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COVID-19: Di fronte alla pandemia: ubriacatura maniacale e crollo depressivo come nemici del realismo e della razionalità.

23 Mar 20

A cura di Sabino Nanni

     
Ci troviamo, in un periodo di emergenza, di fronte a difficili problemi, che tuttavia esigono una soluzione il più possibile rapida: le caratteristiche del coronavirus ci sono ancora in gran parte sconosciute; non disponiamo, al momento, di terapie sicuramente efficaci; l’organizzazione delle cure presenta evidenti défaillances; si fa fatica anche a trovare una politica sanitaria ed economica adeguata alla situazione: una soluzione organizzativa che soddisfi esigenze vitali, e tuttavia apparentemente tra loro inconciliabili. Oltre a ciò, non possiamo ignorare che quelli scientifici, clinici e organizzativi non sono gli unici problemi: occorre anche lottare contro chi (anche fra gli esperti e le autorità politiche), pur in buona fede, sta oggettivamente “remando contro”. Parlo di chi divulga notizie confortanti, ma la cui veridicità è ancora da confermare (oppure decisamente false), e tuttavia presentate come indiscutibilmente vere e certe: nuovi farmaci che, a quanto dicono i sostenitori, risolverebbero prontamente e del tutto il problema, soluzioni organizzative ritenute “perfette” e “infallibili”, presunti indizi di un prossimo superamento della crisi. In contrasto con tale ottimismo ingiustificato e insensato, c’è chi vede incombente una catastrofe contro cui nulla potremo fare: la pandemia, secondo costoro, produrrà fatalmente una strage immensa; ne seguirà, a loro giudizio, una crisi economica da cui mai più potremo risollevarci.
        Siamo in guerra, e si sa che se, fra le truppe, domina la faciloneria di chi vede “tutto rosa”, o il disfattismo di chi vede “tutto nero”, ci si trova di fronte a nemici che potrebbero rivelarsi ancor più pericolosi di quello che si deve combattere. Che fare di fronte a queste risposte emotive che minacciano di sopprimere la razionalità e il realismo, ora più che mai necessari? Come di fronte a pazienti che presentino una “ubriacatura” maniacale o un crollo depressivo, occorre innanzi tutto comprendere la natura dei loro particolari problemi. Ciò richiede una riflessione calma e paziente; ed è calma e pazienza che chiedo a chi dovesse leggere queste righe. Dovrò, infatti, partire da considerazioni apparentemente lontane mille miglia dai problemi della pandemia che dobbiamo affrontare.
        In situazioni di grave difficoltà, gli esseri umani tendono a regredire, ed è ad un livello regressivo di funzionamento mentale che qui occorre rivolgere la nostra attenzione. Cruciali, nello sviluppo affettivo e mentale del bambino, sono due svolte: quella in cui l’investimento affettivo viene rivolto non più esclusivamente a sé stesso, ma anche ad un’altra persona diversa da lui; e, in secondo luogo, quello in cui, gradualmente e faticosamente, il piccolo impara ad amare questa ed altre persone, pur riconoscendole realisticamente come esseri mortali, imperfetti e non necessariamente controllabili. Shakespeare, anticipando di alcuni secoli le osservazioni di Kohut, ci descrive il primo di tali passaggi in questi bellissimi versi del sonetto XXXIX:

 
Oh how thy worth with manners may I sing,
When thou art all the better part of me?
What can mine own praise to mine own self bring?
And what is ’t but mine own when I praise thee?
Even for this, let us divided live,
And our dear love lose name of single one,
That by this separation I may give
That due to thee which thou deserv’st alone

(Oh! Come posso io degnamente cantare il tuo valore / se tu sei tutta la parte migliore di me? / Che cosa può [di nuovo, di utile] il mio elogio [di me] portare a me stesso? / E lodare te non è forse far l’elogio di me stesso? / Appunto per questo conviene che noi viviamo divisi / e che il nostro caro affetto perda il nome di unico / affinché io possa, con tale separazione, / renderti quel doveroso omaggio che tu solo meriti)

 

        Qui il Poeta, nella sua infatuazione amorosa, sente di dover di nuovo affrontare un problema antico: quello in cui l’illusione, pur rassicurante, della persona amata vissuta come prolungamento di lui stesso (una parte di lui docile ai suoi comandi) si rivela sterile e incompatibile con un vero amore. C’è qui la scoperta di quanto sia svantaggiosa l’economia affettiva di tipo “autarchico” del narcisismo primitivo, in cui gli apprezzamenti che partono dal soggetto sono rivolti unicamente al soggetto stesso, ed il mondo esterno reale, completamente escluso, non può offrire all’individuo alcun effettivo arricchimento alla sua vita interiore. Conviene, quindi, accantonare l’illusione d’essere “tutt’uno” con l’oggetto d’amore: solo vivendo due esistenze separate potrà esser possibile al soggetto riconoscere, nella persona amata, quei pregi che appartengono solo a lei, e non al soggetto stesso. Notiamo che questa importante e delicata svolta evolutiva richiede due condizioni che saranno successivamente e gradualmente superate (e che non devono esser soppresse prematuramente): l’oggetto d’amore è idealizzato oltre ogni misura (originariamente si tratta di una madre soccorrevole vista come incapace di deludere, infallibile, immortale); inoltre il possesso di tale oggetto deve essere garantito, in modo che, non sentendosi escluso dalla sua “grandezza”, il soggetto possa più facilmente rinunciare al monopolio di ogni merito e valore. A queste condizioni non realistiche, paradossalmente il soggetto inizia ad acquisire una visione più realistica di sé stesso, oltre che quell’importante atteggiamento affettivo che si chiama umiltà. Notiamo, inoltre, che il passaggio dall’egocentrismo all’amore per un’altra persona non comporta una repressione, da parte del bambino, dell’amor proprio, ma l’accesso ad una forma più evoluta, più lungimirante di riguardo per sé stesso: apprezzandosi un po’ di meno, e valutando di più chi si occupa di lui, avrà tutto da guadagnare. Nei termini usati da Kohut, si tratta del passaggio da una forma più primitiva ad una più matura di narcisismo. Kohut precisò la linea di condotta da tenere nel trattamento di una certa patologia del narcisismo: si tratta di aiutare il paziente a riprendere quel cammino evolutivo che, nel corso della sua storia personale, era stato interrotto. L’atteggiamento da lui suggerito è quello della “frustrazione ottimale”: si tratta di limitare gradualmente l’illusione di “perfezione” (dapprima di sé, e successivamente dell’oggetto d’amore) attraverso frustrazioni che siano commisurate a quanto il soggetto, nella sua fase di maturazione, può tollerare (ogni cosa a suo tempo!); frustrazioni che siano, inoltre, temperate dalla comprensione empatica di quello che il soggetto, di fronte a tali rinunce, sta provando. Una confutazione prematura delle illusioni di grandezza o, peggio, una brutale condanna moralistica dell’apparente egocentrismo ed egoismo del paziente, sarebbero del tutto controproducenti. Il soggetto, in questi casi, potrebbe ritirare il suo investimento affettivo idealizzante sull’oggetto del suo amore, rivolgerlo nuovamente a sé stesso, e ritornare a nutrire idee deliranti d’infallibilità, onniscienza e onnipotenza. Oppure potrebbe rivolgere verso sé stesso l’ostilità ed i sentimenti di svalutazione suscitati dall’oggetto esterno deludente, e perdere ogni fiducia nei confronti di qualsiasi risorsa umana, propria ed altrui. Ecco qui la base emotiva profonda di quella “ubriacatura” maniacale e di quel crollo depressivo (dell’ottimismo insensato e del disfattismo irragionevole) di cui parlavo più sopra.
      Non è possibile trasporre meccanicamente quel che si è appreso nell’ambito di un rapporto terapeutico alla relazione fra la gente e coloro che dovrebbero informarla e soccorrerla: esistono analogie, ma anche importanti differenze. Simile, nei due casi, è la regressione (pressoché inevitabile di fronte a serie minacce, quali un grave contagio) a comportamenti e modi d’essere infantili: il ritorno alla sicurezza illusoria delle forme primitive di narcisismo, dato che le risorse adulte ed evolute si sono dimostrate, al momento, inefficaci. Simile è, quindi, la tendenza ad aggrapparsi alla presunta onniscienza e infallibilità delle autorità scientifiche, sanitarie e politiche. Simile anche, nel caso in cui queste non siano in sintonia con lo stato d’animo della gente, la delusione ed il ripiego su forme irragionevoli d’idealizzazione delle proprie risorse: “l’autorità non sa propormi nulla di utile, e allora ci penso io!”; oppure la sfiducia totale, la più completa disperazione e il più cupo pessimismo. La situazione clinica e quella sociale sono, invece, diverse perché nelle persone comuni non esiste “coscienza di malattia”, come nei pazienti trattabili; di conseguenza, non c’è richiesta esplicita di un aiuto a “guarire”, ossia capirsi ed evolversi. Diverso è anche il fatto che le autorità, in genere, non hanno la stessa esperienza e la stessa preparazione degli psicoterapeuti.
        Avendo chiarito (spero) quali insegnamenti possiamo, o non possiamo, trarre dall’esperienza clinica, cerco qui di seguito di precisare quanto può essere raccomandabile in questo momento di grave difficoltà. Il maggior pericolo da scongiurarsi, da un punto di vista emotivo, è che le autorità stesse (medici, ricercatori, amministratori) perdano il loro equilibrio interiore. Se chi dovrebbe, nei limiti del possibile, rassicurare e proteggere (esser vissuto, a livello profondo, “in loco parentis”), cade in comportamenti di tipo regressivo e infantile, costui perde facilmente la propria credibilità. È regressiva e infantile la presunzione d’infallibilità e onniscienza. Ostentando un ottimismo ingiustificato, vantando certezze che non possiede, cercando di manipolare le emozioni della gente (tranquillizzarla o spaventarla) con notizie non veritiere o fra loro contraddittorie, l’autorità può produrre un temporaneo sollievo nelle persone comuni. Tuttavia, agli occhi di molti, i fatti ben presto smentiranno le false dichiarazioni, i tentativi di manipolazione verranno in breve tempo smascherati, e ciò provocherà un crollo della fiducia. Altri che, grazie ad una sorta di “fede”, continuano a chiudere gli occhi di fronte alla realtà ed a credere ciecamente alle autorità, finiranno per obbedire acriticamente ed ottusamente a quanto viene da esse disposto; e questo in una situazione che, al contrario, richiederebbe una collaborazione responsabilizzata e consapevole da parte di tutti.
        Quel che è raccomandabile è che gli esperti forniscano con sicurezza alla gente le poche informazioni verificate ed i pochi suggerimenti indiscutibili di cui si dispone al momento. Per il resto, se non è bene deludere brutalmente le attese di una pronta risoluzione dei problemi, non è neppure consigliabile alimentare una sopravvalutazione ingiustificata, dei poteri e delle capacità di chi può e sa. Credo che la linea di condotta preferibile sia ammettere onestamente che, accanto a quel poco che è stato accertato, ancora molto deve essere capito ed organizzato, ma che sicuramente si provvederà a creare nuove risorse nel più breve tempo possibile. Affinché le autorità mantengano il proprio equilibrio interiore, è bene che, fra loro, esse esercitino un reciproco controllo. Ma è anche bene che la gente si sforzi di evitare, con le proprie pressioni, di spingerle a dichiarare notizie confortanti di cui nessuno può essere sicuro.
        Quanto all’atteggiamento di chi, in questa situazione generalizzata d’incertezza e angoscia, cerca disperatamente di riprendere il controllo delle emozioni esprimendo incautamente critiche e proposte senza averne la competenza, trovo che sia uno sbaglio zittire brutalmente queste persone, accusandole di presunzione ed affermando dogmaticamente l’autorità della scienza. Costoro non tollerano di dover subire passivamente quel che sta avvenendo. Hanno bisogno d’essere indirizzati, attraverso un dialogo con chi è più esperto, verso un atteggiamento più maturo e razionale, in modo che la loro sensazione di partecipare attivamente alla lotta contro l’epidemia abbia basi più realistiche. Ciò richiede cautela, sensibilità, ed un uso della “frustrazione ottimale” nei confronti della pretesa infantile di poter trovare, tutta e subito, una facile soluzione di tutti i problemi.
      Si è detto, giustamente, che riusciremo a vincere questa guerra attraverso l’attiva collaborazione di tutti, ognuno facendo la sua parte. Non possiamo pensare che la vittoria arrivi grazie all’opera di poche autorità e di pochi esperti, mentre tutti gli altri dovrebbero soltanto attendere passivamente che questa situazione infernale finisca, oppure obbedire acriticamente e senza convinzione a quanto viene disposto. Per ottenere un’attiva e razionale partecipazione di tutti, occorre recuperare, anche se gradualmente e faticosamente, un rapporto fra le persone di tipo adulto, consapevole, responsabile. Non sarà facile, soprattutto per qualcuno, ma è l’unico modo per “uscire a riveder le stelle”.      

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