Di seguito le conclusioni del capitolo 4 del suo Mental health and culture (terza edizione, 2010) in cui Suman Fernando discute dei pregiudizi razzisti presenti, in specie nel mondo occidentale, negli operatori dei servizi di salute mentale.
Nella pratica quotidiana della psichiatria si possono osservare:
Nella pratica quotidiana della psichiatria si possono osservare:
- Il fallimento di gran parte degli operatori professionali, a qualsiasi etnia appartengano, nel tener conto, nella pratica, del pregiudizio razziale, e, nell’erogazione dei servizi, del razzismo istituzionale
- Pratiche istituzionali, quali le valutazioni della salute mentale e del rischio per la salute mentale che sono intrinsecamente razziste in quanto condotte senza tener conto del pregiudizio razziale
- Una pressione sociale che opera in modo differenziato sui membri delle comunità BME (Black and Minority Ethnic), per cui anche la rabbia giustificabile e giustificata in risposta al razzismo che c’è nella società non è tenuta nella giusta considerazione quando si giudica la condizione della salute mentale dell’individuo BME
- Il senso di alienazione sofferto dai membri delle comunità di colore interpretato come sintomo di malattia – spesso come un “loro problema”- piuttosto che un problema della società intera.
Il risultato di tutto questo è che la gran parte delle risposte ritenute più adeguate ed efficaci ai problemi di molte persone BME che si rivolgono ai servizi, o vi sono portate a forza, fa riferimento pressoché esclusivamente a modelli di malattia (ricerca di sintomi) o di criminalità, con la conseguente attivazione di interventi di controllo sociale.
A conferma del razzismo istituzionale che sta nel cuore ad esempio della società britannica tre dati:
1 – il numero sproporzionato di neri con ricoveri coatti e diagnosticati come schizofrenici
2- il numero sproporzionato di ragazzi fermati per accertamenti, arrestati, messi sotto accusa, deferiti ai magistrati e imprigionati
3- il numero sproporzionato di bambini neri esclusi dalle scuole
Vale a dire, segnali di fallimenti dei servizi di salute mentale, di giustizia criminale, educativi.
Fernando dedica il capitolo 7 [1] alla trattazione della presenza attiva nella psichiatria scientifica occidentale di pregiudizi razzisti, che derivano dalla tradizione della disciplina, dalla sua storia, dai suoi modi di valutazione e fare diagnosi, dalla natura dei criteri usati nella scelta dei trattamenti, dalla sua organizzazione, dal suo coinvolgimento negli assetti di potere degli Stati dell’Occidente e, a livello mondiale, dai suoi sforzi per essere accettata come disciplina scientifica.
Nella predisposizione dei servizi psichiatrici il razzismo lo si ritrova nel modo in cui le istituzioni sono strutturate e forgiate e nel fatto che la gran parte delle organizzazioni non sanno far fronte al razzismo, storicamente determinato, che portano dentro. Al riguardo, la pratica psichiatrica nella relazione con un singolo paziente, per arrivare alla valutazione clinica che precede la diagnosi, si avvale di una procedura che valorizza ciò che si ritiene essere un dato osservato, ma che non sia in contrasto con quello che si dà per conosciuto. Vale a dire che la valutazione clinica si basa sulle informazioni raccolte da una persona (il paziente), dalla sua storia, dall’esame della sua personalità di base e dal giudizio sul suo stato mentale, ma che in questo processo possono insinuarsi molti pregiudizi. Lo psichiatra influenza il contenuto di ciò che è acquisito come “storia” e come “personalità” con due modalità fra loro correlate:
A conferma del razzismo istituzionale che sta nel cuore ad esempio della società britannica tre dati:
1 – il numero sproporzionato di neri con ricoveri coatti e diagnosticati come schizofrenici
2- il numero sproporzionato di ragazzi fermati per accertamenti, arrestati, messi sotto accusa, deferiti ai magistrati e imprigionati
3- il numero sproporzionato di bambini neri esclusi dalle scuole
Vale a dire, segnali di fallimenti dei servizi di salute mentale, di giustizia criminale, educativi.
Fernando dedica il capitolo 7 [1] alla trattazione della presenza attiva nella psichiatria scientifica occidentale di pregiudizi razzisti, che derivano dalla tradizione della disciplina, dalla sua storia, dai suoi modi di valutazione e fare diagnosi, dalla natura dei criteri usati nella scelta dei trattamenti, dalla sua organizzazione, dal suo coinvolgimento negli assetti di potere degli Stati dell’Occidente e, a livello mondiale, dai suoi sforzi per essere accettata come disciplina scientifica.
Nella predisposizione dei servizi psichiatrici il razzismo lo si ritrova nel modo in cui le istituzioni sono strutturate e forgiate e nel fatto che la gran parte delle organizzazioni non sanno far fronte al razzismo, storicamente determinato, che portano dentro. Al riguardo, la pratica psichiatrica nella relazione con un singolo paziente, per arrivare alla valutazione clinica che precede la diagnosi, si avvale di una procedura che valorizza ciò che si ritiene essere un dato osservato, ma che non sia in contrasto con quello che si dà per conosciuto. Vale a dire che la valutazione clinica si basa sulle informazioni raccolte da una persona (il paziente), dalla sua storia, dall’esame della sua personalità di base e dal giudizio sul suo stato mentale, ma che in questo processo possono insinuarsi molti pregiudizi. Lo psichiatra influenza il contenuto di ciò che è acquisito come “storia” e come “personalità” con due modalità fra loro correlate:
- Il tipo e la quantità di informazioni date dal paziente e da altri sono modellati dalle percezioni che lo psichiatra ha riguardo le persone che hanno fornito le informazioni e dai suoi pregiudizi circa il paziente stesso
- Il cogliere e il scegliere fra quanto interviene durante la raccolta della storia – cioè l’enfasi data a un particolare o ad una informazione piuttosto che un’altra o il significato attribuito a un evento- dipendono dalle credenze, dai giudizi di valore, dalle conoscenze e dalla capacità di comprensione dello psichiatra
Così accade che, dal momento che alla stragrande maggioranza degli psichiatri mancano esperienze personali della vita in aree prevalentemente nere quali Harlem a New York o Tower Hamlets a Londra o St. Paul a Bristol, è presumibile che essi non sappiano di ciò che di negativo e pesante si esercita sulle persone di colore che vi vivono, che di conseguenza non ne interpretino correttamente stili di vita e comportamenti, e che adottino quindi interpretazioni che finiscono col rinforzare il pregiudizio razzista che sta in loro.
L’esame dello stato mentale del paziente è di importanza cruciale nel percorso diagnostico, probabilmente il fattore più importante in assoluto. La validità delle deduzioni è da considerare al meglio quando vi sono intesa e comprensione fra gli interlocutori; ma in un contesto multiculturale, le barriere che nascono da pregiudizi razzisti, specie quando sono diffuse e radicate, rendono problematica la possibilità di trarre deduzioni corrette. I significati assegnati alle esperienze e alle percezioni, l’idea di malattia (sofferenza) e il senso complessivo della situazione in cui si svolge l’intervista da cui si ricava il giudizio sullo “stato mentale” sono alcuni dei parametri soggetti a variare quando sussistano differenze culturali fra i partecipanti all’interazione.
Quanto alle diagnosi in psichiatria, il pregiudizio razziale è fortemente presente nella cultura in cui lo psichiatra è cresciuto e in cui opera. È il caso del relativamente alto numero di diagnosi di “psicosi” a carico di pazienti afroamericani ricoverati negli USA fra la fine del 19° e la prima metà del 20° secolo. Pasamanick, che ha studiato il fenomeno a Baltimora (1963), ha evidenziato come nei manicomi statali le percentuali di diagnosi di psicosi per i non-bianchi fossero più alte rispetto ai bianchi, mentre le percentuali dei bianchi erano più alte nei Veterans Hospital e negli Istituti privati. Anche fra i pazienti non ricoverati, la percentuale di diagnosi di psicosi era più alta per i bianchi che per i non-bianchi. Ancora Pasamanick ha evidenziato che fra il 1920 e il 1955 vi è stato un cambio nell’andamento delle diagnosi a carico dei neri USA con un aumento delle diagnosi di schizofrenia e il calo di quelle di psicosi maniaco-depressiva. Lo studio di Pasamanick è stato confermato da ricerche condotte negli anni ’60 e ’70. Un esempio: quando fu introdotta la distinzione fra “schizofrenia processuale”, caratterizzata da una importante componente genetica, e “schizofrenia reattiva”, alla popolazione nera, in specie i maschi, fu assegnato un enorme numero di diagnosi di “schizofrenia processuale”, che non teneva ad esempio conto dello status socioeconomico. Lo stesso è accaduto per i nativi USA e canadesi (Inuit) e gli Ispano-americani. Uno studio del 1983 di Mukherjee sui dimessi da un ospedale municipale del centro di New York, diagnosticati come “bipolari” ha trovato che le precedenti diagnosi errate di “schizofrenia” erano significativamente più alte per Ispanici e neri rispetto ai bianchi. Numerosi studi sui pazienti ricoverati nei manicomi britannici negli anni ’60 e ’70 hanno evidenziato come la diagnosi di schizofrenia fosse assegnata più frequentemente a persone appartenenti ai gruppi di immigrati da Africa, Asia, Caraibi rispetto ai nativi bianchi.
Pochi altri studi sul fenomeno sono stati condotti in Olanda, Svezia, Australia e Nuova Zelanda. Relativamente alla Nuova Zelanda, uno studio del 2006 di Oakley Browne evidenziava come uno dei problemi dell’uso del Manuale diagnostico DSM fosse che la strumentazione diagnostica, rispetto alle norme culturali Maori, risultava inadeguata, “spuntata” per consentire una interpretazione significativa della sofferenza mentale. Le statistiche ufficiali neozelandesi del 2003 sui profili diagnostici mostravano che le diagnosi di schizofrenia, paranoia, disturbo psichiatrico acuto di pazienti ricoverati erano assegnate per circa i 2/3 ai Maori e ai nativi delle Isole del Pacifico, a fronte del 39% assegnato ai bianchi. Si consideri che i Maori costituiscono il 14,7% della popolazione neozelandese, gli Isolani del Pacifico il 6,4% e gli Europei il 71,5%. Altri due studi del 1993 e del 1997 sui primi ricoveri hanno evidenziato che i Maori ricevono una diagnosi di schizofrenia il doppio rispetto ai non-Maori.
In sintesi, la diagnosi può essere accurata, ma se si tiene in considerazione il peso del pregiudizio razziale nel distorcere la sua obiettività, anche la diagnosi accurata diventa scorretta e fuorviante. I ricercatori americani Loring e Powell (1988) arrivano a concludere, che a fronte di comportamenti identici bianchi e non-bianchi ricevono diagnosi diverse, in tal modo falsando anche i dati statistici che danno autorevolezza agli studi di epidemiologia psichiatrica. Così, per effetto del potere dei miti, delle profezie che si auto avverano e di diagnosi in buona fede ma errate, si è perpetuata la tendenza razzista a diagnosticare la gente nera come schizofrenica.
Suman Fernando parla per questo di un vero e proprio “imperialismo psichiatrico” (p. 112) che imputa ai seguenti fattori:
L’esame dello stato mentale del paziente è di importanza cruciale nel percorso diagnostico, probabilmente il fattore più importante in assoluto. La validità delle deduzioni è da considerare al meglio quando vi sono intesa e comprensione fra gli interlocutori; ma in un contesto multiculturale, le barriere che nascono da pregiudizi razzisti, specie quando sono diffuse e radicate, rendono problematica la possibilità di trarre deduzioni corrette. I significati assegnati alle esperienze e alle percezioni, l’idea di malattia (sofferenza) e il senso complessivo della situazione in cui si svolge l’intervista da cui si ricava il giudizio sullo “stato mentale” sono alcuni dei parametri soggetti a variare quando sussistano differenze culturali fra i partecipanti all’interazione.
Quanto alle diagnosi in psichiatria, il pregiudizio razziale è fortemente presente nella cultura in cui lo psichiatra è cresciuto e in cui opera. È il caso del relativamente alto numero di diagnosi di “psicosi” a carico di pazienti afroamericani ricoverati negli USA fra la fine del 19° e la prima metà del 20° secolo. Pasamanick, che ha studiato il fenomeno a Baltimora (1963), ha evidenziato come nei manicomi statali le percentuali di diagnosi di psicosi per i non-bianchi fossero più alte rispetto ai bianchi, mentre le percentuali dei bianchi erano più alte nei Veterans Hospital e negli Istituti privati. Anche fra i pazienti non ricoverati, la percentuale di diagnosi di psicosi era più alta per i bianchi che per i non-bianchi. Ancora Pasamanick ha evidenziato che fra il 1920 e il 1955 vi è stato un cambio nell’andamento delle diagnosi a carico dei neri USA con un aumento delle diagnosi di schizofrenia e il calo di quelle di psicosi maniaco-depressiva. Lo studio di Pasamanick è stato confermato da ricerche condotte negli anni ’60 e ’70. Un esempio: quando fu introdotta la distinzione fra “schizofrenia processuale”, caratterizzata da una importante componente genetica, e “schizofrenia reattiva”, alla popolazione nera, in specie i maschi, fu assegnato un enorme numero di diagnosi di “schizofrenia processuale”, che non teneva ad esempio conto dello status socioeconomico. Lo stesso è accaduto per i nativi USA e canadesi (Inuit) e gli Ispano-americani. Uno studio del 1983 di Mukherjee sui dimessi da un ospedale municipale del centro di New York, diagnosticati come “bipolari” ha trovato che le precedenti diagnosi errate di “schizofrenia” erano significativamente più alte per Ispanici e neri rispetto ai bianchi. Numerosi studi sui pazienti ricoverati nei manicomi britannici negli anni ’60 e ’70 hanno evidenziato come la diagnosi di schizofrenia fosse assegnata più frequentemente a persone appartenenti ai gruppi di immigrati da Africa, Asia, Caraibi rispetto ai nativi bianchi.
Pochi altri studi sul fenomeno sono stati condotti in Olanda, Svezia, Australia e Nuova Zelanda. Relativamente alla Nuova Zelanda, uno studio del 2006 di Oakley Browne evidenziava come uno dei problemi dell’uso del Manuale diagnostico DSM fosse che la strumentazione diagnostica, rispetto alle norme culturali Maori, risultava inadeguata, “spuntata” per consentire una interpretazione significativa della sofferenza mentale. Le statistiche ufficiali neozelandesi del 2003 sui profili diagnostici mostravano che le diagnosi di schizofrenia, paranoia, disturbo psichiatrico acuto di pazienti ricoverati erano assegnate per circa i 2/3 ai Maori e ai nativi delle Isole del Pacifico, a fronte del 39% assegnato ai bianchi. Si consideri che i Maori costituiscono il 14,7% della popolazione neozelandese, gli Isolani del Pacifico il 6,4% e gli Europei il 71,5%. Altri due studi del 1993 e del 1997 sui primi ricoveri hanno evidenziato che i Maori ricevono una diagnosi di schizofrenia il doppio rispetto ai non-Maori.
In sintesi, la diagnosi può essere accurata, ma se si tiene in considerazione il peso del pregiudizio razziale nel distorcere la sua obiettività, anche la diagnosi accurata diventa scorretta e fuorviante. I ricercatori americani Loring e Powell (1988) arrivano a concludere, che a fronte di comportamenti identici bianchi e non-bianchi ricevono diagnosi diverse, in tal modo falsando anche i dati statistici che danno autorevolezza agli studi di epidemiologia psichiatrica. Così, per effetto del potere dei miti, delle profezie che si auto avverano e di diagnosi in buona fede ma errate, si è perpetuata la tendenza razzista a diagnosticare la gente nera come schizofrenica.
Suman Fernando parla per questo di un vero e proprio “imperialismo psichiatrico” (p. 112) che imputa ai seguenti fattori:
- Il fatto che sia stato oscurato che la psichiatria occidentale non è applicabile in tutti i diversi contesti culturali o che non è libera da pregiudizi culturali o razziali
- Il fatto che la psichiatria è assunta e accettata come parte della medicina scientifica, quindi su diagnosi basate su fattori obiettivi e trattamenti esenti da pregiudizi culturali. Come tale, anche se le cose non stanno così, la psichiatria è considerata applicabile a tutte le persone , in qualsiasi condizione siano, senza tenere in considerazione culture, razze, sistemi sociali.
- Dal momento che qualsiasi cosa che sia “occidentale” tende ad essere percepita come superiore, i contenuti della psichiatria non sono messi in discussione proprio a ragione della sua “aureola occidentale”.
- Nelle società non-occidentali la psichiatria è sostenuta dai gruppi di potere economici e politici legati all’Occidente.
Suman Fernando parla di una psichiatria che ignora il colore della pelle e le culture, ignora il pregiudizio razziale con la conseguenza che mette le persone fuori contesto. E questo è un dramma nelle società multiculturali.
Suman Fernando propone di ridefinire ciò che si intende per “salute mentale”, a partire dalla questione della sua presunta base genetica e /o biochimica in relazioni di equilibrio/squilibrio con i fattori sociali, spirituali, cosmologici, l’importanza e il significato di ciascuno dai quali dipende invece dalle appartenenze culturali della persona. Insomma, è giunto il momento di cambiare i modi tradizionali con cui si pensa la salute mentale per muoversi nella direzione di una comprensione del soggetto valida dal punto di vita culturale, libera dal razzismo. Perché la “salute mentale” è sì una questione strettamente della persona, ma non è possibile formulare un giudizio sulla salute mentale di una persona senza prendere in considerazione il ruolo delle sue relazioni sociali e delle sue appartenenze culturali.
Andando a concludere, gli esseri umani appartengono ad un’unica razza e a diverse culture che possono essere viste come esplorazioni, elaborazioni di esperienze e bisogni condotte con le stesse motivazioni di base, principalmente la convivenza pacifica e i rapporti armoniosi con l’ambiente. I bisogni e le ansie di base degli esseri umani sono probabilmente gli stessi in tutto il mondo e per questo sarebbe preferibile un approccio che tenga conto dei problemi derivanti dalle diversità fra le culture e dalle divisioni che nascono dal razzismo. Il paradosso è che la salute mentale, diversa in rapporto alle culture di appartenenza, è ancora declinata senza prendere in considerazione la realtà delle molte culture di appartenenza.
Suman Fernando propone di ridefinire ciò che si intende per “salute mentale”, a partire dalla questione della sua presunta base genetica e /o biochimica in relazioni di equilibrio/squilibrio con i fattori sociali, spirituali, cosmologici, l’importanza e il significato di ciascuno dai quali dipende invece dalle appartenenze culturali della persona. Insomma, è giunto il momento di cambiare i modi tradizionali con cui si pensa la salute mentale per muoversi nella direzione di una comprensione del soggetto valida dal punto di vita culturale, libera dal razzismo. Perché la “salute mentale” è sì una questione strettamente della persona, ma non è possibile formulare un giudizio sulla salute mentale di una persona senza prendere in considerazione il ruolo delle sue relazioni sociali e delle sue appartenenze culturali.
Andando a concludere, gli esseri umani appartengono ad un’unica razza e a diverse culture che possono essere viste come esplorazioni, elaborazioni di esperienze e bisogni condotte con le stesse motivazioni di base, principalmente la convivenza pacifica e i rapporti armoniosi con l’ambiente. I bisogni e le ansie di base degli esseri umani sono probabilmente gli stessi in tutto il mondo e per questo sarebbe preferibile un approccio che tenga conto dei problemi derivanti dalle diversità fra le culture e dalle divisioni che nascono dal razzismo. Il paradosso è che la salute mentale, diversa in rapporto alle culture di appartenenza, è ancora declinata senza prendere in considerazione la realtà delle molte culture di appartenenza.
P.S. le traduzioni non sono sempre letterali.
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