Dal 21 febbraio 2020 il nostro orizzonte quotidiano e di vita è cambiato: c’è una epidemia che coinvolge improvvisamente e inaspettatamente tutti nello stesso momento e (ora) in tutto il mondo. Come stiamo vivendo questo radicale cambiamento di prospettiva? Che segni lascerà questa esperienza sul piano personale, emotivo, psicologico, etico, sociale, economico, politico, umano?
Il Coronavirus ha invaso i nostri corpi, ma anche le nostre menti e ogni azione e ambito del quotidiano ne risulta inevitabilmente interconnesso; la stanza della terapia, nostro osservatorio privilegiato, certamente ne ha visto l’ingresso sin dai primissimi giorni di emergenza, entrando certamente tra i temi più affrontati per i vissuti complessi che ha generato: sfide emotive nell'affrontare i faticosi cambiamenti delle molte abitudini quotidiane, ma anche l’affiorare di ricordi di un passato più antico in cui ci si è sentiti per infiniti altri motivi proprio così: costretti, isolati, impotenti, vulnerabili, in balia di eventi nuovi e sconosciuti. Ma se siamo tutti vergini di fronte a questo nuova minaccia, a chi affidarsi per fronteggiarla al meglio e mettersi al sicuro?
Il senso di sicurezza, appunto, per noi esseri umani è un tema che resta sempre sul confine di un difficile equilibrio tra una percezione soggettiva, costruita nell’arco di tutta la propria vita emotiva e relazionale, e un necessario calcolo oggettivo dei rischi esterni, che pure abbiamo bisogno di considerare per proteggerci. Tutti – cittadini, governanti, scienziati – ci siamo improvvisati funamboli in questi giorni difficili: desiderosi di tenerci in vita nell’imminente pericolo, ma attenti a conservare le energie per tollerare un’emergenza che potrebbe prolungarsi, magari tenendo in tasca un po’ di forze per poter festeggiare alla fine del filo e iniziare la risalita una volta che il pericolo sarà passato.
Primo elemento destabilizzante: il nostro interfacciarci quotidiano con le notizie. All’inizio molto allarme. Seguito da troppo poco allarme per recuperare gli aperitivi persi. Milano non si ferma. Bologna non si ferma. Tutti di nuovo fuori a lottare a viso aperto. Ma contro chi?
Poi finalmente una indicazione concreta dall’OMS: non serve tenersi aggiornati minuto per minuto, se non a creare stati di ansia, panico e sopraffazione. Una volta al giorno e sui canali ufficiali è sufficiente per restare informati e proteggersi. E comunque: è meglio restare in casa per attività non necessarie.
Ma dopo quel primo allarme è duro il ritorno alla calma.
E non si tratta solo di una difficoltà individuale, di una incapacità soggettiva e auto-regolante, ma di una difficoltà che abbiamo avuto tutti come specie nel far rientrare un allarme che da esterno è diventato interno e continuo, rendendo evidente uno scenario neurobiologico più complesso cui siamo tutti assoggettati.
Da una prospettiva psicotraumatologica è impossibile non notare gli effetti emotivi di questa improvvisa perdita del senso di protezione e sicurezza: il nostro sistema di difesa primitivo (Porges, 2001) è entrato subito in azione e per tutti ha funzionato sulla base delle informazione (e delle notizie!) captate nell’ambiente circostante.
Quando ci sentiamo davvero minacciati infatti, la Neurocezione (Porges, 2004) – capacità innata del sistema nervoso autonoma di intercettare pericoli nell'ambiente – attiva il sistema di difesa che taglia le attività corticali, la razionalità e il ragionamento, per farci agire velocemente a protezione della nostra vita. Ma cosa succede se questo sistema di difesa viene sollecitato in modo eccessivo, continuativo e incoerente?
Le normali difese di richiesta di aiuto (attacchment-cry-for-help), attacco (fight), fuga (flight), congelamento (freeze), resa/sottomissione (submission/collapse) entrano in crisi perchè non sono fatte per reggere segnali minacciosi, incoerenti e imprevedibili troppo a lungo, soprattutto quando ci vengono “dall’alto”, da chi ha la responsabilità di proteggerci.
Gli effetti li abbiamo visti insieme: rientri al Sud per sentirsi di nuovo al sicuro in famiglia (pianto di attaccamento). Esplosioni di rabbia e violenza verso i cinesi, i lombardi, il paziente zero, il vicino che non si lava le mani, il governo, il sistema economico, il capitalismo (attacco/fight). Fuga dalle città del nord, fuga dagli ospedali, fuga sulle piste da sci, minimizzazione (flight/evitamento). Seguire minuto per minuto le statistiche del contagio con ansia, panico, terrore, non riuscire a fare altro che pensare al Coronavirus, smettere di mangiare, dormire, lavarsi, restare bloccati più di quanto richiesto (freeze/congelamento). Fatalismo, negazione, rinuncia alla protezione (collapse).
Ma adesso finalmente la situazione è più chiara: c'è una pandemia da fermare, o almeno da rallentare, in cui tutti siamo chiamati a collaborare.
Certamente non una bella notizia, ma almeno un’informazione che il cervello può iniziare ad elaborare.
SINTOMI
Cerchiamo di comprendere, in punti, cosa sta succedendo alla mente delle persone in questi giorni. Come prima accennato, la lente della psicotraumatologia ci può aiutare a meglio inquadrare i sintomi, o le manifestazioni psicologiche di un sistema di difesa alterato in modo protratto.
É importante leggere quello che sta succedendo per comprendere come le risposte disadattative e che potrebbero essere definite “psicopatologiche”, sono già presenti in noi in forma minimale: alcuni eventi esterni (come quello che viviamo) possono produrne una manifestazione più acuta.
In questi giorni l’attenzione mediatica e l'energia mentale degli individui sembrano giustamente polarizzate sul tema “coronavirus”, con alcune manifestazioni peculiari, che potremmo osservare usando come cornice teorica la teoria psicotraumatologica:
-
Freezing: in conseguenza di un timore percepito come endemico, e di un senso di pericolo diffuso non realmente visibile nè tangibile, l'allarme percepito si acuisce e diviene somatico, conducendo le persone a un bivio comportamentale: coloro che percepiscono il pericolo come dipendente da un proprio comportamento, tenderanno -nei casi peggiori- a mobilitarsi verso un qualche tipo di fuga o comportamento di mobilizzazione (anche irrazionale); coloro i quali, invece, percepiranno il pericolo come soverchiante, assumeranno -sempre nei casi peggiori- una posizione di freezing, cioè di immobilità/congelamento, o di collasso
-
Dente di sega: Sappiamo che l'allarme e la disregolazione emotiva sono gestibili fino a una certa soglia, oltre la quale si impongono meccanismi di dissociazione: la mente troppo disregolata in termini di allarme, tende a collassare in forme prostrate di abbandono difensivo. Pensiamo per esempio all'esperimento dei cani depressi di Pavlov. Possiamo osservare che la disregolazione emotiva ha un andamento a dente di sega: una mente spaventata per troppo tempo, tende a oscillare tra posizioni di “controllo” da attacco/fuga (posso farcela, devo cambiare atteggiamento) e posizione di collasso dissociativo (è la fine, non ne usciremo, non posso fare nulla). Notiamo che a queste due posizioni corrispondono due assunzioni o posizioni “filosofiche” assunte di fronte al “persecutore”/minaccia: una posizione di mobilizzazione attiva e caratterizzata da grande allarme, e una posizione al contrario di maggiore fatalismo in cui per così dire viene integrato il concetto di rischio:
-
Sintomi psicosomatici: l'allarme protratto, ricade sul corpo; il corpo accusa il colpo. Questo lo dice tutta la psicotraumatologia mondiale. Il trauma (ma in questo caso sarebbe meglio dire il sottostare a una condizione protratta di minaccia) ricade sul corpo per via nervosa, con sintomi da iper-arousal protratto (disturbi del sonno, difficoltà al riposo, contratture muscolari anomale e protratte, cambi permanenti di postura e conseguenti disequilibri in termini corporei). Se non è possibile intervenire per estirpare alla radice il problema, intervenire per via corporea sembra in questo caso l'unica opzione sensata. In questo caso parliamo di interventi di tipo bottom-up: ovvero, occorre non dimenticare che in natura il terrore e l'allarme vengono “dissipati” dal corpo per via corporea, NON psicologica. Intervenire in senso bottom-up rappresenta una tampone ai sintomi: utile, pur non essendo risolutivo.
-
Polarizzazione del pensiero: come in un diffuso quadro DOC (ossessivo/compulsivo), osserviamo forme di ossessivizzazione del pensiero su temi di stretta sopravvivenza inerente una possibile contaminazione da virus, con spesso un restringimento del campo cognitivo e una visione a “tunnel” (penso solo a poche cose, sempre quelle, in modo costante); la fuoriuscita da questo loop, spesso, si accompagna, come prima accennato, all'accettazione del rischio, verso una posizione più fatalista (accetto la cosa, assumo il rischio consentito e vado avanti). L'accettazione del rischio disincaglia il soggetto dalle sue ruminazioni ossessive, consentendogli di continuare a vivere proiettandosi in avanti. Il pensiero ossessivo è in grado di immobilizzare il soggetto sul momento presente, raccolto in pesanti elucubrazioni su questioni di vantaggi/svantaggi, spesso incentrate sul tema della propria responsabilità, come ben documentato nel libro La mente ossessiva di Francesco Mancini. Di nuovo, l'accettazione del rischio e della possibilità estrema di essere “colpito”, sblocca il soggetto verso i suoi doveri quotidiani, inquadrato il problema entro una cornice più ampia, più generale (“me ne sono fatto/a una ragione)”. La focalizzazione mediatica attuale, totalmente incentrata sul tema “virus”, è sintomatica di uno stato di pensiero polarizzato, con un’attenzione drammaticamente rivolta allo stimolo “minaccioso”/pericoloso, nella speranza di poterlo così “risolvere”
-
Regressione: la presenza di un “predatore” o di una “minaccia” poco contrastabile, o rappresentata come tale, conduce l'individuo a costruire una rappresentazione di sé come molto piccolo, di fronte a un nemico molto grande, soverchiante. Il confronto tra le due rappresentazioni (io piccolo, il mio persecutore enorme) produce una regressione a forme di pensiero infantili, come all'interno di una dittatura “totale” senza dittatori reali. A fronte di questo è importante, in ottica di empowerment, recuperare quote di controllo per via di un atto di impugnazione tentata della faccenda (progetto di creazione di vaccini, in questo specifico caso, salvaguardia individuale, ipotesi inerenti la costruzione di test più veloci, buona comunicazione, tutto ciò che aiuti l'individuo a sentirsi meno piccolo/regredito/infantile).
-
Autoregolazione disfunzionale: al fine di mitigare gli effetti della disregolazione da allarme protratto, gli individui potrebbero mettere in atto strategie di autoregolazione disfunzionale, per esempio attraverso il il binge-eating o l’utilizzo di sostanze. Dobbiamo quindi porre attenzione a elementi centrali per il benessere (anche) psichico come l'alimentazione e, di nuovo, il ricorso all’attività fisica come strategia di mastery.
Che fare, quindi?
Come osservato, il nostro cervello è fatto per rispondere a situazioni emergenziali in modo immediato ed eccellente: quando però l'emergenza si prolunga è necessario per tutti noi iniziare a sviluppare risorse più complesse delle difese animali, e riuscire ad orientarci nel presente cercando le risorse ancora accessibili e utili a navigare dentro l'urgenza, con crescenti capacità e fiducia verso un ritorno alla sicurezza.
Una buona notizia: il cervello umano è capace di adattarsi a situazioni inimmaginabili e questo processo di adattamento è di solito naturale: abbiamo un picco di terrore e smarrimento (trauma), poi -se abbiamo sufficiente supporto intorno, una cornice chiara in cui muoverci, adeguate risorse interne ed esterne-, gradualmente iniziamo a costruire nuove prospettive e possibilità, imparando e traendo forza proprio dall’esperienza negativa vissuta (crescita post-traumatica). In una parola: Resilienza.
Ma cosa succede se la paura del Covid-19 arriva a colpire chi sta già vivendo una situazione di sofferenza emotiva? Come può manifestarsi la paura nella mente di una persona che ha vissuto traumi e trascuratezza importanti nella sua vita, sopraggiunta questa ennesima emergenza?
Proviamo ad esplorare alcuni aspetti emotivi che potrebbero riguardare questi ultimi individui, coinvolti nella gestione dell'emergenza.
Fattori di rischio: trigger presenti, paure antiche.
Alcune situazioni specifiche e quotidiane legate alle condizione di “quarantena forzata”, cui tutti siamo sottoposti, potrebbero diventare trigger molto potenti di antichi traumi. I trigger sono stimoli attuali e contingenti capaci di ri-attivare memorie implicite di situazioni, emozioni, pensieri o azioni del passato: essi sono capaci di ri-attivare emozioni negative proprio in virtù del della immediata associazione con quelle esperienze.
Alcuni trigger possibili:
-
Solitudine: isolamento e abbandono sono due cose diverse, ma per la mente di chi ha vissuto traumi importanti potrebbe non essere così facile distinguere i due sentimenti e le emozioni che ne conseguono; a causa dei trigger la mente viaggia letteralmente nel tempo e pone il cervello nella percezione non-integrata che il pericolo del passato è di nuovo vivo e intatto nel presente; questo può scatenare ognuna delle risposte di difesa sopracitate, poiché il vissuto attuale viene connesso ad uno stato di terrore e pericolo per la propria sopravvivenza (solo in parte attuale);
-
Alterata percezione del rischio: i teorici del trauma sono tutti d’accordo a riguardo dell’evidenza neurobiologica secondo cui la percezione del rischio risulta alterata dall’aver vissuto una eccessiva e incontrollata stimolazione del sistema di difesa innato (van der Kolk, 2015); quando la nostra specie è esposta, sin dall’infanzia, ad una sovrastimolazione del senso di minaccia, il sistema di difesa si disregola e dissocia le sue azioni dalla mediazione della corteccia prefrontale -che pure ci aiuta a valutare i pericoli e le decisioni da intraprendere-, esponendoci a due situazioni pericolose: la sovrastima e la sottostima dei rischi. Nel primo caso parti emotive fragili e abituate a vivere un senso di vulnerabilità e sopraffazione, potrebbero avere paura di morire ed entrare in angoscia (pianto di attaccamento) o in resa (collasso), rinunciando così alla protezione; nel secondo caso parti fight dissociate e sprezzanti del rischio, che abitualmente hanno la funzione di proteggere il sistema emotivo, sfidare e tenere viva la lotta per la sopravvivenza, potrebbero offrire un pericoloso senso di superiorità e invincibilità che, di nuovo, non aiuta a proteggersi e mettersi al sicuro. Fermiamoci, valutiamo se la nostra storia potrebbe esporci ad una di queste situazioni.
-
Ritiro sociale/Alienazione: il senso di impotenza e sopraffazione potrebbero diventare estremamente “triggering” in questa fase e generare un pervasivo stato di minaccia che guida il sistema innato verso un crollo (collasso/dissociazione) delle risorse adattive di sopravvivenza; chi ha vissuto la rinuncia alla lotta come un estremo -ma efficace- tentativo di protezione, potrebbe trovare aperta questa strada e chiudersi in una condizione di assoluto ritiro sociale, di perdita di speranza, di rinuncia alla minima cura di sé e di attesa che tutto passi. E’ molto importante aiutare a preservare la mente da questo stato dissociativo prolungato, aiutandoci a costruire àncore nel presente: un unico amico affidabile, il nostro scrittore preferito, un corso in streaming. Teniamo almeno un po’ la mente connessa con l’esterno.
-
Tutto è fuori controllo: la sensazione che il mondo esterno, gli “adulti” (governi, politici, scienziati, filosofi, economisti) intorno siano confusi, incoerenti, o come direbbe qualcuno “spaventati e spaventanti”, è molto attivante per chi ha vissuto questo per tutta la sua infanzia. Non vedere appigli intorno è un trigger enorme e può rendere il cervello di una persona traumatizzata ipervigile, disregolato, alla costante ricerca di rassicurazioni, spiegazioni, prove che tutto passerà.
E’ normale, ma espone al rischio di raccogliere una mole troppo ampia di informazioni contrastanti e generare ancora più confusione o, ben presto, resa e sconforto. Ascoltiamo le nostre parti adulte, informiamoci su cosa possiamo fare ora nel presente, per noi e per chi abbiamo intorno, selezioniamo poche fonti affidabili e rimandiamo al post-emergenza l’analisi del fenomeno. Non aiuta fare congetture mentre il nostro cervello è colonizzato dalla paura. Avremo tempo per approfondire con cura il fenomeno che abbiamo ora sotto gli occhi.
Possibili fattori protettivi: il trauma come risorsa.
Chi ha vissuto traumi importanti, nella sua vita e soprattutto nella prima infanzia, è abituato a vivere in guerra e come tale ha molte armi e risorse pronte all’uso che altri potrebbero non avere così allenate. Le condizioni di stress post traumatico o trauma complesso preparano necessariamente alla condizione di gestire continuamente stati di paura, spesso incontrollati, e questo potrebbe rendere più familiare e gestibile, per alcuni individui, la situazione attuale.
-
Se il mondo diventa imprevedibile: chi vive l'ipervigilanza come una condizione emotiva stabile, potrebbe essere abituato a mantenere un livello di controllo alto sulle azioni quotidiane e avere routine fisse (talora rigide) che ora potranno rivelarsi utili: avere scorte alimentari, farmaci per ogni evenienza, contatti di emergenza da chiamare, attitudine a non fidarsi di tutte le notizie e filtrare.
-
Niente può intaccarmi: l’abitudine a percepirsi soli nel mondo, può favorire la nascita di difese di lotta (attacco) molto strutturate che possono esporre, come detto, ad una ridotta percezione del rischio, ma anche dall’altro lato a conservare un senso di padronanza sugli eventi e preservare il sistema emotivo (almeno nel breve termine) da crolli depressivi o momenti di sconforto troppo intensi, che non aiuterebbero in ogni caso a stare meglio.
-
Alienazione condivisa: le credenze di essere diversi, isolati, incompresi, rifiutati e profondamente sbagliati sono molto comuni nel vissuto di chi è sopravvissuto a traumatizzazione cronica, e lasciano vissuti di vergogna e colpa che spesso costituiscono una barriera invalicabile alla possibilità di chiedere aiuto e di cambiare il proprio modo di relazionarsi agli altri; ma ora è tutto diverso: il Coronavirus è una minaccia condivisa, oggettiva, la paura è la stessa per tutti, il danno è riconosciuto e oggetto di una preoccupazione costante per tutti. Non c’è il rischio di non essere creduti e la certezza che non sia solo un incubo, ma la realtà che il mondo sta vivendo, potrebbe essere una risorsa importante per chi ha vissuto l’esatto contrario;
-
Me la devo cavare con quello che ho: chi ha dovuto proteggersi sin da piccolo e con pochi mezzi, è naturalmente portato a valutare velocemente le opportunità e le risorse nell'ambiente circostante e a ottimizzare le risorse che ha già, senza soffrire troppo limitazioni, scomodità e rinunce;
-
Finalmente confini chiari: il controllo sociale sui comportamenti collettivi di questi giorni potrebbe essere disturbante per chi ha vissuto sempre con serenità la propria e altrui libertà; tuttavia per chi ha imparato presto che gli altri esseri umani possono comportarsi in modo imprevedibile, non curante e minaccioso, un sistema governativo che protegge imponendo dei limiti chiari ai comportamenti leciti (speriamo temporaneamente) potrebbe offrire un sorprendente sollievo e semplificare alcuni aspetti della vita sociale, dando sollievo alle parti emotive che tendono a sentirsi in colpa e a non sentirsi in diritto di “dire di no”.
-
Un po’ di ferie per il Critico interno: la tendenza a vivere le sfide della vita con perfezionismo, autocritica, sacrificio estremi è spesso molto presente in chi ha dovuto lottare per sentirsi al sicuro, accettato, amato, all’altezza di quello che gli altri sembravano ottenere senza sforzo; le parti critiche nei pazienti sopravvissuti hanno lo scopo di farli sentire forti e capaci, ma lo fanno ad un costo spesso elevato e con una veemenza difficile da arginare; questa situazione potrebbe “paradossalmente” aiutare queste parti a mollare la presa: se non dipende dal singolo, ma stare in casa è definito dall’esterno e utile alla sopravvivenza, restare fermi può diventare una opzione accettabile: avere finalmente il “permesso” di dedicarsi a sè, di riposare, persino di annoiarsi, senza rimproveri, senza minacce, senza checklist da ultimare. Prepararsi ad accogliere l’inatteso sollievo del “non fare” senza sentirsi strani: la sfida di questi giorni.
Per tutti, nessuno escluso, sarà importante tenersi in salute fisica e emotiva, con tutto quello che abbiamo usato nei momenti difficili e che ci è stato utile, recuperando gradualmente terreno dall’impotenza delle settimane trascorse, per fare semplicemente il meglio con quello che abbiamo.
Per i più coraggiosi, fermarsi e lasciar emergere quello che affiora nei momenti di vuoto potrebbe rivelare belle sorprese e magari rendere l’attesa un momento di riflessione e ricerca compassionevole per se stessi e il mondo intorno.
Bibliografia:
- Porges, S.W. (2004). Neuroception: A Subconscious System for Detecting Threats and Safety. Zero to Three, 5, 19-24.
- Porges, S.W. (2001). The polyvagal theory: phylogenetic substrates of a social nervous system. International Journal of Psychophysiology, 42:123-146.
- B. van der Kolk (2015). Il corpo accusa il colpo. Mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche. Raffello Cortina, Milano.
- Sul trauma: http://www.psychiatryonline.it/node/7955
0 commenti