei grandi li esclude. Per esempio gli Stahlhelm, gli elmetti tedeschi, quando li vedo … mi arresto di colpo e cerco istintivamente una via di fuga. Quando sento una voce rauca tedesca che urla … cerco immediatamente l’interruttore della radio per andarla a spegnere. Non ero tanto grande da essere catturato per la Todt, nè tanto piccolo da non vedere e … scrivere, raccontare a modo mio.
Carlo Lucarelli è un professionista e, il clima bolognese dell’epoca che ti fa respirare, mozza il fiato quanto il coronavirus. Non è un bisticcio di parole. Il giallo non prevale sul nero. L’indagine del suo “commissario De Luca della Politica” si disperde tra le violenze, le torture, i sadismi.
«Alle 17:10, al primo calare del sole, il coprifuoco avrebbe trasformato il suk dentro le mura di Bologna in una città fantasma, accecata dall’oscuramento e muta, a parte gli scarponi delle pattuglie o quelli dei partigiani. Ma fino a quel momento, quella casbah fradicia e sporca, che scoppiava di voci rombando sorda come un treno in una galleria, brulicava di gente che cercava qualcosa, la neve, il burro, una sigaretta, un attimo in piú per superare quello che per tutti, dall’inizio della guerra, forse da sempre, era l’inverno piú ruvido e freddo. L’inverno piú nero» (C. Lucarelli, L’inverno più nero, p. 66).
Io c’ero! Allora abitavo in Via Ernesto Masi 7, fuori Porta Mazzini, Parrocchia degli Alemanni. Ci eravamo trasferiti da Via Leandro Alberti 33, il villino della Signora Gonzali, appena era nato Lucio, l’ultimo dei miei fratelli, nel 1937, in una clinica, in Piazza VIII Agosto. Il Duce aveva stabilito che le donne moderne, dell’Italia imperiale di “Faccetta nera”, da allora in poi, dovevano partorire in clinica. La Monzali, la padrona di casa, era stata, una levatrice professionale negli Stati Uniti, che andava a domicilio delle puerpere con l’automobile. Aveva fatto appena in tempo a tornare in Italia dall’America, prima della “Crisi del Ventinove” con una discreta fortuna. Io, però, ero nato in casa, all’antica, in Via San Giuliano, vicino Porta Santo Stefano, dentro le mura. Ai primi di settembre del 1932 era venuta la zia Gaetana (da Mestre), la sorella più grande di mia madre, per assisterla. Siccome ero curioso, una volta (Tòte ‘a caregheta, vien qua che te conto) mi raccontò come le fasi lunari influenzassero il parto. Dunque bisognava saper riconoscere “le gobbe”.
Il 10 giugno 1940, non avevo ancora otto anni, abitavo a Via Masi, ma mi avevano già portato sotto, dalla signora Sironi al secondo piano a sentire la radio perchè c’era il discorso del duce che doveva dire delle cose importanti. “… L’ora delle decisioni irrevocabili … mi pare di averlo sentito dal vivo, ma poi chissà quante altre volte nei documentari, nei film, nei fono-documenti storici. Non capii che diavolo stesse succedendo, in ogni caso le persone che urlavano alla radio, specialmente quello che sbraitava in tedesco non mi piacevano. Eppoi, guardando gli adulti, le facce erano serie. La Sironi, che poi avrebbe avuto il marito disperso in Russia con l’ARMIR, era la sola del villino a tre piani con sei famiglie a possedere la radio. Successivamente i signori Tanino, ungheresi, nostri dirimpettai del terzo, comprarono una telefunken che poi vendettero a noi prima di scappare da Bologna.
Il primo bombardamento aereo lo subimmo a Borgo Panigale tra il 15 e 16 luglio del 1943. Era di notte e i miei ci svegliarono per portarci al rifugio antiaereo. Mi ricordo benissimo le luci dei bengala ma non lo scoppio delle bombe. Mi pare dicessero che erano inglesi, quadrimotori “Lancaster”, quelli con l’ala Davis, il caratteristico piano di coda con la doppia deriva ovale. Poi fu un crescendo infernale. Si calcola che Bologna sia stata martoriata da 32 grandi bombardamenti “a tappeto” da aerei a largo raggio e grande carico, che salgono a 93 calcolando le incursioni di media entità ed escludendo gli attacchi mirati, improvvisi e spietati di “Pippo” il “caccia” che spuntava come un falco per mitragliare qualsiasi cosa si muovesse, soprattutto civili per terrorizzare. Già avevamo le nostre micidiali insidie sanitarie qui in terra. I miei genitori, ricordavano la strage mondiale della pandemia di “Spagnola”, un influenzavirus A (sottotipo H1N1) da 50 milioni di morti nel 1919-20 ed un disturbo collaterale chiamato Parkinsonismo post-encefalitico (5 milioni di demenze). Allora, in quel perfido 1943, erano terrorizzati da un’altra pandemia virale, quello della poliomielite. Non era il modernissimo coronavirus bensì un enterovirus molto contagioso e cattivissimo produceva piccole epidemie ché colpivano i bambini (prevalentemente 5-9 anni) e trasmetteva la paralisi infantile ("malattia di Heine-Medin"). La nostra era una fuga continua per trovare un varco tra le bombe e il poliovirus. Ricordo mio padre che ci aspettava alla stazione di Bologna. Con mia madre tornavamo da Salsomaggiore, dove avevamo portato Lucio il più piccolo per 10 gg. a curarsi l’asma allergico. Senza nemmeno farci passare da casa ci mise sul treno per Padova e ci disse di andare dritti a Valstagna, casa del nonno Giovanni (il padre di mia madre).
– Falli visitare dal medico condotto, appena arrivi! Le urlò dietro mentre il treno si muoveva.
In Via Masi alla palazzina davanti alla nostra c’era stato un caso di “polio”. Il medico condotto di Valstagna, l’ambulatorio alla contrada “Londa” lo teneva nella casa di Toni postin e mia madre ci portò lì immediatamente. Il giorno dopo venimmo a sapere che il dottore aveva visitato sullo stesso lettino due casi di polio (uno di Oliero e uno di San Nazario). Solo dal 1955 sarebbe stato possibile preparare un vaccino sicuro per via parenterale (Jonas Salk) e, poco dopo, ancora uno più comodo per os (Albert Sabin), quello sullo zuccherino, che i nonni come chi scrive, hanno dato ai loro figlioli. La guerra intanto continuava e i bombardamenti su Bologna pure. Venne l’8 settembre del 1943 e il caos fu totale.
All’incrocio di Via Masi che attraversava Via Mazzini per continuare in Via Pelagio Pelagi dove veniva a stare la Lina (la nostra lavandaia), c’era il chiosco del gelataio Secondi, con un figlio che giocava nella serie “C”. Se giravi subito a sinistra, tornavi indietro su via Mazzini verso la chiesa degli Alemanni. Prima però incontravi il forno dei Casali che faceva anche le torte di castagnaccio con sopra i pinoli. Io generalmente ero incaricato di fare la spesa giornaliera e comperare 2 chili di pane (a casa ne giungeva 1 chilo e mezzo). Spesso incontravo quelli delle brigate nere con la classica divisa, un paio di misure abbondanti (maglione nero girocollo, giacca senza rever, basco nero) e Mab38 con canna bucherellata. Uscivano dal forno “Casali” con dei gran pezzi di castagnaccio o delle piadine scure di crusca, perchè la farina doppio zero te la potevi sognare. Erano appena un po' più grandi di me. Potevano avere l’età di Aldo, mio fratello grande, 16-17 anni.
Se prendevi a destra del gelataio Secondi e risalivi verso Via Laura Bassi, fatti pochi passi di Via Mazzini incontravi il “Palazzo Isola”, un villone con giardino. Si dice che all’ultimo piano ci fosse una donna anziana ma energica – la signora Tolella – che infiammava i ragazzi (come mio fratello Aldo) tenendo loro concioni patriottiche per spingerli ad arruolarsi nelle brigate nere. Di queste reclutatrici, figure apparentemente nobili, tipo “vedove-di-guerra”, finte “madri-della-patria” ce n’erano parecchie in giro, dopo l’8 settembre 1943.
Il pasticcio dell’8 settembre, fu gigantesco e la fuga dalle responsabilità totale e incosciente. Peggio ancora, l’assunzione di mandati impropri e arbitrari fu criminale. Non si capiva chi dovesse trattare con chi, l’armistizio (“Breve” o “Corto”, oppure quello “lungo”) su mandato di chi e a quali condizioni, in quale giorno di settembre, in quale ora e da chi dovesse essere dato l’annuncio dell’armistizio medesimo con gli Alleati … Cataste di libri e storici famosi hanno studiato il fatto. Per dire, la confusione tra i numerosi protagonisti italiani della trattativa: consiglio della corona, stato maggiore, ambasciatori e un numero sorprendentemente nutrito di generali: Castellano, Carboni, Ambrosio, Roatta, Badoglio, ecc. Eisenhower aveva già dato l’annuncio ufficiale dell’armistizio da radio Algeri, al mattino presto, quando l’esitante Pietro Badoglio (quello di Caporetto), pressato anche dall’incremento dei bombardamenti “Alleati” che picchiavano come forsennati sulle città italiane (anche Bologna), lesse lo storico proclama «Il governo italiano … ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower … ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare» trasmesso alle 19:45, dell'8 settembre 1943, dai microfoni dell'E.I.A.R. Noi lo ascoltammo al secondo piano di via Ernesto Masi dalla signora Sironi che, come ho detto sopra, aveva smarrito il marito in Russia.
25 Settembre 1943. Non passa molto tempo che a Roma, al Teatro Adriano, il generale Rodolfo Graziani, nemico giurato di Badoglio, (quelli dei gas asfissianti al Negus), quasi a fargli dispetto pronuncia un lungo discorso che, asciugato della retorica, praticamente si riduce a dichiarare che per atto di fedeltà, la guerra continua con Mussolini accanto a Hitler. Il massimo della fedeltà è la morte. E morte continuò ad essere, a farsi, in un macabro divenire. Morte feroce, spietata. Anche senza virus.
Io c’ero, Andrea, me li ricordo benissimo tutti e due. Il gioco dei bambini dell’epoca era procurarsi il “berretto del comando”. Se tenevi Badoglio, la “bustina”, se tenevi Graziani, la “bulgara”. Anche la nonna Silvia, mia moglie, 9 anni, c’era. Solo che lei stava a Roma «Città aperta», dove «la gente a Messa cadeva a terra svenendo per la fame». Mi raccontò anche un dettaglio personale di quel pazzesco 8 settembre. «Lo sai che rimasi molto colpita dal fatto che il generale Roatta era scappato vestito da frate e non si trovava più! Era svanito nel nulla. Tormentavo mio padre ogni giorno per sapere se l’avessero trovato. Ero convinta che fosse lui a dover firmare la pace per l’Italia».
A Bologna c’erano molti problemi, tutti molto gravi per tutti, militari e civili. Da questi ultimi i più temuti erano i bombardamenti. Ma anche gli attentati, perchè i tedeschi si vendicavano alla tedesca: per ogni soldato tedesco, dieci ostaggi italiani … C’era già stato un attentato al Grand Hotel Baglioni il 29 settembre 1944, ma i “GAP” (Gruppi di Azione Patriottica) pasticciarono e non fecero gran danno ai tedeschi. Ce ne sarebbe stato un altro il 18 Ottobre 1944. Così il comando tedesco avrebbe fatto tesoro, imparando a star lontano dal lusso e dagli “uomini dalle chiavi d’oro”, parafrasando Léo Joannon, Pierre Fresnay e Annie Girardot. Kesselring, per l’appunto, il tracotante generale tedesco avrebbe trovato più opportuno dirottare verso luoghi più sobri, nascosti e sicuri sul tipo di quello che era stato il Monte Soratte. Ma le bombe “alleate”? Alleate di chi poi? Pensavo io, Andrea. Mi ricordo la micidiale incursione del 13 ottobre 1944. Io ero presente e sono in grado di rivederla senza il minimo sforzo. Non so per quale incredibile intuizione ero scappato sul colle dell’Osservanza e da lassù ho assistito allo spettacolo apocalittico delle formazioni di fortezze volanti (Flying Fortress) che si avvicendavano ad ondate su Bologna per sganciare il loro carico di ferro e di fuoco, praticamente senza interruzione. C’era li un vecchietto molto attento che, a voce alta per sovrastare il frastuono, le fiamme e il fumo grigio, agitando le braccia in aria, col naso in su, commentava, spiegava, imprecava in dialetto, la direzione, le ondate, le formazioni dei vari Boeing, Liberator …
– Guardé mo là! Ien sté qui’ lé chi han scurzé!».
Fu proprio in seguito a questa carneficina che i miei decisero di scappare dalla città di Bologna. Così, a 12 anni feci anche l’esperienza di sfollare in campagna. A metà ottobre ’44, con mia madre e Lucio facemmo fagotto, chiudemmo Via Ernesto Masi e uscimmo da Porta Saragozza. Tirammo dritto per la Via Emilia guardando soprattutto in cielo e ascoltando i rumori caso mai dovesse arrivare “Pippo il mitragliatore”. Girammo per la “Bazzanese” e camminammo spediti fino a Zola Predosa, ma la meta finale era una stanza in una canonica a San Martino di Ponte Ronca, poco più avanti. C’erano anche altre persone, tutte ospiti del parroco, e una specie di nascondiglio o di rifugio dove si scendeva da una scala con una ringhiera che scompariva tra una grande quercia e il muro della canonica. Noi non parlavamo con nessuno. Aspettavamo periodicamente mio padre e Aldo, che per arrivare fin là passavano per i campi, nascosti tra le forre e le siepi con le biciclette a fianco, portate a mano, per evitare i rastrellamenti dei tedeschi e dei loro complici italiani, quelli che facevano la spia. Tra gli altri che erano lì con noi, a San Martino, dal parroco, c’era uno, che si chiamava Luciano, seduto su una sdraia che parlava con altri, concitatamente. sembrava desse ordini. Qualche volta si alzavano di scatto per andare nel rifugio, senza che suonasse l’allarme. Fu così che mi accorsi che questo Luciano aveva una gamba rigida.
Dopo meno di un mese, mio padre, facendo le solite acrobazie ciclistiche con Aldo (non c’erano ancora le “enduro”), per evitare i rastrellamenti, venne a prenderci per portarci a Bologna. Aveva avuto informazioni che davano per sicuro lo status di “città aperta” per il capoluogo emiliano. Si prevedeva un rientro generale, imponente, di uomini e bestie. Loro rientrarono per le forre e i campi, noi per la “Bazzanese”. Fu veramente un’impresa temeraria. Anche questa, Andrea, mi basta chiudere gli occhi e rivedo tutto nitido come un film, Mia madre, io nelle sua mano destra, Lucio nella sinistra, camminiamo tra due ali di postazioni di mitragliatrici spianate sul treppiede. Le truppe tedesche sono schierate lungo i bordi della strada, pancia a terra, elmetti calcati in testa, gli Stahlhelm, proprio quelli, dei cattivi, con quella sagoma inconfondibile, faccia truce, placche d’acciaio luccicante, gorgere d’argento ("SS-Streifendienst",) che pendono sinistre e lampeggianti dal collo. Uno via l’altro, intervalli di 200 metri, forse, muti, silenziosi, terribili. Scivoli lambito dalla paura in un tubo stretto spinto da un soffio fetido. Quando arriviamo a Casaleccchio di Reno voci disumane squarciano il silenzio. Uno Scharführer, insomma, un graduato SS, imbestialito, picchia ferocemente col calcio del Maschinenpistole sulla schiena di un gruppo di uomini rastrellati. Li costringe a salire sulla bocca posteriore di un camion militare con la tela arrotolata come una bocca spalancata, nera. Urla con voce rauca, sinistra, potente, sbraita come Hitler nei suoi assordanti “discorsi” che radio compiacenti trasmettono in continuazione: «Presto! Presto! Io molto arrabbiato! Schnell! Schneeell!!». Ecco, te li porti dentro tutta la vita, come su un Desktop eidetico.. Se socchiudi leggermente gli occhi e vai indietro nel tempo, in quella direzione, senti ancora il timbro… la rabbia feroce… Più avanti, appesi agli alberi c’erano gl’impiccati per rappresaglia, monito terribile, il solito … Per ogni soldato tedesco ucciso 10 Italiani… Mia madre ci copriva gli occhi a me e a mio fratello piccolo, ma io traguardavo tra le sue dita, volevo vedere bene la cattiveria di quelle divise, quegli elmetti, quelle placche d’acciaio, bestie feroci non uomini! Non avrei più scordato, rimosso, neppure perdonato. Avevo 12 anni. Successivamente mia madre venne a sapere – e me lo disse – che appeso a quegli alberi c’era il corpo straziato del dottor Busacchi, il mio pediatra.
L’inverno più nero quello di Carlo Lucarelli doveva ancora venire ma la guerra continuava. Quanto alla questione di Bologna città “chiusa” o “aperta”, “bianca” o “nera”, quella a cui tutti avevano riposto le loro speranze, era storia vecchia. Le cronache del tempo riferivano che l’ingegnere edile Mario Agnoli (1898-1983) – commissario prefettizio – venne eletto Podestà di Bologna. Vecchio fascista della prima ora non aveva mai avuto incarichi politici durante il ventennio. Quando, dopo l’8 settembre 1943, i tedeschi invasero l’Italia e imposero un governo fantoccio presieduto da Mussolini, si fu costretti a scegliere se andare a Verona, dalla parte sbagliata oppure no. Mario Agnoli, che aveva aderito alla Repubblica di Salò (RSI), divenne dunque il “primo cittadino” di “Felsina” per tutta la restante durata del conflitto, fino alla “Liberazione”, che sotto le Due Torri, avvenne il 21 aprile 1945. Esponente della parte più moderata dei “repubblichini”, si era adoperato in tutti i modi – e con tutte le autorità possibili e immaginabili (gerarchia cattolica compresa) – per la salute e l’incolumità di Bologna e dei suoi abitanti senza riuscirvi. Voleva che fosse dichiarata "città aperta" o "città bianca" ma nessuno lo ascoltò fino all’ultimo. Il Feldmaresciallo Albert Konrad Kesselring, addirittura, in una lettera molto nota del 22 gennaio 1945, aveva risposto che “La città poteva essere inclusa nella zona di combattimento […] Nonostante gli sforzi […] per non fare […] di Bologna un campo di battaglia […] necessità militari imposte dal nemico mi possono costringere a comportarmi diversamente […] da difendere «casa per casa»”. Per fortuna Bologna perse tutta la sua importanza come nodo strategico militare e praticamente non fu più bombardata, dopo la strage del 13 ottobre 1944.
Di ritorno da San Martino non andammo in via Ernesto Masi che era fuori porta, ma prendemmo in affitto un appartamento in via Zamboni 6 dal dentista dott. Peluso. Stavamo al piano rialzato, avevamo un terrazzino interno dove mia madre aveva messo una stia con dentro un cappone (da rigovernare) e un sacco di patate. Vi abitammo fino alla liberazione. In quel palazzo ci stava anche e aveva un negozio di musica, la mamma di Nilla Pizzi (1919-2011). Le cose intanto peggioravano, Andrea, nè più nè meno che adesso col Covid-19.
Per tutto l’inverno del 1944 “L’inverno più nero” come scrive Carlo Lucarelli, la città si era colmata fino all’inverosimile di uomini, bestie e criminali, di ogni genere e specie. Ne ricordo uno senza un braccio, con la manica vuota attaccata alla sahariana cachi con un ago da balia. Scorrazzava sinistro per Bologna in divisa della “Decima”, mi pare, e col basco, padrone di tutto. Si diceva che l’avesse perso ad El Alamein contro gl’inglesi (il braccio). Era figlio di un macellaio col negozio in “Strada Maggiore” (Stramazzaur). Mia madre andava a comprarci della carne … quando c’era e con la tessera annonaria. Ogni tanto si affacciava qualcuno.
– Si è visto suo figlio? –
– L’è tant ch’l’aspett me … ma s’al ciapp … –
Era un omaccione corpulento, non molto alto, ma dietro al bancone di legno coi coltelli vicino, sembrava il pescatore verde di Pinocchio. Forse aveva proprio ragione di temere il padre. Chissà la madre, poveretta.
Quanto alla promiscuità, Lucarelli ha ragione, non dimentica proprio nulla, nemmeno la Sperrzone in centro, come una stalla con lo strame per terra.
«Quando erano entrati con la 1100 in via Ca’ selvatica, che anche se era nel centro di Bologna sembrava davvero campagna selvaggia con tutte quelle mucche e quei covoni di fieno in mezzo alla strada, ammucchiati dai contadini con i forconi […] La Sperrzone, la Zona Chiusa […] si era trasformata in un enorme ghetto alla rovescia, zeppo di residenti autorizzati, sfollati e profughi, cinquecentomila aveva detto il Podestà. Un sacco di gente […] il centro di Bologna era diventato una stalla a cielo aperto. Diciottomila bestie, diceva il Podestà, ed era un calcolo approssimativo […] Carri lungo la strada, stie di polli contro i muri delle case, mucche legate da una corda, capre in un recinto …» (C. Lucarelli, L’inverno più nero, pp. 24-25).
Caro Andrea, probabilmente non saprai che “le file” non sono una invenzione del Covid 19 fuori dai supermercati che hai visto con la mamma, ma c’erano anche quando era bambino il nonno. Te ne dò una prova. Non è che mi voglia paragonare a uno scrittore del calibro di Carlo Lucarelli ma penso di non sfigurare se dopo le sue citazioni riporto una “Cronaca libera” scritta sul quaderno di scuola di “II Ginnasio” quando avevo 12 anni, come ho detto all’inizio e che seguiva una dettatura dell’insegnante per farci memorizzare che “l’inverno solitamente inizia il venerdì 22 dicembre, quando dovrebbe esserci il solstizio d’inverno in cui si verifica il giorno più corto dell’anno”.
«Oggi sono stato a far la fila. Eravamo così stretti che se fossimo stati in una scatola con l’olio saremmo parse tane sardine conservate. Avevo appena mangiato e in mezzo a quel putiferio ho digerito meravigliosamente. A un bambino che era dinanzi a me è venuto male e ha dovuto andare nella strada, ma poi è tornato in fila perchè io gli ho tenuto il posto. È una cosa curiosa la fila ed è di moda: stile 900. sono stato là più di due ore per prendere cinque candele e due chili di sapone come se me li regalassero. In fila si è tutti amici e si discorre moltissimo non avendo nulla da fare. Anch’io ho voluto fare lo spiritoso dicendo qualche cosa che ha fatto ridere come: quando sono dentro dal candelaio gli dico mi faccia studiare la quarta coniugazione di latino, oppure: a momenti ci prendono e poi ci mettono nei budelli per fare la salsiccia. A far la fila garantisco che non ci vado più perchè ne ho già abbastanza di oggi. In ultimo è venuta la mamma ma io non le ho ceduto il posto per evitarle un così gran disagio. Ormai ho fatto pratica delle file ed ho imparato che se si sta verso il muro si riesce ad entrare in bottega ma se si sta dalla parte esterna la guardia dice: lei è venuto dopo perciò vada di dietro. Mi è accaduto sovente così, ma ora mi son fatto furbo e non mi fregano più. Certe cose al giorno d’oggi bisogna saperle se si vuole ottenere qualche cosa quando ci sono le file ed io ora sono al corrente cos’ se per disgrazia vado a far la fila mi posso sbrigare il più presto possibile». 10 gennaio 1945. Una mano gentile e pietosa, quella dell’insegnante immagino, con l’inchiostro rosso, corregge i non molti errori, aggiusta il periodo e la punteggiatura, deponendovi un incoraggiante Visto.
Caro nipote Andrea e tutti gli altri, speriamo di poter dire presto con Leopardi
Passata è la tempesta …
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.
…
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
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