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IL CASO DI CLARISSA, RACCONTO DEL NOSTRO PRIMO INCONTRO

8 Apr 20

Di Dafne-Buttini
 
Clarissa, 23 anni, senese, studentessa di Medicina presso l’Università degli Studi di Siena ha un primo approccio telematico con me, attraverso un messaggio al mio profilo professionale Facebook; durante il suo primo contatto, utilizzando una modalità linguistica rispettosa del mio ruolo professionale ma non fredda, educatamente richiede la mia attenzione riferendomi in modo aspecifico una condizione di grave malessere per la quale “chiede il permesso di potermi telefonare a volte”, leggo in lei un bisogno di ascolto reale che va oltre la mancata verbalizzazione data dalla nostra modalità interattiva virtuale, acconsento mossa da genuino interesse clinico per il suo modo di essere al mondo.
Clarissa mostra da subito una sincera gratitudine per la mia disponibilità, si dice “rassicurata” dalla mia disponibilità che percepisce come accogliente; lo stesso avviene le due volte seguenti in cui ricevo le sue chiamate vocali e mantengo una funzione di ascolto, sono lunghe e intense telefonate, momenti di scarica emotiva dopo litigi con il convivente in seguito ai quali è “fuggita di casa” piangendo e si “rifugiata in un piccolo parco isolato” per chiamare me, il tono della sua voce flebile e drammatico si alterna a rabbia manifesta e dirompente mentre definisce se stessa “disperata” e descrive l’abbandono percepito riferito ai 2 giorni a settimana in cui il suo compagno la “lascia sola” per recarsi da casa dei genitori e della sorella minore “dalle 20 di sera a mezzanotte” e il suo sconforto più assoluto causato da un suo ritardo “se torna a mezzanotte e 5 minuti io non lo posso tollerare, come può farmi questo quando gli concedo già di uscire per andare in palestra e in piscina? come può approfittarsi di me ogni volta in questo modo e, pur sapendo che mi lascia sola e che io glielo permetto, pur sapendo che lo aspetto da brava mangiando sola come un cane, come può anche ritardare?” al suo vissuto abbandonino e di delusione rispondo sempre rispettosamente rimandandole riflessivamente le sue emozioni: “deve essere molto doloroso per lei tutto ciò”.
Il quarto contatto con lei avviene tramite un messaggio telefonico in cui mi chiede un appuntamento in studio ed io la accolgo, stabilendo insieme a lei e modulandomi anche sui suoi impegni, un giorno settimanale per i nostri colloqui.
Al primo colloquio Clarissa si presenta all’appuntamento con qualche minuto di anticipo suonando il campanello, così da essere puntuale per l’ora stabilita.
Si presenta alla porta dello studio una giovanissima donna, pallida in volto, di corporatura sottile ed esile, molto magra e emaciata, occhi stanchi e cupi, un biondo chiarissimo colora il caschetto di capelli lisci, il rossetto di un rosso caldo le illumina un viso altrimenti spento. Mi sorride lievemente, traspare allora timidezza ed imbarazzo dal suo non verbale, la sua mano posta a me in segno di saluto è leggermente tremante, la sua andatura per raggiungere la stanza del colloquio mi sembra meccanica, quasi a scatti e priva di naturalezza.
Giunta nella stanza si siede sul divano e, sempre mantenendo una posizione corporale sostenuta e rigida (schiena inarcata, braccia e gambe strette e congiunte), dopo un momento iniziale di silenzio prolungato e pieno in cui leggo il suo bisogno di prepararsi ad un’intesa aperta emotiva, Clarissa esordisce con “dottoressa, sono disperata”; nel pronunciare questa prima “battuta” la voce le trema, i suoi occhi sono umidi, le mani si torcono e, analogamente a quanto accaduto nei nostri incontri telefonici, una carica emotiva fortissima e colorita di rabbia e dolore è immediatamente palpabile attorno a noi, un flusso caldo arriva celere e impetuoso a sciogliere un “arresto” silente ed iniziale.
Tale energia, promanata da un corpicino così minuto, sembra idiosincraticamente contenere dentro di sé un bisogno colossale e irrefrenabile di esternazione emotiva, il quale avrà voce per tutto il nostro incontro, che sarà caratterizzato da una temperatura emotiva elevatissima e sfavorente una comunicazione coesa narrativamente.
Clarissa, utilizzando una modalità comunicativa genuina e dirompente mi presenta quello che si rivelerà essere il suo “perno vitale” che la motiva al nostro colloquio, ossia la relazione con il compagno che lei definisce come “la cosa peggiore che le sia mai accaduta nella vita, sotto ogni punto di vista”.
Inserendo brevemente, all’interno della mia narrazione, una nota sul contesto abitativo della giovane è opportuno accennare che Mirko, questo è il nome del suo convivente, ha 25 anni, diplomato in un istituto professionale e disoccupato, convive con Clarissa da due anni in un piccolo bilocale senese, lei è una studentessa non lavoratrice e tutte le loro spese domestiche sono sostenute unicamente dalla madre di Clarissa la cui famiglia è abbiente; contrariamente a ciò, i genitori di Mirko versano in condizioni economiche critiche e, pertanto, non forniscono alcun sostegno finanziario ai due giovani.
Gli occhi inizialmente madidi di Clarissa sono ora lacrimanti mentre, progressivamente sempre più infervorata durante il racconto, esprime un vissuto di profonda frustrazione definendo il convivente come “il suo parassita” o “la sua larva”, il quale “convive con lei solo per essere mantenuto grazie ai sacrifici della sua famiglia, quindi i suoi (di Clarissa), pur di non gravare sui propri genitori economicamente” e che “ha perfino il coraggio di farlo con nonchalance, senza alcun senso di colpa e soprattutto senza fornire, in cambio per la sua immensa gentilezza, neppure un minimo aiuto domestico o nelle cose quotidiane”. 
“Io non sono un ente di beneficienza! mi aspetterei che mi fosse grato e me lo dimostrasse, per tutto quello che faccio per lui e per il peso che tolgo ai suoi genitori che sono solo degli ingrati, beh… da qualcuno avrà pur preso quell’ameba” prosegue la giovane animatamente, mentre le sue lacrime si fanno più corpose, la voce è singhiozzante e il suo corpo adesso trema interamente.
Mi colpisce in modo subitaneo la sua abilità di utilizzare l’ironia, come se essa rappresentasse il tentativo fallace ed estemporaneo di esorcizzare un dolore che in lei sembrerebbe auto-alimentarsi in modo assolutamente spontaneo e distruttivo, senza possibilità alcuna di essere contenuto.
Clarissa definisce questa situazione come “la ciliegina sulla torta” e spiega che il suo vero problema non è quello economico e che “il mantenerlo” è solo “un ulteriore peso che si aggiunge ad altri ben peggiori” da sostenere per lei poiché “se lui fosse una persona che la fa sentire amata e compresa, una persona che si mostra sensibile e disponibile quando ha bisogno di lui sia fisicamente che emotivamente e una persona che le porta rispetto non lasciandola da sola, allora non le peserebbe prendersi cura di lui, anzi, ne sarei davvero felice; ma così, purtroppo, non è”.
L’auto-descrizione di Clarissa è quella di “una persona bisognosa di amore” che, in un’immagine puerile e tenera fornita dalla stessa paziente, richiede “coccole e affetto” ma riceve solamente “briciole” dalla persona del compagno; si definisce come una persona ambiziosa per la scelta universitaria di medicina ma “la cui determinazione e la cui autostima crollano miseramente sotto il peso di ogni delusione amorosa” quando, mi racconta, “sta male per il suo fidanzato” non è in grado di studiare né di concentrarsi su nient’altro che non sia il suo dolore subitaneo, la cui intensità non cessa per ore intere nelle quali Clarissa piange e strepita convulsamente a letto, ansimando, digrignando i denti e accusando nel mentre un acuto dolore localizzato allo stomaco.
Al termine dello “sfogo”, questo acuto impiego di energia la lascia, dal punto di vista fisico, completamente stremata e le causa una cefalea fortissima che perdura ore, algia allo stomaco per i ripetuti spasmi muscolari, vertigini e profonda astenia connessa ad un vissuto corporeo di estrema pesantezza; spossata resta immobile a chiedersi “che senso abbia la sua vita” e “che persona vuota lei sia, tanto da vivere solo per l’amore e da dipendere completamente da un uomo che la fa soffrire ma che è assolutamente incapace di lasciare”.
Emerge dunque un vissuto drammatico di impotenza che, in Clarissa, si accompagna talvolta a pervasiva delusione verso la sua figura a causa della propria mancata autonomia e talvolta a fierezza auto-riferita, mentre spiega “lei è fatta così” e “il modo in cui ama, con tutta sé stessa, è unico, solo lei ne è capace e proprio questo è ciò che la rende diversa da tutti gli altri e speciale”.
Clarissa, argomentando, mi spiega che il bisogno di amare e di essere amata definisce tutto ciò che è, il suo sogno è sempre lo stesso fin da quando era bambina: trovare una persona che si prenda cura di lei come lei è disposta ad accudirla a sua volta, utilizzando una brutale chiarezza accompagna questa affermazione con una metafora pregnante “vorrei essere la schiava del mio schiavo” in un rapporto ideale cristallizzato di reciproca soggezione che sembra apparire, nella mente di Clarissa, come atemporale e de-situato, nella sua assolutezza.
La paziente è consapevole che il suo modo di amare non è condivisibile né condiviso dalle altre persone; quando si apre con altri spiegando la propria modalità in tema sentimentale essa viene solitamente appellata come “eccessiva, irrealistica e malsana”; attributi per questo tema ai quali Clarissa si definisce con rassegnazione “abituata da sempre” poiché “non ha mai incontrato nessuno nella sua vita che appoggiasse e condividesse questi suoi pensieri”.
 “Per questo mi sono sempre sentita diversa e tanto sola, come se il mio mondo fosse un mondo differente rispetto a quello di tutti gli altri e non ci fosse mai proprio nessuno per me, nessuno in grado di comprendermi; solo nei cartoni da piccola e nei film d’amore da grande ho trovato un po’ di conforto insieme a tanta pena per me perché io non avrei mai vissuto una storia così romantica e intensa”.
Proseguendo argomenta rendendomi partecipe dei propri valori cardinali: “Io so di amare davvero con tutta me stessa e ne sono orgogliosa; sinceramente non ho mai capito nessuna coppia di quelle che ho visto o conosciuto: unioni così effimere e prive di senso, formate da individui egocentrici e felici nel fare cose e nel passare tempo senza la persona con la quale dovrebbero invece dividere la vita, ipocriti che hanno il coraggio di dichiararsi reciprocamente un -ti amo- o un -senza di te non posso vivere- quando in realtà queste sono solo ridicole bugie poiché ognuna di queste persone, che si definisce così innamorata, in realtà si completa da sola e non ha bisogno di nessun’altro all’infuori di se stessa”.
Un drammatico sentimento di estraneità e di inflessibile biasimo rispetto al sentire comune altrui avvolge il suo peculiare modo di essere al mondo; Clarissa sembra esserne tristemente cosciente e definirsi dichiaratamente impotente di fronte al suo vissuto “So di essere quella esagerata, asfissiante e patetica per gli altri ma la verità è che io non posso sopportare che Mirko esca senza di me perché vorrei condividere con lui ogni momento della giornata e soffro immensamente nel non averlo sempre accanto e più di ogni altra cosa vorrei che anche lui mi volesse vicino invece di aspirare sempre ad escludermi e a prendersi continui spazi propri: la piscina, la palestra, i genitori, il caffè con l’amico, neppure a quello io posso partecipare perché non mi vuole… così mentre lui esce a divertirsi accusandomi di pressarlo io rimango sola a casa ad aspettarlo, e poi ha il coraggio di dirmi che mentre lui esce anche io potrei uscire con voglio, come se io fossi solo un giocattolo logoro e rotto da sistemare in un angolino buio della stanza in modo tale che nessuno lo veda e non crei disturbo, stonando tra giochi nuovi a sfavillanti”.
Clarissa, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento del mio studio, il capo chino e le mani conserte, lascia trasparire un vissuto di vergogna molto forte quando mi confessa che ogni volta supplica Mirko di non uscire e di non lasciarla sola oppure di portarla con sé, piangendo concitatamente e urlandogli di “non farle questo perché per lei è troppo” e, sebbene ogni tentativo di “trattenerlo a sé” ogni volta fallisca, lei “non può fare altro che continuare a pregarlo ogni volta e starci male ogni volta, sempre nello stesso identico modo” all’interno di una circolarità distruttiva e ineludibile che ritorna eternamente a se stessa, ancora e ancora.
La tragicità del racconto aumenta mentre Clarissa mi descrive un sentimento pervasivo di vuoto che “la lacera” fino al ritorno del suo compagno, parentesi temporale in cui si trova totalmente inabile nello svolgimento di qualsiasi attività quotidiana, rimane supina sul letto talvolta piangendo convulsamente talvolta silente, in balia di un intenso stato di ansia abbandonica e paralizzante accompagnata da un vissuto di drammatica incompletezza; in questi momenti, dalla parole della stessa paziente, Clarissa “cessa di esistere poiché sola lei è niente” e “diventa come un autonoma meccanico che non prova alcun piacere o interesse per nessuna attività o avvenimento della giornata”.
A volte, dato che non ha la concentrazione sufficiente per studiare, decide di impiegare le ore solitarie guardando i suoi film preferiti ma mi riferisce che questo atto non è per lei fonte di piacevolezza né di tranquillità e rappresenta unicamente uno strumento che impiega per percepire velocizzata la pausa temporale che la divide dal momento in cui il compagno rincaserà.
Emerge una totale carenza in Clarissa di una propria base esperienziale, una flebile consapevolezza identitaria ed un bisogno estremo e disperato di riconoscimento per cui “lei di solito fa tutto ciò che deve fare per gli altri; unicamente per se stessa non c’è nulla che lei faccia veramente” dalle più basilari attività come lavarsi, vestirsi, avere cura del proprio aspetto (che compie per compiacere il fidanzato e per apparire convenzionale e gradevole allo sguardo altrui) a occuparsi meticolosamente della pulizia della casa e cucinare, lavare e stirare (attività cui profonde grande impegno per attirare l’attenzione del compagno sulla sue cure e premure, nella speranza illusoria che lui desideri contraccambiare o ringraziarla, scegliendo di rimanere a casa) allo studio di medicina (poiché un giorno le persone che curerà le saranno grate e penseranno a lei come ad una persona degna di rispetto e stima).
Viceversa, due sono le attività, percepite come appaganti, nelle quali Clarissa indugia talora che sono utilizzate in modo strumentale e compensativo per alleviare il suo disagio dovuto a situazioni stressogene.
La prima consiste nel consumare rapidamente grandi quantità di street food ipercalorico fino a sentirsi sazia in modo spiacevole “per consolarmi e placare l’ansia scelgo solitamente cibi grassi e saporiti che sono i miei preferiti da sempre ma lo faccio solo a volte perché tanto mi ingozzo e non me li gusto mai, mi servono solo per dimenticare per qualche minuto il dolore”.
Secondariamente vi sono volte in cui Clarissa esce da sola ma lo fa unicamente per fini utilitaristici, più spesso di acquistare indumenti ed accessori in negozi costosi “di solito non esco mai da sola perché non ne vedo il senso e mi fa sentire ancora più sola, quando lo faccio però deve essere per qualcosa di preciso da fare, mi sono sempre piaciuti i vestiti, le borse e le scarpe ma purtroppo quando entro in un negozio con la mia carta di credito non mi controllo: se una cosa mi piace la devo comprare per forza, una volta ho speso 500 euro in un giorno, perciò anche questo lo faccio di rado, altrimenti diventerei grassa e povera e… mi manca pure questo! Stessa cosa per il bere e il fumare: non bevo e non fumo mai perché le volte in cui ho bevuto ho provato il desiderio di stordirmi, sono finita varie volte all’ospedale e l’unica volta in cui ho fumato, sebbene il sapore della sigaretta non mi piacesse affatto, ne ho fumato un pacchetto intero una dietro l’altra, perché tutti dicono che fumare calma i nervi e volevo tranquillizzarmi”.
Prendersi cura della propria gatta: spazzolarla e coccolarla per ore intere tenendola dolcemente in grembo, le restituisce un po’ del calore di cui necessita: “il suo attaccamento dolce     a me e le sue fusa mi fanno sentire amata e voluta, e poi, quando sono sola in casa per me c’è solo Lili a tenermi compagnia, siamo solo noi 2 e credo sia mio dovere ricambiare il suo affetto dedicandomi a lei che, con le sue attenzioni, allevia un po’ il mio dolore”.
La necessità impellente di “non sentire dolore” è sempre connessa, in Clarissa, con la delusione, l’abbandono e la solitudine percepita in materia sentimentale; a tale proposito ritiene il suo compagno “non all’altezza dei suoi bisogni” e lo tratteggia come “una persona cattiva” e totalmente incapace di comprenderla, di farla sentire amata come meriterebbe, di fornirle l’attenzione di cui avrebbe bisogno nella più banale quotidianità e di accogliere la sua grande sensibilità; è “egocentrico ed egoista” o come più spesso viene apostrofato da Clarissa stessa “lui è una bestia”.
Mi colpisce, nella sua descrizione ricorrente, come si palesi la mancata attribuzione di qualsiasi qualità positiva riferibile questa persona che giunge ad essere, nell’immaginario di Clarissa, disumanizzata, quasi fosse una fiera affamata: “come un leone che una volta giunto sul luogo di caccia, cibatosi del banchetto di carne fresca, lo abbandona privo di rimorsi”.
Il suo convivente diviene il perno di una polarizzazione affettiva fortissima in senso svalutativo, espressa dalla paziente ripetutamente e in modo particolareggiato: “È una cosa strana da dire, lo so, e se la raccontassi in giro penserebbero tutti a me come ad una persona orribile ma… io vorrei tanto che lui si sentisse in colpa e soffrisse, almeno quanto soffro io per il male che mi infligge” mi confessa Clarissa e aggiunge specificamente: “se lui uscisse di casa per lavorare, per portare il pane in tavola per me che dovrei essere la sua famiglia, allora sopporterei tranquillamente di essere lasciata sola per questa buona causa e tesserei le sue lodi di compagno maturo e responsabile; invece lui esce solo per divertirsi e umiliarmi, se lo sapessi da solo in casa e depresso a torcersi di dolore proverei solo gioia e un’immensa soddisfazione”.
La quotidianità vissuta da Clarissa viene così raccontata: “ogni volta sto male per qualcosa a causa sua perché mi manca continuamente di rispetto ogni singolo giorno, non solo non mi aiuta mai spontaneamente in nessuna faccenda domestica e se lo richiedo si rifiuta di collaborare, non solo di professione fa il mantenuto utilizzando le mie cose come fossero sue (come la macchina che usa per uscire a piacimento), non solo non ha il minimo riguardo per il mio ordine e la mia pulizia premurosa della casa e non ripone mai nulla di ciò che usa con il risultato che tocca a me corrergli dietro come fossi la sua serva o lui fosse il mio bambino, non solo con me non esce mai perché è la persona più indolente del mondo, ma ha il coraggio di recriminare a me presunti torti. Non si vergogna neppure quando accusa me di fargli pesare di -essere un mantenuto e tutti i soldi- che, in realtà, con bontà gli elargisco quando non se li merita affatto, non ha spese solo per merito mio e, eppure, non mi è grato.
Al contrario mi ripete che io, quando mi sono messa con lui, ero a conoscenza della sua impossibilità di mantenersi ed è stata una mia scelta prendersi cura di lui, che dovrei farlo sentire libero e invece lo faccio sentire in prigione e arriva a minacciarmi continuamente di tornare dai suoi se gli vieto qualcosa come l’uso della mia macchina, del computer o i soldi per obbligarlo a passare tempo con me o a comportarsi civilmente, così alla fine cedo umiliandomi perché non posso stare da sola e senza lui che, di questo, ne è perfettamente consapevole”.
Esprimendo un vissuto di profondissima mortificazione per se stessa ad ogni seduta mi racconta di queste concessioni quotidiane che le sono “imposte dal compagno, al di fuori della sua volontà” alle quali, quando tenta di opporsi vietandole, ha come risposta solita “se non sono libero di fare neppure questo allora me ne vado” per cui, per quanto desidererebbe “mantenere la sua posizione” alla fine “acconsente a lasciargli usare le sue cose” e molte volte “per paura di averlo deluso e che, per questo, scappi via” Clarissa “arriva ad umiliarsi facendogli regali costosi o dandogli soldi che sa perfettamente che Mirko passerà ai suoi genitori per pagare qualche conto” con il risultato indiretto che “quei luridi accattoni dei suoi genitori beneficiano dei miei soldi; non gli basta che gli mantenga il figlio, devo anche pagargli il pane in tavola proprio io”.
Da questa narrazione emerge l’accenno di una situazione abitativa altamente disfunzionale che, nella condizione di estrema fragilità emotiva in cui versa Clarissa, sembra essere particolarmente destabilizzante e nociva per la giovane la quale, pur di rimanere aggrappata con ogni anelito vitale ad una relazione amorosa e contestuale (che definirei come densa di perversità), tenta di agire condotte manipolative al fine di non perdere la vicinanza e l’attenzione della persona amata, “scopo unico e ultimo della sua vita”.
A tale proposito, risulta evidente, da parte di Clarissa, un bisogno spasmodico e totalizzante di accoglimento da parte della figura di attaccamento preminente (il suo compagno), tale necessità risulta essere rifiutata e frustrata in modo sistematico da Mirko e questo accadimento ha, ogni volta, un impatto fortemente significativo sullo stato psico-fisico della giovane, che racconta di frequenti episodi di sue “crisi” che si succedono con cadenza regolare di 2 giorni circa e anche più spesso, a seconda degli avvenimenti quotidiani: “quando il mio compagno mi risponde male perché è seccato da una mia banalissima richiesta che esprimo sempre con estrema gentilezza, come un aiuto domestico e mi dice che -io pretendo cose- oppure quando mi dice che ho mancato perché -ho promesso che mi sarei presa cura di lui invece lo faccio elemosinare per qualche spicciolo- e ancora quando ha il coraggio di dirmi che -dato che io gli faccio pesare ogni sua uscita e tento sempre di farlo sentire in colpa, non merito di essere portata fuori da lui- …ecco, quando mi investe di queste cattiverie gratuite, io non posso proprio sopportarle. Reagisco inizialmente con un pianto disperato e urlandogli contro tutto quello che faccio per lui, la sua ingratitudine e la sua assoluta mancanza di rispetto nei miei confronti e nei riguardi dei sacrifici che faccio per compiacerlo, sento la rabbia che mi cresce dentro  mentre strepito agitandomi; lui invece di sforzarsi di comprendermi, darmi una carezza o tenermi stretta in un abbraccio che mi calmerebbe, mi ride in faccia e mi prende in giro facendo il verso al mio pianto o imitando il gracchiare di una cornacchia.
Allora in quel momento perdo il controllo del mio corpo e mi avvento contro di lui con tutta la rabbia che sento cercando di ferirlo, lo graffio a sangue o lo mordo il più delle volte ma lui è un uomo massiccio ed è più forte di me così riesce sempre a divincolarsi e mi spinge a terra o contro il muro con forza e, con lo sguardo carico di odio, preme la sua mano contro il mio viso per impedirmi di urlare e singhiozzare ancora. A volte mi prende anche a schiaffi, pochi ma vigorosi; allora io piango ancora più convulsamente pregandolo di smetterla di farmi male, e alla fine esce dalla stanza continuando a darmi della -malata di mente- da lontano. Io chiudo la porta a chiave ed, esausta per lo sforzo, mi stendo sul letto in preda a dolori allo stomaco e un mal di testa atroce; quando esaurisco le lacrime e le grida finalmente mi addormento; al mio risveglio solitamente è un giorno nuovo e il mio umore è molto buono; sono speranzosa di passare una bella giornata, anche piuttosto energica se Mirko è in casa così mi dedico alla faccende e studio, fino a che non accade nuovamente lo stesso episodio. Quasi ogni giorno mi accade questo perché ogni crisi lui me la recrimina duramente, mi punisce dicendomi che per come mi sono comportata non vuole uscire fuori con me”.
Ho voluto riportare un’esternazione così lunga della paziente poiché la giudico densa di significato per una iniziale comprensione del quadro psicopatologico nonché contestuale di Clarissa; si palesa da questo inciso come i suoi episodi di siano la manifestazione dal punto di vista comportamentale di eccessi dissociativi transitori in cui emergono un’aggressività incoercibile e una rabbia esplosiva; le “crisi” rappresentano il cuore di un fluire emotivo inarrestabile, nonché distruttivo ed implosivo, che si configura come il tratto cardinale della personalità della paziente e che raggiunge il suo apice nei momenti quotidiani di maggiore tensione.
In un’immagine offerta dalla stessa paziente: “la mia emotività mi ricorda il movimento dinamico del mare che ha la sua risacca ma poi ecco una nuova ondata che, impetuosa, abbraccia e travolge tutto per trascinarlo via con sé; ecco… quello che io sento è questo: condiziona tutto quello che sono ed è sempre stato così”.
Il bisogno sconfinato di “investire emotivamente l’altro e catalizzarne l’attenzione sulla sua figura” rappresenta per Clarissa il pattern ripetuto e costante della propria esistenza, reiterato su ogni figura significativa: “prima di Mirko ho avuto un unico ragazzo, avevo solo 16 anni ma ho capito non appena l’ho conosciuto che lui era, è e rimarrà sempre l’unico amore della mia vita, la persona più dolce, sensibile e premurosa esistente alla quale sarò eternamente grata di essermi stato accanto un faticoso anno e mezzo e avermi donato la parentesi più bella della mia vita; purtroppo lui adesso non vuole più avere a che fare con me perché ho ecceduto anche con lui; ha dovuto comprarsi 2 telefoni nuovi mentre stavamo insieme perché li ho fusi mandandogli continui sms che aumentavamo se non ricevevo risposta, ne mandavo anche 100 all’ora a volte, adesso ho imparato a non farlo per esempio, se Mirko esce lo aspetto senza cercarlo in modo ossessivo, adesso mi controllo meglio ma, anche se ho imparato a comportarmi più normalmente, non significa che io non soffra nello stesso modo la solitudine, ho solo imparato a essere più accettabile per gli altri”.
Similmente al tema sentimentale anche l’orizzonte amicale di Clarissa riflette la medesima inclinazione della paziente a tendere ad un legame rigidamente diadico ed esclusivo, nonché non realisticamente approssimabile; si configura come costellato da parentesi relazionali brevi, fugaci e intense che, erose dall’interno, si consumano rapidamente -come la fiamma di una candela che diviene gradatamente più lieve e poi cessa del tutto- infatti argomenta: “non ho mai potuto coltivare un’amicizia duratura benché mi sia impegnata tantissimo a tale fine, ogni persona che ho ritenuto speciale e degna del mio affetto presto o tardi mi ha deluso allontanandosi bruscamente da me accusandomi di richiedere troppo, motivo per cui sono stata costretta a chiudere quel rapporto evidentemente non autentico. Nella mia vita ho sempre dato tanto tutta me stessa anche in amicizia come in amore, io sono una persona servizievole che offre volentieri il suo aiuto ed è sempre disponibile ad elargire favori a chi ha bisogno nella speranza di essere ben voluta e accettata, in cambio ricerco solo affetto sincero e ogni volta soffro quando, illudendomi di aver trovato quella persona con la quale creare un importante legame duraturo, le mie aspettative risultano disattese perché vengo miseramente trascurata; ogni ragazza che si è detta -mia amica- per esempio non ha voluto mai mantenere la relazione esclusivamente con me ma ha ritenuto opportuno inserirvi altre persone, evidentemente io non ero necessaria per lei e potevo, quindi, essere buttata via”.
Le uniche due presenze significative all’interno della vita della paziente, ad eccezione del suo compagno, sembrano essere i suoi genitori di cui Clarissa fornisce, nuovamente, una rappresentazione inflessibilmente polarizzata dal punto di vista affettivo; la madre viene descritta come una figura genitoriale estremamente amorevole, protettiva e presente che “per lei si è sacrificata sempre oltre ogni limite viziandola e facendola sentire coccolata e adorata” e come una donna “troppo buona, tanto essere succube del marito” (nonché padre della paziente), figura verso la quale Clarissa nutre una fortissima ambivalenza affettiva e che definisce come “la persona che per prima, precedentemente all’incontro con Mirko, le ha rovinato la vita sottraendole l’infanzia e l’adolescenza” in quanto, dalle parole della paziente: “mio padre non mi ha mai fatto sentire amata né accettata per quello che sono, al contrario, mi ha sempre fatto sentire insicura di me stessa e inadeguata se deludevo le sue aspettative; ero -incapace e non all’altezza- delle mie compagne se invece di ottimo prendevo distinto a scuola e questo lo faceva -vergognare- di me; adesso sono la figlia -debole e infantile- di cui ha pena a causa delle mie malate idee sull’amore quando, invece, avrei dovuto maturare ed essere una donna forte e indipendente e questo non è accaduto”. Suo padre è delineato dalla paziente come una persona estremamente giudicante e ostile nei suoi confronti che “le ha sempre fatto mancare l’amore e la comprensione nonostante i molteplici tentativi, compiuti da Clarissa, per compiacerlo che non sono mai stati sufficienti a renderlo un padre orgoglioso; ha sempre schernito le sue emozioni definendole infantili e facendola sentire sbagliata e sola”.
Così, dalle parole della paziente: “avevo riposto ogni mia speranza nel sogno di una convivenza felice e, in Mirko, avevo sperato di trovare un compagno tutto per me in grado di restituirmi un po’ di quell’amore, comprensione e protezione di cui avevo tanto bisogno e che solo la mia mamma ha mai saputo donarmi in vita mia; invece, con lui, ho conosciuto la mia seconda condanna”.
Il caso di Clarissa può essere considerato paradigmatico della condizione borderline; in lei emerge, in tutta la sua pienezza, proprio quella “disperata vitalità” (direbbe Stanghellini) espressa dal bisogno (eternamente frustrato poiché irrealizzabile) panico, primitivo e fusionale con l’altro, nonostante la sua inattingibilità sia un’esperienza quotidiana, questa tensione verso un contatto infinito non cessa mai; il desiderio dell’altro veicola una spinta propulsiva insopprimibile nonché inesorabile, quanto consapevolmente distruttiva.
Tale desiderio fusionale non è realistico né tristemente corrisposto e non risulta essere, tantomeno, pensabile da un punto di vista concreto, pertanto esso rimane un puro desiderio inesaudito e fine a sé stesso; proprio qui emerge lo scoramento, all’interno della relazione immaginata con l’altro, in tutta la sua potenza, connesso ad un’angoscia pervasiva abbandonica, ad una fragilità e delicatezza emotiva che rende Clarissa estremamente esile dal punto di vista identitario.
La paziente sembra essere immersa nel vissuto temporale repentino del qui ed ora, laddove Clarissa vive un tempo che potremmo definire “emotivo” e subitaneo; il cui valore cardinale è, ancora una volta, quello dell’incontro con l’altro nella sua immediatezza e nella coincidenza d’istante tra il proprio desiderio e quello altrui, scevra di confini e frapposizioni; la paziente non percepisce il tempo come una dimensione personale e propria ma, al contrario, esso diviene con-fuso e scandito dal tempo dell’altro significativo (il compagno).
Il vissuto dell’altro appare nella paziente assolutamente strumentale (dalle parole della stessa paziente “Mirko è il mio compagno, è solo mio e serve a me la sua presenza”); l’altro è per lei come uno specchio riflettente l’immagine di sé e del proprio desiderio, un oggetto utilizzabile al fine del soddisfacimento dei propri bisogni che, nel momento in cui disattende questa aspettativa può essere biasimato e derelitto, nella speranza di trovarne un secondo maggiormente adeguato alla propria idealistica necessità.
Un bisogno di accudimento molto marcato sembra attraversare la sua intera storia di vita così come una spasmodica richiesta di attenzione, che culmina sovente in manifestazioni di rabbia esplosiva e violenta, connesse a vissuti di istantanea idealizzazione e a svalutazione dell’altro all’interno dei rapporti interpersonali.
L’incontro con l’altro, questo appuntamento idealizzato, irripetibile e irrinunciabile per Clarissa è espressione del proprio desiderio di riconoscimento, desiderio costantemente inappagato e destinato a non essere soddisfatto che, però, continua a rinnovarsi incessantemente e tragicamente con ferrea ostinazione; nonostante l’amara consapevolezza che questo incontro non avverrà mai la paziente rimane staticamente e ciclicamente impegnata nella sua personale ricerca infinita e asintotica.

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