IL CASO DI ARIANNA. TRA IL MANTRA MATERNO E IL CERCHIO DI DANZA AEREA… SOGNANDO L’UPGRADE.

Share this
2 aprile, 2020 - 14:15
II breve percorso terapeutico che sarà, di seguito, presentato rappresenta, forse in modo paradigmatico, la condizione premelanconica propria della configurazione antropologica del Typus (Tellenbach) che, nella sua iper-timia caratterizzante, costituisce la premessa al suo scompenso depressivo.
 
Arianna, paziente che seguo privatamente in cura da Gennaio 2017 a Giugno 2017, 30 anni, disegnatrice e esperta in body painting autodidatta, disoccupata, di origini milanesi, vive a Genova, il suo percorso psicologico è a cadenza settimanale nella giornata di lunedì.
Al primo colloquio si presenta in orario e, varcata la soglia della porta del mio studio, timidamente mi porge la mano esibendo un sorriso cortese ma forzato, fisicamente si presenta di corporatura atletica, magra, altezza nella norma, capelli rossi naturali, ricci, crespi e corti, occhiali abbastanza spessi che spiccano su un viso dai lineamenti delicati e una carnagione chiara priva di trucco, abbigliamento sportivo e non particolarmente curato, dai colori tenui in prevalenza (che sarà il medesimo ad ogni nostro incontro), figura di aspetto gradevole ma dalla femminilità totalmente assente.
Alla mia domanda su come avesse trovato il mio contatto Arianna mi spiega di avere incontrato casualmente, navigando in rete, la mia pagina professionale di Facebook e di essere rimasta particolarmente colpita da un mio post dal titolo -siedo al cinema della mia vita- (un breve scritto di un ragazzo che vi esprimeva il suo sentimento di drammatica impotenza nei confronti dell’esistenza e, successivamente ad averlo prodotto, si è suicidato); dalle parole di Arianna:  “mi sono riconosciuta molto in quel post e così ho deciso che lei doveva essere la mia psicologa”.
La mia paziente dai 16 ai 20 anni ha avuto altre esperienze terapeutiche molto brevi (durate uno o due incontri) che descrive come estremamente frustranti e nelle quali tutti i colleghi psicologi sono stati letti da lei come “prevaricatori che hanno voluto orientarla” per cui lei si è trovata “costretta a scappare” dopo la prima o al massimo la seconda seduta, dopo aver dato loro un’ulteriore “possibilità” presentandosi alla seduta una seconda volta.
Esemplificando il suo vissuto di delusione Arianna racconta: “me ne ricordo una sola di volta, questa signora aveva l’aspetto della signorina Rottermeier, aveva l’aria arcigna e mi ha detto -devi venire a fare un corso di gruppo- …io già non avevo voglia di parlare con lei… figuriamoci in gruppo! non ci sono più tornata, mi voleva costringere a fare cose che non avevo voglia di fare”.
È senz’altro indubbio che un atteggiamento terapeutico di questo tipo non accolga l’aspetto dell’impotenza e la necessità di un riconoscimento ma all’opposto, proponga immediatamente un orientamento di cui la paziente sente e dichiara, con fermezza tinta di disprezzo, di non avere alcun bisogno; questa auto-valutazione della paziente si rivelerà particolarmente significativa nel corso delle sedute.
La motivazione che Arianna adduce alla richiesta di un percorso psicologico, dalle sue parole, è la seguente:  “Sono una persona inconcludente, devo trovare una soluzione al perché nel momento in cui devo fare una cosa nei primi mesi la faccio benissimo/parto a razzo e poi… mi demotivo e crollo,  mi capita in tutte le attività giornaliere”; illustrando il suo quotidiano Arianna continua: “ho fatto tantissimi corsi che poi non ho mai concretizzato, ho sempre provato a fare da sola, mi sono impegnata a fare tante cose che poi non si sono realizzate (…) a volte quando faccio i disegni e non so come li ho fatti, non me lo ricordo, ho dei momenti di genialità mentre li faccio e poi… basta, è finita là, le energie mi si consumano tutte in una volta sola; ho dei bellissimi disegni che aspettano di essere colorati e non lo saranno mai, proprio perché ho avuto quel momento di genialità e poi basta (…) l’altro giorno ho trovato pacchi interi di miei disegni che conservavo dal 2007, quasi tutti incompiuti; questo è quello che accade in tutta la mia vita: la lascio incompleta”.
E poi aggiunge “nell’ultimo periodo di Dicembre ho passato tantissimo tempo a dormire, ogni giorno ci sono tantissime cose che vorrei fare ma poi il tempo passa ma nella sostanza delle cose… niente (…) vorrei smettere di non fare le cose, vorrei smettere di dormire tutto il giorno, che palle!”
Il disegno, che rappresenta una sua grande passione, sembra essere anche uno degli ambiti in cui si sente maggiormente incompiuta; mi descrive la sensazione angosciosa che prova ogni volta che si accinge a disegnare: “è come se mi si agitassero i pensieri” mi dice, e “mi si intrecciano i pensieri in continuazione, il mio cervello si blocca e io non riesco a proseguire il disegno, rimango ferma, lo lascio incompiuto”.
Questo tipo di agitazione, senza dubbio di stampo non psicotico, sembra manifestarsi quando Arianna avverte “di dover fare” e risulta inadempiente al suo “debet” (Tellenbach) auto-imposto; la paziente mi parla del “suo cervello” che definisce “iperattivo sempre; un organo costantemente attivo che non fa altro che fare domande, interrogarsi, analizzare tutto in continuazione” mentre lei “spossata” avrebbe come desiderio che la sua mente si fermasse, che “le si spegnesse il cervello” per poter essere una persona che “sta in silenzio e si gode la pace dei sensi”.
Riflettendo su questa condizione di possibilità la paziente afferma in seduta che l’unico momento in cui, concretamente, il cervello lei si “blocca” e lei prova una sensazione di benessere pieno è mentre si allena nella danza aerea (un tipo di danza esercitata in sospensione da terra attraverso dei nastri o più solitamente mediante un cerchio sospeso da terra dentro il quale la persona compie la sua attività ginnica).
Dalle parole della paziente: “mi piace tantissimo danza aerea, mi rigenera perché lo sforzo fisico ti blocca il cervello, nella danza aerea non devi pensare e devi solo concentrarti sul non cadere (…) vorrei più di ogni altra cosa avere un cerchio sospeso tutto mio in casa e rimanerci sempre dentro, restare appesa li tutto il giorno, senza scendere più giù e mandare tutti/tutto il resto del mondo a fare in culo (…) sul cerchio mi sento potente, sul cerchio ho la sensazione di fare e di riuscire”.
Sembra che, per Arianna, questa condizione di impossibilità a salire sul cerchio (in cui si trova, all’opposto, a dover permanere a terra) sia vissuta da lei come profondamente costrittiva e limitante, la paziente si sente in obbligo/in dovere di stare in/a contatto con delle cose terrene che la arginano provocandole quel metaforico intreccio di pensieri ed impedendole di portarsi a compimento; contrariamente, non appena Arianna ha la possibilità di sospendersi in aria, si percepisce leggera e svincolata da quella forza di gravità verso la quale lei nutre, apertamente, sentimenti di criticità e ostilità che descrive (con toni spontanei e coloriti) in questo modo “io voglio stare da un’altra parte! non mi rompete il cazzo, non voglio persone con me, non voglio nessuno, perché tutti mi fanno domande e io non voglio rispondere, non me ne frega un cazzo di nessuno (…) vorrei solo arrampicarmi sul cerchio e lasciarvi tutti giù”.
Al racconto di questo spazio salvifico e dalla sfumatura immaginifica che è -danza aerea-, nella narrazione della paziente, si associa sovente uno spazio ideale desiderato che la paziente tratteggia con queste parole “se potessi scegliere un posto solo per me sceglierei la Polinesia, una Polinesia tutta mia dove c’è solo il nulla, il bianco sconfinato, dove non ci sono esseri umani e neanche le case, dove c’è solo il sole, la luce ad illuminarmi ed io posso stare sdraiata a godermi il calore tutto il giorno”.
Analizzando il contesto di vita della paziente, esso si presenta come una scena statica popolata sempre dagli stessi personaggi, dove essi sono preminenti ed ogni altro brilla per la sua totale assenza.
Come essenziale figura significativa nella storia di Arianna emerge senza alcun dubbio la madre, nominata ad ogni nostro incontro, sua prima e pressoché unica figura di riferimento; una mamma sempre in nuce, rappresentata da Arianna come una donna “iperattiva” che “fa tantissime cose e riesce in quello che fa, sfrutta al meglio e rende produttiva la sua giornata” e che, pertanto, detiene per la mia paziente il valore di un modello entusiasmante ed imitativo.
II merito maggiore che detiene la mamma, secondo la mia paziente, è quello di “averle sempre fatto da psicologa” ed aver elaborato per la figlia il suo “mantra del come posso migliorare” sviluppando per lei un personalizzato percorso psicologico finalizzato al miglioramento degli aspetti carenti, sia personologici che comportamentali, di Arianna nonché ad un’analisi acribica di ogni accadimento quotidiano, tesa ad evidenziare eventuali mancanze della giovane sullo sfondo dell’idea di una negatività diffusa di quello che c’è, sempre deficitario e perfettibile.
Dalle parole della paziente: “mia madre mi ha sempre insegnato che il 50% della colpa è mio e che prima viene il mio 50% e poi il 50% degli altri (…) se le persone mi trattano male è perché sono scontrosa (…) se io non avessi fatto questo, allora non avrei avuto questa risposta; quindi come posso migliorare?” ed “adesso che sono cresciuta è sfibrante perché mi analizzo da sola, cerco la soluzione da sola con il mio cervello iperattivo, è tanto faticoso e mi mancano le forze perché passo talmente tanto tempo ad analizzare e a dirmi -fai/non fai- che poi non faccio assolutamente niente”.
Risulta tristemente chiaro quanto Arianna da principio sia massimamente dipendente dal sistema condiviso con la madre, tesa a plasmare il proprio modo di essere sulla base della compiacenza dei bisogni altrui e del tutto incapace di sviluppare un -proprio mantra- rimanendo imprigionata all’interno di quello materno (dopo averlo assimilato come il suo personale habitus).
Nel corso nelle sedute Arianna arriva gradatamente a definire “il dover essere sempre in un certo modo (per poi aspettarsi una reazione sperata dagli altri)” la sua “trappola dalla quale non riesce ad uscire” ed affiora lentamente dentro lei la consapevolezza di essere “all’interno di un circolo per cui non è mai colpa degli altri ma sempre sua” e per cui lei si impegna profusamente nel tentativo di tranquillizzare gli altri, agendo e reagendo come loro si aspettano.
La paziente racconta: “Mi piacerebbe essere una persona che sta in silenzio, ma sento sempre di dover parlare siccome tutti quanti (la mia famiglia e il mio compagno) sanno che sono logorroica nel momento in cui ho la voce un po’ più bassa e sto in quiete subito mi chiedono -cosa è successo?- e si allarmano/preoccupano, e allora ricomincio a parlare… che devo fare? stare in silenzio e stanno tutti quanti in ansia oppure chiacchierare? e allora ricomincio a chiacchierare… che palle! (…) passo tutta la vita a cercare di essere me ma non ci riesco”.
Per Arianna, la difficoltà di -essere se stessa- appare legata all’impossibilità di decidere quale posizione assumere, alla sua incompetenza nel collocarsi tra la persona che “sta zitta” perché lo desidera e la persona compiacente che ha come priorità il rassicurare i propri genitori e l’appagare gli altri.
Arianna, che inizialmente rifiuta di discostarsi dal modello materno, sul finire delle nostre sedute si presenta in studio con una tinta di capelli di colore rosa intenso asserendo: “i capelli non li volevo assolutamente più rossi perché mia madre è rossa, non possono essere rossi (…) nella mia testa ho sempre avuto capelli rosa” e specificando di aver scelto proprio questo colore non solo perché rappresenta una sua personale preferenza (“l’epoca Sailor Moon che adora e non le si è mai tolta di dosso”) ma in quanto nuovo dispositivo identitario di una Arianna che “sta iniziando a pensare che se vuole fare una cosa la fa, solo per sé, senza sentirsi più in colpa perché deve dare giustificazioni a tutti” e che sta frapponendo un’iniziale iato fra lei e il sistema della madre.
Portandomi all’attenzione un banale dettaglio del suo quotidiano, la paziente afferma “ho capito che non voglio comprarmi neanche la pennetta grafica in realtà perché il mio volere la pennetta grafica è sempre legato (come per tutte le cose) a dover dimostrare a qualcuno che avrei potuto fare qualcosa con quella roba, invece io voglio comprare una cosa semplicemente perché la voglio, perché mi piace, senza nessun altro fine!” rischiarando, con queste parole, la possibilità di concepirsi dialettizzata e di infrangere il consueto paradigma (inizialmente assunto attraverso l’influenza materna) del -dover essere per l’altro-.
Riprendendo la descrizione delle dinamiche relazionali appartenenti alla storia della mia paziente, all'opposto di una narrativa diffusa incentrata sulla madre, del padre Arianna non parla mai ad eccezione di accenni sporadici e gli unici scarni elementi che Arianna include a proposito del racconto sul padre (insegnante di ginnastica e proprietario di una palestra) sono che lui “è una brava persona che qualche volta gentilmente la allena nella pratica sportiva”; è dunque possibile ipotizzare che in questa relazione simbiotica di intrappolamento con la madre, si sia manifestata una funzione paterna poco efficiente, di un padre che è sempre rimasto al margine dell’esistenza della figlia.
II secondo perno vitale su cui ruota l’esistenza di Arianna è la relazione con Pietro che per lei rappresenta “l’unica cosa che è riuscita a portare a termine e che rimane stabile in tutta la sua vita” e, conseguentemente a ciò, viene vissuta dalla paziente come una fonte di gratificazione e infallibilità; tuttavia, approfondendo appena al di sotto di una sottile e fragile superficie, la quotidianità vissuta tra Arianna e Pietro si rivela altamente problematica e priva della possibilità di una sincronia e di un incontro, sia dal punto di vista pratico che comunicativo.
Arianna spiega: “Il mio compagno è malato di pulizie e di ordine, non pulisco perché ho paura di come faccio le pulizie, come le faccio le faccio male, mi sento in colpa perché non sono capace, non vanno mai bene; compriamo da mangiare separatamente perché la mia alimentazione vegetariana è più cara e io stento a pagarmi il cibo” e ancora “lui non mi ascolta, io vorrei soltanto parlare, lui mentre parlo fa altro: guida/cucina/gioca, non mi risponde; quando parliamo è principalmente di roba sua, io gli parlo tanto perché sono alla continua ricerca di argomenti che possano interessarlo (…) lui come persona basta a se stesso e non ha bisogno di me, io non gli servo”.
Sfruttando una mia immagine che le offro in seduta (una mia fantasia subitanea di una sagoma femminile che batte forte i pugni contro un muro bianco) lei mi dirà: “il muro è lui! se batto i pugni contro il muro, il muro non reagisce, sono solo io che mi faccio del male”.
Rilevante, all’interno di questa relazione, è la quasi totale assenza di una sfera sessuale (che per Arianna e Pietro è caratterizzata da 3-4 rapporti annuali), l’aspetto della sessualità sembra essere assolutamente ininfluente per Arianna che definisce il sesso come “un’attività fisica meccanica che non le interessa né piace” e descrive se stessa come “una persona che non si mette mai in mostra e non esibisce atteggiamenti ammiccanti o provocanti perché li ritiene stupidi”.
Allo stesso tempo Arianna esprime il desiderio (che rimane inappagato) di risultare desiderabile e accattivante per Pietro, verbalizzandolo in questo modo: “vorrei essere talmente attraente da essere un problema, un mistero per lui, vorrei essere sexy ma non lo sono”.
La convivenza con Pietro appare descritta in modo altamente dicotomico: da una parte quello con il compagno figura essere un rapporto idilliaco in quanto unica dimensione che la mia paziente abbia portato a realizzazione nella sua vita, dall’altra è un rapporto profondamente intriso di drammaticità in cui Arianna, nei suoi confronti, si sente completamente “trasparente” e non vista; questa ambiguità si dà come l’esteriorizzazione di una difficoltà che Arianna incontra dentro di sé, la contraddittorietà che vive non solo con Pietro ma anche internamente: Arianna non riesce a problematizzare né i suoi aspetti relativi alla sessualità né la relazione stessa (sessualmente compromessa) ma soprattutto non è in grado di problematizzarsi nel suo essere in relazione e, pertanto, continua ad oscillare perennemente tra due prospettive incompatibili.
Tale ambiguità viene raffigurata molto bene, da Arianna stessa, attraverso l’immagine del -palco- che mi porta raccontando che sia sua madre che Pietro, proponendosi di darle “pieno sostegno e appoggio nelle situazioni problematiche”, mostrano verso di lei un atteggiamento rassicurante ed incoraggiante riservandole tipiche espressioni quali “ce la puoi fare/andrà tutto bene” che Arianna percepisce come estremamente pressanti e richiedenti.
La paziente chiarifica: “loro si aspettano qualcosa da me, é come stare al centro del palco, io non so che cosa è questo qualcosa! aspettano tutti me e io voglio scendere da quel palco, io non sono capace di fare lo spettacolo, preferirei stare in disparte, dietro le quinte, rimanere dietro e aiutare, essere utile si, senza essere vista davanti (…) mi sento sempre in difetto e ingiustificata ad avere la stima dei miei e di Pietro, loro mi dicono “tu sei brava/sei capace”; a me prende l’isteria ogni volta che lo sento perché non so cosa devo fare (…) quando parlo a mia madre e lei mi dice che tutto si risolverà io vorrei spaccare tutto ogni volta che lo sento e dirle -No, Niente si risolve! Non si sistema niente, le cose ci sono e basta!- (…) non ho bisogno di rassicurazioni e ancora meno di critiche, mi fanno sentire sola ancora di più (...) oramai parlare con mia madre non è più utile perché vorrei solo essere ascoltata, non voglio sviluppare il mio pensiero né trovare giustificazioni al perché sto così, vorrei solo che lei mi ascoltasse”.
La paziente, insofferente di fronte ai giudizi inerenti alla sua persona, nel confronto con l’altro palesa l’ulteriore incapacità di sopportare tranquillizzazioni ed elogi, che vengono esperiti da lei come fonte ansiogena di aspettativa e si mostrano incompatibili con il suo desiderio di riconoscimento, un riconoscimento che si configura come accettazione incondizionata di ciò che Arianna è nella relazione interpersonale.
Elena, l’ultimo personaggio onnipresente che compare sulla ristretta scena relazionale di Arianna, è pensabile  come la co-protagonista (assieme ad Pietro e alla sorella di Arianna di nome Emma, che Arianna nomina quasi esclusivamente in relazione a questo accaduto) di un evento drammatico per la mia paziente che ricorre sovente in seduta: una -gita in Sardegna- risalente ad Agosto 2016 segnata dalla scoperta, da parte della mia paziente, di messaggi complici e potenzialmente compromettenti scambiati tra il suo compagno e, citando le parole di Arianna, “Elena, una stupida che il mio compagno ha conosciuto in palestra e gli ha scritto dei messaggi in stile 50 sfumature di grigio” .
Arianna prosegue: “così Emma ha fatto un pezzo assurdo al mio compagno, dicendogli che è un uomo orribile che non si merita di stare con me, si sono sgozzati fra di loro (…) io, che ipoteticamente ero quella tradita, mi sono dovuta beccare gli sfoghi di mia sorella e gli sfoghi di lui; nessuno ha pensato a me”.
È interessante rilevare che perfino Arianna, in questo frangente, si è mostrata evanescente, neppure lei era presente e preoccupata per sé; sebbene si sia verificato un accaduto spiacevole e doloroso lei è, ancora una volta, totalmente incapace di concettualizzarsi come persona legittimamente ferita e che reagisce di conseguenza ma, addirittura, tenta di tranquillizzare e pacificare ogni altro.
In merito ad Pietro, Arianna afferma: “io non ho dubbi sul mio compagno, io lo so che non c’era niente; non è colpa di Pietro, lui è espansivo, simpatico, solare, brillante e disinibito, lui vuole sempre essere il cavaliere oscuro (…) Sentire altre ragazze lui lo fa, lo ha sempre fatto, lui è fatto così: è egocentrico, cerca la relazione con tutti, fa battute divertenti, ha bisogno di essere perfetto agli occhi degli altri, di farsi vedere, di essere un attore e salire sul palco ed è ovvio che abbia un sacco di ragazze che gli ruotano attorno per come si pone, non è colpa sua, la colpa è tutta di quella svenevolina di Elena; ma come le viene in mente di fare una cosa così? come si è permessa? (…) vorrei salire sul cerchio e urlare a tutti di andare a fare in culo”.
Ecco una Arianna nuovamente in conflitto che, da una parte, sembra essere massimamente accettante fino al punto di divenire cieca rispetto alla vista del ruolo del compagno in questa dinamica, tanto da concentrarne tutta la responsabilità unicamente sulla spalle di Elena; dall’altra parte ecco una Arianna che, immaginando di poterlo fare, si eleva sul cerchio disdegnando tutti dall’alto della sua irraggiungibilità.
La mia paziente, spostando l’attenzione su Elena e decentrandosi completamente da questa trama, non problematizza il tipo di relazione che lei stessa intrattiene con Pietro, tradisce gelosia e risentimento ma non assume una posizione a proposito e, anzi, si rivela massimamente incapace di portare alla luce dentro di sé la verità sulla bassa qualità della relazione che la lega al compagno (insoddisfacente e spenta dal punto di vista sessuale).
Esaurita ogni parte disponibile nel teatro di vita della paziente, al di fuori non rimangono che “tutti gli altri” che Arianna esperisce come una nebulosa anonima e insipida, assolutamente estranea alla sua sfera di pertinenza e interesse; la paziente chiarisce: “A me le persone annoiano subito e non so comunicare con nessuno, non ho argomenti che siano interessanti per gli altri e gli altri non mi interessano neanche: i maschi piticchiano e le donne squittiscono (…) non capisco proprio il genere femminile: fanno sempre cipi-cipi tutte insieme e io non ce la faccio e non le sopporto! A cena fuori fanno casino e si ubriacano, a me crea un disagio! È tutto uno squittire! Sono frivole e false, fanno le isteriche e si offendono dietro mentre davanti sono tutte amiche; io non ci riesco a essere così, non ci riesco, non ce li ho questi filtri! Io non sono artificiale come loro (…) poi, con tutto questo lavoro faticoso e infinito di analisi che io e mia madre facciamo tutti i giorni, non le tollero le persone che piangono miseria per le cavolate (…) io non ce la faccio proprio a sopportarle”.
Nella riflessione di Arianna il motivo per cui non ha amici risiede nella sua mancata tolleranza per persone che le parlano dei propri piccoli problemi quotidiani, irritandola con le loro lamentele futili e prive di qualsiasi spessore; la paziente argomenta: “gli altri mi infastidiscono al punto tale che quando io faccio un post su Facebook poi ho il desiderio di toglierlo subito perché non voglio avere i loro commenti, voglio che ognuno si faccia i cazzi propri”.
Non trascurabile è, allora, il fatto che molto probabilmente Arianna reputa me una persona (tra le poche che toccano la sua vita) degna di un ascolto; ciò è comprensibile alla luce del mio approccio terapeutico che con lei consiste massimamente nel lavoro sul P (che concerne nell’esplicitazione e ampliamento dei contenuti auto-riferiti della paziente) e nel favorire una postura riflessiva della paziente in merito a tale materiale.
Il tutto avviene quasi esclusivamente in forma di domanda con il duplice fine di far percepire alla paziente il mio vivo interesse per lei, per la sua esistenza e di farla sentire compresa, privandola di quell’orientamento che disprezza e tenta di rifuggire, tanto nella quotidianità, quanto nella dimensione terapeutica dove, prima dell’incontro con me, ogni esperienza è stata vissuta come miseramente soverchiante.
Ancora, una parte significativa del mio lavoro in seduta (quella che personalmente considero maggiormente laboriosa ed estenuante) consiste nel mio tentativo costante di offrire a Arianna, il cui eloquio si dà come accelerato e frammentato, quella cronologia temporale che salta in ogni suo racconto e nel provare a riportarla continuamente all’evento di cui, un attimo prima di vagare tra altri, mi stava parlando; le chiedo sistematicamente di “tornare indietro a ciò che stava dicendo precedentemente” proprio per farmi esplicitare quello che le è successo prima, dopo e come si è sentita a proposito; con questo esercizio perenne sicuramente le offro un filo esperienziale e una narrazione più coerente (rispetto alla sua che è discontinua e soprattutto muta di continuo il punto di vista e l’osservatore).
Proseguendo nella narrazione della vita di Arianna, la paziente racconta di impegnarsi strenuamente nella ricerca di un lavoro e di non riuscire nell’intento; ciò si associa ad un vissuto di profonda frustrazione e auto-percezione di fallimento che alimenta la sua spinta ansiogena ad una ricerca spasmodica di una collocazione lavorativa e l’incapacità di tollerare le attese che vengono definite, attraverso le parole della paziente come “devastanti”.
Arianna afferma: “chiedo solamente che non si lasci niente in sospeso perché non ce la faccio; io voglio un circolo chiuso, è sempre stato il mio problema: una qualsiasi cosa non conclusa, io non faccio niente dato che so già che rimarrà inconclusa, quindi tanto vale non iniziare”.
Aggiunge poi: “io ho un tipo di moralità per cui lasciare in sospeso la gente è proprio inaccettabile, io non ci so vivere con le attese e le persone dovrebbero trattarmi come le tratto io (…) nasce tutto dal lavoro continuo che ho fatto con mia madre/che mia madre ha fatto su di me; mia madre mi ha sempre detto -tu devi renderti conto che gli altri hanno i loro problemi quindi devi trovare il modo di parlare con le altre persone- e, quindi, il fatto che le altre persone non trovino un modo per me mi rompe i coglioni, non è giusto, il mio sforzo io l’ho fatto”.
Da queste parole emergono, con cristallina chiarezza, due emozioni fondamentali che accompagnano Arianna all’interno di ogni sua dinamica relazionale: la rabbia e la delusione esperite nel momento in cui le sue aspettative di -ciò che è un dovere per l’altro come per se stessa- vengono disattese; Arianna è adesiva all’idea che gli altri debbano corrisponderle l’esatta cifra di ciò che lei ha donato loro e che risponde alla sua particolare visione del mondo (un sistema di valori improntato su un senso assoluto ed irrealistico di giustizia, ordinatezza, coscienziosità ed eteronomia sovra-personale).
Così, tellenbachianamente, la fissazione nell’ordine delle relazioni sociali e nell’evitamento delle attribuzioni di colpa, l’incameramento acritico delle norme di senso comune rappresentano i valori imprescindibili assunti da Arianna, i quali sono incardinati all’interno nella sua struttura antropologica assieme ad un altro tratto fondamentale della mia paziente, rappresentato dalla forte intolleranza all’ambiguità.
Arianna, infatti, stenta a percepire la complessità cognitiva ed emotiva dell’altro, a coglierne sfumature e contraddizioni; è incapace di integrare qualità contrastanti e giunge a percepire inevitabilmente un mondo rigidamente dicotomizzato, dove polarizza l’altro e soprattutto sé stessa all’interno di una dinamica di idealizzazione e svalutazione oscillatoria e costante.
Risulta pensabile che Arianna, clinicamente rimandabile alla configurazione antropologica del Typus Melancholicus, scontrandosi con l’irraggiungibilità dell’altro e con l’incompatibilità del suo desiderio, riduce involontariamente l’altro ad un ruolo sociale, diviene idioagnosica nei confronti dell’individualità e del desiderio altrui.
La complessità delle relazioni umane della vita di Arianna viene ridotta a regole di comportamento concepite come impersonali, assolute, inossidabili, all’interno di una concezione unilaterale della propria realtà iper-semplificata; la sua stabilità personale è regolata dalla conformità ad un’immagine costante e socialmente accettabile, persistente alla variabilità situazionale.
Arianna esteriorizza, dunque, la propria frustrazione (derivante dallo scacco dell’incontro desiderato con l’altro) nell’adesione allo standard e, ricercando la propria sclerotizzazione all’interno del suo personale guscio egosintonico, rifugge l’attesa in quanto incertezza e rottura dinamica del suo bisogno di staticità.
L’ambiguità è vista, in Arianna, come possibile fonte di complessità e sconvolgimento dei rigidi modelli di riferimento della sua identità idem, la quale è arroccata sulla medesimezza, cristallizzata e, pertanto, refrattaria alla fisiologica metamorfosi dell'esistenza.
L’affetto che sembra essere predominante in Arianna è un perpetuo e radicato sentimento di colpa che la condiziona sia nella sfera lavorativa che relazionale ed è legato all’ulteriore incapacità di raggiungere il suo personale standard auto-imposto di condotta e di compiacenza nei confronti dell’altro; esemplificando dalle sue parole: “per me dire no agli atri è impensabile, io devo risolvere i problemi e non crearne, bisogna che io dica si perché ho tante persone a cui dire si, altrimenti sono io la stronza e mi sento in colpa, altrimenti il mio compagno poi sta male e mia madre si preoccupa (…) ho dato disponibilità a più colloqui di lavoro contemporaneamente e mi sento in colpa con tutti”.
Arianna sembra poi aver trovato (con la decisione del trasferimento presso Milano dal mese di Aprile) una sua peculiare modalità di superamento della carenza lavorativa e, conseguentemente, di stemperamento dell’ansia attraverso un vero e proprio asservimento alle attività familiari; con tono entusiastico Arianna specifica così l’esperienza milanese: “adesso la mattina aiuto nella palestra di mio padre, lavoro li come receptionist/telefonista, la pomeriggio do una mano nel centro estetico di mia mamma e nel tempo libero faccio le pulizie nel bed&breakfast di famiglia; cosi, finalmente, i soldi che si guadagnano non sono soldi che escono per un’altra persona (me) e non peso sul mio compagno”.
E ancora: “La distanza con Pietro la vivo benissimo, era più strano vivere a stretto contatto, adesso siamo tornati alla vita normale (…) fare avanti e indietro su Milano è infinito, è frenetico ma va bene così: il fatto di avere qualcosa da fare è ottimo, non mi dà il tempo di pensare, devo solo agire, va benissimo; mi si è riorganizzata la vita”.
Dunque Arianna se, stando ad Genova, lamentava la mancanza di una dimensione lavorativa, a Milano (sfruttando le molteplici attività di famiglia) ha evidentemente trovato tellenbachianamente tutti assieme i suoi -progetti di mondo- nei quali si iper-include completamente e ha potuto aderire all’idea di ruolo del -si fa così- (non di un -dass man- impersonale ma personalizzato al ruolo della mamma, al paradigma genitoriale).
Ampliando questa dinamica e approfondendo l’analisi del caso attraverso uno sguardo psicopatologico, Arianna (come classicamente accade al Typus Melancholicus nella sua fase pre-melanconica, che precede il vero e proprio scompenso depressivo) si assorbe in così tante attività quotidiane da toccare con mano il momento della rimanenza nonché la propria fallibilità.
Afferma Arianna: “Mi prendono gli attacchi di panico quando ho troppa roba da fare e non la riesco a incastrare tutta” e, dalle parole della paziente, risulta manifesto come sia lei stessa a contribuire all’emergenza della propria situazione patogena, proprio attraverso questa sua esigenza auto-captativa in molteplici occupazioni rispetto alle quali ovviamente è fallace.
Proprio questa dinamica auto-limitativa, questa costellazione di includenza-rimanenza (Tellenbach) rappresenta il situativo patogeno prossimo della mia paziente, il quale è stato esplorato attraverso l’analisi del D.
Le radici dello scompenso psicopatologico e dell’arrestarsi del divenire temporale di Arianna sono rintracciabili nella sua matrice antropologica, nel suo modo di essere-nel-mondo e di farne esperienza.
Per cui, proprio in virtù del suo progetto di mondo (finalizzato a evitare la colpa e a mantenere l’ordine sociale attraverso la compiacenza), la mia paziente si include all’interno un progetto di mondo troppo ampio oppure gravoso, dove tutti i suoi impegni si danno come co-presenti e, incapace di stabilirne una priorità temporale, Arianna rimane inevitabilmente invischiata all’interno di quella -situazione di disunione angosciosa- che precede immediatamente la fase acuta (Tellenbach).
Alla mia richiesta di specificare in cosa consistono queste crisi acute, che la mia paziente erroneamente definisce “di panico”, Arianna risponde: “vorrei spaccare tutto quello che ho davanti, lancio roba, piango e urlo e sono arrabbiata con mia madre, con Pietro, con me” ed esemplificando: “l’ultimo è stato quando ho detto di si alla mia insegnante di danza aerea per sostituirla in una lezione di giochi di equilibrio per i bambini, le ho detto di si ma avrei voluto dirle no e quindi poi mi è preso il panico perché io non so fare niente”.
Significativa è l’auto-interpretazione della paziente che, in questo momento, sembra davvero essere riflessiva e dialogizzante: “mi sto scontrando con l’immagine di me stessa che ho voluto crearmi per forza: ho detto di si alla mia insegnante perché la prima della classe deve dire si!”.
Potrebbe, qui, essere utile e pregnante la precedente analogia del palco poiché quando l’insegnante le chiede di fare la sostituzione, lei è nuovamente al centro del palco e deve recitare la parte della prima della classe; Arianna non si sente tale ma all’opposto, dentro di sé, vorrebbe ancora una volta scendere dal palco e stare dietro le quinte.
È pienamente rilevabile il problema della conflittualità (che a tratti affiora alla consapevolezza della stessa paziente) tra le due diverse rappresentazioni che Arianna ha di sé: c’è la Arianna che si sente in dovere di aderire alla regola e compiacere la sua maestra (poiché se non riesce ad essere completamente compiacente va in ansia) e poi emerge sottilmente la Arianna incapace di affermare la lei che non vuole fare la sostituzione.
Quest’ultima rappresentazione di sé, ignorata e non vista, alla quale Arianna non riesce a dare sufficiente rappresentanza e respiro (per poi, però, vivere dentro di sé tutta la frustrazione, la rabbia e l’impotenza del non poter essere come vorrebbe) testimonia, in Arianna, uno scarto perennemente dischiuso tra la lei compiacente e la lei che dà più ossigeno a ciò che vorrebbe essere (quella lei che prova una sensazione di “impiccagione costante nel non essere sul cerchio” e di ingabbiamento nell’essere compiacente con il prossimo).
Arianna compensa la carenza e la crudezza della propria -realtà reale- attraverso l’idealizzazione di sé, non solamente mediante la danza aerea (concettualizzata come verticalizzazione e sublimazione di tutto ciò che è corporeità) e mediante il suo spazio ideale (quella Polinesia di sole caldo e distese infinite di sabbia) ma anche grazie a giochi di ruolo computerizzati (anche a stampo erotico) che rappresentano, per la mia paziente, la sola modalità che sfrutta per interagire con gli altri sconosciuti e l’unico luogo dove Arianna può essere esattamente come desidera.
A fronte di una dimensione tangibile in cui esiste una Arianna oggettiva, che si nutre della richiesta fatta dalla madre e che si percepisce come fallita e insufficiente, emerge (da una dimensione artificiosa e computerizzata) un’altra Arianna, un’idea alternativa di se stessa che la paziente custodisce ambiziosamente dentro sé e a cui darà nome di Arianna 2.0.
Eccone una descrizione densa di significato: “Vorrei essere -Arianna 2.0- : una persona in pace, che se vuole parlare parla, se vuole stare in silenzio sta in silenzio, una fatina condottiera del gioco di ruolo focosa e provocante (…) vorrei essere una guida per gli altri, per aiutarli a fare solo ciò che vogliono fare, senza porsi domande in continuazione (…) vorrei essere l’imperatrice di un mondo senza più domande (…) vorrei poter mostrare agli altri la via, vorrei sapere come si fa e farlo vedere agli altri (…) sarei migliore di me stessa e sarei migliore di tutti gli altri, più capace, lo so, li saprei aiutare e guidare con la mia sicurezza e mostrerei loro come fare le cose in cui non riescono (…) avrei finalmente un cervello spento e starei in una condizione di quiete dove non avrei la necessità di parlare per forza con gli altri e neppure niente da dire loro”.
Soffermandoci sull’analisi del mondo della vita di Arianna attraverso gli esistenziali, la sua temporalità (in fase di relativo compenso e premelanconica) appare perennemente ciclica e in quanto tale statica, il tempo della medesimezza e dell’uguale, una scheggia rapidissima di attimo sempre immobile; sebbene nella quotidianità della paziente vi sia un grande movimento e un intenso fermento e sebbene la paziente (di temperamento ciclotimico) abbia la necessità di essere sempre attiva e agente e sia costantemente messa in movimento da quello che lei definisce -il suo cervello iperattivo-, il suo tempo massimamente impegnato è sempre identico a se stesso, ritorna sempre al solito punto ricorsivamente ancora ed ancora.
In fase di scompenso, invece, la paziente vive un tempo bloccato, la sua temporalità si arresta completamente, Arianna dorme lungamente, non ha la vis per muoversi dal letto sebbene lo desideri e sebbene soprattutto si senta mortificata e colpevole per questa condizione di fissità; la mia paziente subisce passivamente un tempo fermo e “il cervello le si spegne” (cit).
In merito allo spazio vissuto di Arianna, esso appare intrinsecamente legato all’aspetto della sua corporeità; uno spazio chiuso è, per la mia paziente, al tempo stesso suo tormento e suo sollievo laddove lei si rinchiude volontariamente nelle sue abitudini ripetitive (rappresentate dalle attività familiari) che ritiene appaganti e fonte di gratificazione sebbene esse siano associate contemporaneamente ad un’esperienza soggettiva (inerente al suo corpo vissuto) di “impiccagione costante” che viene arginata solamente attraverso la pratica di danza aerea.
II senso di prigionia, che Arianna esperisce costantemente quando non si esercita sul cerchio, testimonia come danza aerea per la paziente rappresenti quel suo spazio idealizzato (insieme all’idea immaginata della calda Polinesia) in cui può essere la Arianna 2.0 realizzata e pacificata, in cui può rimanere senza obbligo di scendere nel terreno del suo quotidiano (dove dovrebbe confrontarsi con la propria imperfezione); questo spazio desiderato le permette di non percepire la frustrazione derivante dalla consapevolezza che la sua realtà attesa si discosta da quella tangibile.
L’atto stesso di salire sul cerchio è una significativa metafora della verticalizzazione e dell’elevamento: la paziente si solleva sul cerchio e si distacca completamente dal suo spazio vissuto di intrappolamento, raggiungendo il suo ideale di sé.
All’opposto, quando Arianna si trova nuovamente immersa nello spazio di realtà, non prende una posizione nei confronti della lei inconcludente, del suo corpo vissuto (non amato e messo in scacco dal punto di vista sessuale), della realtà che vive come fonte di insoddisfazione e impotenza.
Poi, esplorando la modalità attraverso cui la mia paziente rappresenta l’altro e ne fa esperienza, risulta evidente che ciò di cui ha bisogno Arianna (nel rapporto con l’altro) è il riconoscimento che, per lei, non si dà né come giudizio né come valorizzazione; la paziente non tollera né di essere elogiata né tantomeno svalutata ma desidera unicamente essere accettata in toto per come semplicemente è.
Arianna (chiaramente inconsapevole che la realtà concreta è variegata, mutevole e non corrispondente alla propria ambizione) dal punto di vista relazionale sembra avere un’immagine dell’altro (nonché di se stessa) altamente polarizzata, per cui se l’altro non corrisponde ai suoi standard, al suo desiderio, al ruolo che lei gli ha preposto e designato, allora diviene immediatamente oggetto di forte svalutazione.
L’altro prefigurato da Arianna non è autenticamente tale (ossia dotato di una caratura specifica e peculiare) ma, piuttosto, è reificato e ridotto alla stregua del prolungamento del proprio desiderio; l’altro è solo il ruolo che lei gli ha assegnato e ciò che per lei deve necessariamente essere.
Esemplificando: ogni persona di sesso femminile è identificata da Arianna come leziosa, caricaturale, mediocre; pertanto, ciò che rappresenta -la femminilità- (esclusivamente così percepita) è, per la mia paziente, un qualcosa che non le appartiene e dal quale si discosta completamente.
Arianna non ha il minimo interesse nell’esplorare quello che, nella sua configurazione, è il mondo femminile (caratterizzato da abitudini e modalità comunicative frivole e inautentiche) ma risulta dedita, invece, a coltivare la dimensione interattiva fittizia dei giochi di ruolo per lei più piena ed appagante, mediante la quale può svincolarsi agevolmente da un autentico e potenzialmente deludente confronto interpersonale, giungendo ad uno scollamento desiderato dalla propria realtà.
Ancora, prendendo in esame la dinamica intersoggettiva della paziente, sia la madre che il compagno rappresentano figurativamente i suoi “muri” poiché la privano costantemente dell’ascolto di cui Arianna necessita; se la madre tenta chiaramente un’azione correttiva e migliorativa nei suoi riguardi, anche il compagno risulta orientante agli occhi della mia paziente, laddove per lei la banale rassicurazione di un -andrà tutto bene- oppure un -puoi farcela- significa orientamento e diviene fonte ansiogena di aspettativa nonché potenziale fallimento percepito.
Concludendo questa riflessione, quelli appena descritti sono tutti esempi che testimoniano quanto l’altro per Arianna sostanzialmente non esista se non per soddisfare il suo desiderio e riflettere un proprio ideale; inoltre la mia paziente, mostrandosi adesiva e compiacente alle richieste altrui, non risulta asservita all’altro al fine di soddisfarlo ma allo scopo di mantenere salda l’immagine che lei stessa ha strutturato di sé e del proprio personale habitus di comportamento nonché relazionale.
Tornando invece su H, credo che il lavoro terapeutico debba consistere primariamente nell’aiutare Arianna a comprendere che la difficoltà che lei esperisce non è tanto centrata nel rapporto interpersonale, quanto sul sé: la paziente ha interrotto il dialogo con la propria alterità interna e non è in grado di dialettizzarsi, non riesce a trovare un compromesso fra i vari aspetti di sé (che rivelano un’evidente contraddittorietà) e non conosce di sé quale posizione assumere; per cui, alla fine, sceglie una collocazione che la estranea dalla Arianna che vorrebbe essere oppure rimane perennemente oscillante tra le sue due prospettive antitetiche.
“Non riesco a raggiungermi e ad essere la Arianna che vorrei, la Arianna 2.0” afferma la mia paziente avente un’immagine di sé così svalutata e difettosa da doverla iper-valutare, attraverso la creazione questo sé ideale dal sapore isteriforme, ipertrofico e di grandiosità.
Fondamentale per Arianna sarebbe, dunque, affrontare proprio la frustrazione derivante dalla consapevolezza che questa realtà è molto meno gratificante di quella immaginifica che lei stessa ha creato; impiegarsi nel ridimensionamento del suo sé ideale per dare una voce concreta (e ancorata ad un terreno reale) alla Arianna che vorrebbe liberarsi dalla gabbia del dover essere per/fare per l’altro.
Sarebbe auspicabile, per la paziente, riuscire a tollerare la frustrazione dello scacco dell’incontro con l’alterità esterna, all’interno di una nuova prospettiva in cui l’altro non rappresenta più per Arianna il suo riflesso (ossia un altro unicamente accettante e scevro di gratificazioni e giudizi riservati a lei, un altro che si dà solamente nel modo in cui Arianna ha bisogno che si dia) ma un ipse dotato di autonomia e unicità.
Purtroppo questi propositi terapeutici sono destinati a rimanere insoluti a seguito di un evento che, a conclusione del mio scritto, cercherò di descrivere dettagliatamente come segue: posto che, per le nostre sedute (come specificato all’inizio), è sempre stato impiegato il lunedì pomeriggio, una prima domenica di Giugno ricevo da Arianna un insolito messaggio: “non posso venire domani in seduta perché mia madre e mia sorella mi stanno trascinando via da Genova per riportarmi a Milano, io non posso farci niente perché mi sento stremata e non ho le forze”.
La paziente non accenna né specifica il motivo di tale atto da parte dei familiari ed io (nonostante fossi sorpresa e preoccupata dato che la paziente ha sempre mostrato una frequenza regolare ai nostri incontri) rispettosamente non lo indago, sperando di essere da lei nuovamente ricontattata a breve.
Ciò avviene pochi giorni dopo quando Arianna mi comunica unicamente che il lunedì seguente sarebbe stata presente in seduta; la paziente apre il colloquio raccontandomi di aver avuto, attraverso un’applicazione di messaggistica istantanea del cellulare di Pietro, la prova incontrovertibile del tradimento del suo compagno proprio assieme ad Elena (relazione infedele che la paziente suppone perdurare da quella famosa gita in Grecia).
In seguito a questa amara rivelazione, Arianna è risoluta a discuterne con Pietro che, fin da subito, non nega una relazione con Elena ma la ammette unicamente sul piano platonico e non sessuale,  pregando la mia paziente di non andarsene definitivamente da Genova, spiegandole che “non se la sente di lasciare Elena” e chiedendole “di lasciargli il tempo di capire cosa voglia, rimanendo insieme lui comunque”.
Arianna chiarifica al suo compagno che, prima di prendere una decisione a proposito, sarebbe andata a confrontarsi direttamente con Elena (che conosce perché frequenta la sua stessa palestra) sebbene lui la implori di non farlo in quanto, secondo Pietro, agendo in tale modo Arianna avrebbe “messo nei casini lui ed Elena” che è sposata.
Nonostante questa richiesta, il giorno seguente Arianna si reca dalla “sgualdrina” e la invita al bar, offrendole la colazione, per discutere con lei in merito al tradimento; ecco come la paziente descrive il loro incontro: “le ho detto che ho trovato i loro messaggi e lei ha ammesso senza nessun problema la relazione con Pietro dicendo che se lo porta pure a letto (…) avrebbe dovuto essere il contrario: lei pentita a chiedermi scusa e io l’incazzosa, mentre invece mi sono sorbita due ore Elena che non faceva che lagnarsi della sua vita privata dicendo che il marito che non la guarda più; mi ha anche detto che deve ringraziare Pietro per il sesso che per lei è stato una benedizione, perché altrimenti sarebbe andata a prostituti (…) non le ho fatto una scenata e le ho voluto offrire io la colazione perché altrimenti sarei diventata la stronza per cui lei e Pietro si sarebbero consolati a vicenda e io non volevo che facessero le vittime di fronte ad una vittima, io volevo che loro pensassero che io sono stata quella intelligente, non come loro che hanno preso e tradito perché gli andava” e aggiunge: “Entrambi mi hanno detto -mi metti in una condizione difficile- e io non ho avuto la compassione di nessuno”.
In effetti, se Pietro sembra preoccuparsi maggiormente per la propria convenienza, anche Elena pare mostrare un atteggiamento di auto-compiacimento, superficialità e strafottenza nei confronti di una Arianna, ancora una volta, dolorosamente in ascolto e pacificante.
Alla mia richiesta di esplicitarmi il suo stato d’animo lei, piangendo e con un timbro vocale tremante e flebile, asserisce: “A me dispiace così tanto per lui perché è una persona così sola, per me è insopportabile l’idea di lasciarlo solo, il mio unico pensiero è fargli meno male possibile (…) tutto quello che ho sempre desiderato era che lui parlasse semplicemente con me, io sicuramente ho mancato in qualcosa, gli ho sempre chiesto -parlami! che cosa ho che non va? dimmi dove sbaglio!- e lui non me lo hai mai detto, mi ha sempre detto che andavo bene così, io ci ho creduto e ho sbagliato, sono una che lavora costantemente su di me e mi sarei impegnata per lui, se solo lui me lo avesse detto (…) Pietro vive un’esistenza terribile: ha me e un sacco di amici ma non parla mai a nessuno dei suoi problemi, non riesce a gestire le persone e i sentimenti, è vanesio ed è sempre alla ricerca di altre ragazze con il quale fare il frizzante e l’allegro; lui mi dice sempre che non si piace mai e ha bisogno di trovare altre persone a cui piacere, ha bisogno di trovare qualcuno che gli dica che va bene e che è fantastico, che gli dia il frizzante e il brivido, lui vuole essere splendido per il resto del mondo (…) io gliel’ho detto talmente tante volte (che per me era perfetto così) che non ha più importanza per lui; avrei dovuto essere frizzante come Elena, ho fallito (…) vorrei essere io la sua scelta, vorrei essere la cosa che a lui manca e, anche se mia sorella Emma ha risposto al mio telefono al posto mio e gli ha detto di non contattarmi più, vorrei trovare il cellulare pieno di chiamare e messaggi di Pietro, vorrei che lui non smettesse mai di cercarmi”.
Di nuovo, in questo discorso c’è solamente una Arianna angosciata per Pietro e risulta assente una lei sofferente e consapevole del proprio dolore che assume una posizione, sia essa nei confronti dell’atto di infedeltà di Pietro che nei confronti della sorella Emma (che la mia paziente lascia rispondere al suo cellulare perché “non ce la fa a rispondere da sola”).
D’improvviso la paziente torna ad -indossare il suo consueto habitus- vincolato al senso di colpa e si immette all’interno di un paradigma di decentramento assoluto da sé, che è racchiuso in uno spostamento sulla  frustrazione potenzialmente inflitta da lei al compagno (con il suo possibile abbandono) e in una focalizzazione sulle presunte caratteristiche personologiche di Pietro (messe in rilievo per giustificare il suo modus operandi); questa modalità, adottata da Arianna, le impedisce una postura riflessiva nei confronti della propria esistenza.
In prossimità della conclusione di questo stesso colloquio, la mia paziente mi rivolge un interrogativo centrale: “dato tutto ciò, devo lasciarlo e andarmene definitivamente? ho bisogno che lei mi dia una risposta”; io, rifiutandomi di sostituirmi a lei, le chiarifico che il mio compito, in quanto terapeuta, non è quello di fornirle la mia personale risposta ma di aiutare lei a trovarne una propria e che ci saremmo potute rivedere la volta successiva per analizzare meglio questa richiesta.
Sul finire di quella settimana, prima che giungesse un nuovo lunedì, ricevo un messaggio telefonico (proveniente dal cellulare della mia paziente) che cito di seguito: “Sono la mamma di Arianna, rimarrà definitivamente a Milano, ogni appuntamento preso è disdetto”; alquanto sorpresa ed incupita per questa informazione, dopo un breve lasso di tempo e aver ponderato sull’accaduto e su una risposta, io scrivo di rimando: “Grazie signora dell’informazione, ovviamente accetto la decisione, tuttavia se e quando Arianna vorrà, mi piacerebbe discuterne con lei”.
Non ho più avuto notizie di Arianna da allora e, come prodotto di riflessione in merito a quanto verificatosi, ho concettualizzato due letture dell’accadimento che possono essere pensate come consustanziali: la drammatica rivelazione del tradimento di Pietro, per Arianna, può avere rappresentato jaspersianamente una situazione limite che ha portato alla rottura del suo guscio difensivo (all’interno del quale Arianna inconsapevolmente era solita modellare la sua identità di ruolo attorno alla relazione con Pietro, che per lei ha rappresentato l’unica dimensione “portata a compimento” e nella quale ha potuto sentirsi non fallibile ai suoi stessi occhi).
Dopo questa frattura (che ha messo in discussione la sua granitica visione del mondo) quella Arianna, che a tratti era perfino riuscita a cogliere le sfumature di se stessa e del mondo si è smarrita; come in una sorta di spaesamento, ha lasciato il posto ad una Arianna disconosciuta a se stessa, fragile e altamente dipendente (che si lascia prelevare forzatamente di casa dalla mamma e dalla sorella o permette loro di parlare per suo conto poiché non ha le energie sufficienti per intraprendere autonomamente una direzione).
La seconda lettura include la mia figura professionale proprio in virtù di questo bisogno emergente in Arianna di dipendere dall’altro che ricostituisca in lei, con il proprio agito, i pezzi della sua identità in frantumi.
La mia paziente avrebbe senza dubbio desiderato che io le indicassi la corretta modalità attraverso cui -poter migliorare- e la orientassi nel suo incerto percorso venturo; dato che non ho soddisfatto la sua richiesta è caldamente ipotizzabile che Arianna abbia ritenuto me deludente e valutato il mio aiuto psicologico come inefficiente.
Paradossalmente, il mio rifiuto di una spinta orientante nell’incontro con Arianna è stato proprio il primo presupposto per il quale lei aveva scelto me (percependomi diversa da tutti gli altri psicologi che “con lei non hanno mai capito nulla e l’hanno voluta prevaricare”); il fatto che io non ne avessi sentito alcuna esigenza ma al contrario, nella relazione terapeutica, le avessi sempre dato la possibilità di essere ascoltata in modo autentico senza imprimerle un mio segno, ha incontrato l’implicito assenso di Arianna fino al momento della dissoluzione del guscio.
Spaurita e priva di un appoggio dopo questa frattura, Arianna avrebbe probabilmente desiderato che io la guidassi e -diventassi per lei la Arianna 2.0 condottiera e sapiente- all’interno di urgenza subitanea che non ho accolto (disattendendo, in questo modo, la sua aspettativa salvifica nutrita nei miei riguardi).
È, infine, pensabile che una Arianna così debole (adesso di nuovo completamente deresponsabilizzata, passiva e dipendente dalla madre, dalla sorella, dall’idea illusoria dello psicologo che dirige) non sia stata in grado di tollerare la mia dose di ri-centramento (espressa nei miei molteplici tentativi di spingerla a pensarsi e sentirsi); pertanto, anche la conclusione del nostro rapporto terapeutico è stata purtroppo contraddistinta dal -decentramento da sé- di una Arianna evanescente che, un’ultima volta, invece di collocarsi in una propria prospettiva e soggettivarsi, scompare silente in dissolvenza.
 
Bibliografia
 
Jaspers K., “Psicopatologia generale”, Il pensiero scientifico Editore, 1964.
STANGHELLINI G., “Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura”, Raffaello Cortina Editore, 2017.
Tellenbach H., “Melancolia. Storia del problema, endogenicità, tipologia, patogenesi, clinica”, Il Pensiero Scientifico, 1975.

 

> Lascia un commento


Totale visualizzazioni: 1460