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“NOSTOS” : LA PATRIA DEL RITORNO

19 Apr 20

A cura di Gilberto Dipetta

 
Ritornerai
Lo so ritornerai
 E scoprirai
Che nulla è cambiato

Che sono restato
L'illuso di sempre

B. Lauzi

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi un fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole

F. De Andrè

La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi,
la terza un pensiero, la quarta la notte che viene,
 la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame,
la settima orrore, l’ottava i fantasmi della follia,
 la nona è la carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide.
 L’ultima è una vela. Bianca. All’orizzonte.
 A. Baricco

 

Stanotte sto vivendo un’esperienza surreale: un medico psichiatra di guardia al proprio  reparto “chiuso”, all’interno, però, di un grande Ospedale che è “chiuso” a sua volta, da giorni, e non so neanche “chiuso” fino a quando, in un territorio circostante, del pari, "chiuso". Il paradosso sta nel fatto che il nemico invisibile, il Sars-CoV-2, è “chiuso” anch’esso con noi, qui, all’interno dell’Ospedale, dove è entrato, subdolamente. Dunque io, e i miei infermieri, e i miei pazienti, stanotte, con tutti gli operatori e i pazienti degli altri reparti, siamo “chiusi” qui dentro (locked in), in compagnia della morte. Con il virus, letale, che cammina, impunemente, tra le nostre corsie di alluminio anodizzato, nei percorsi illuminati dalle tenue luci della notte. Nella mia percezione di stanotte, il virus ha assunto le proporzioni di quella creatura della zoologia fantastica di Borges, rievocata da Italo Calvino "c'è un animale che si chiama hide-behind e che sta sempre alle tue spalle, ti segue dappertutto, nella foresta, quando vai per legna; ti volti, ma per quanto tu sia svelto lo hide-behind è più svelto ancora e si è spostato dietro di te; non saprai mai come è fatto ma è sempre lì". La situazione è abbastanza tragica, ed ingravescente: Il virus, cosiddetto Sars-CoV-2, come temevamo (solamente, a quanto pare) noi, poveri operatori, alla fine, ha sfondato la nostra virtuale linea difensiva: da noi, proprio come altrove, proprio l’Ospedale è diventato, da presidio antiepidemia, il primo, temibile, serbatoio del contagio. L’alto pericolo di contaminazione del Sars-CoV-2 è stato sottovalutato, sia per grave, protratta carenza e risibile inadeguatezza di mezzi e di misure protettive, diagnostiche e preventive (colpa, questa, delle nostre Direzioni e, più in generale,  della incapacità di reazione (inerzia) dello Stato italiano) e sia, forse, per un senso di onnipotenza che ci pervade, in quanto  uomini che si misurano con le situazioni limite della malattia e della morte, identificati in un invulnerabile San Giorgio che spinge, impavido e incurante, la lancia nelle fauci del drago. Questo slancio, e l’obbedienza incondizionata all’imperativo etico di soccorrere, comunque e dovunque, ci ha portati ad sovresporci. E il drago, adesso, ci sta divorando. Il terribile contagio si sta, mentre scrivo, propagando in questo Ospedale come una bomba a grappolo con esplosioni a scoppio differito, sia tra i pazienti, che tra il personale. Sono caduti primari, colleghi, infermieri, oss, pazienti. Perfino il cappellano. Nessuno sa, esattamente, a che numero di contagi siamo arrivati; si sa, purtroppo, che crescono di giorno in giorno, con l’arrivo della risposta ai tamponi. Un grande ospedale è, in fondo, una piccola città.



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Ci andiamo trasformando, se continua così, rapidamente, in un “lazzaretto” chiuso. Tutto il territorio intorno all’Ospedale, adesso, paralizzato da un tempo che sembra immemore, ci guarda non più come cavalieri del sacro sepolcro, o come crociati senza macchia e senza paura, ma come miserabili untori. Questo ci fa più male dell’idea di poter morire. I sindaci di tutti i comuni dell’area limitrofa all’Ospedale hanno chiesto che noi non torniamo più a casa. I colleghi che hanno smontato dalla guardia in questi giorni, solo perché provenivano dall’Ospedale, sono stati guardati come untori e invitati caldamente a non prendere servizio nei rispettivi territori di provenienza. Io stesso non sto andando più in Carcere, per evitare il pericolo di portare, proprio io, alle signore detenute, la “Morte Rossa” dietro la mia maschera. Mi manca il gruppo del giovedì mattina, mi mancano gli incontri clinici e umani, mi mancano le colleghe psy con le quali confrontarmi.  Sembra che una paziente ricoverata tra il 31 marzo e il primo aprile nel nostro reparto di Medicina, trasferita poi in un altro ospedale cittadino per ricevere cure più specifiche, sia risultata poi positiva. La conferma del tampone è arrivata intorno al 10 di aprile. In quei giorni “muti” è successo l’inferno. La paziente aveva superato il triage da noi, con test rapido sul sangue negativo. Ma l’impressione che, oggi, comincia a prevalere in tutti, è che è il contagio fosse cominciato da prima di questo “caso indice”, perchè lo stesso si sta rivelando troppo esteso e pervasivo. Ieri abbiamo fatto, noi operatori, il secondo test sul sangue, ed oggi, solo oggi, a due mesi e mezzo dall’inizio delle ostilità, ci hanno sottoposti al mitico tampone naso-faringeo, che impiegherà giorni per dare esito. Adesso, solo adesso che i buoi sono scappati, stanno chiudendo le stalle. Adesso ci stanno arrivando le mascherine e altro quasi quotidianamente. Mai vecchia sentenza è stata tanto azzeccata, a dimostrare che, purtroppo, la storia non è mai maestra di vita. Il reparto di Medicina è stato totalmente evacuato e sigillato, con quasi l’intera équipe positiva. Identica sorte ha avuto il reparto di Chirurgia.  Nessuno esce, nessuno entra più da Pasqua, se non munito di badge. E l’ospedale è presidiato da guardie giurate, esercito e polizia giudiziaria. Anche da noi, in SPDC, benché abitatori di un corpo basso distaccato dalla struttura ospedaliera, le regole sono ferree. I sette pazienti superstiti, di cui tre in TSO, ricoverati in SPDC prima della deflagrazione, sono rimasti tagliati, come noi, del tutto fuori dal mondo. Nessuna visita più dei familiari, le ambulanze non afferiscono più al PS. Ecco come questo virus dribbla, con il silenzio di un sommergibile atomico (a dispetto delle sue dimensioni micrometriche), il fantomatico modello “Hub § Spoke” (mozzo e raggi) di questa assai stupida medicina cibernetica, funzionalistica e manageriale, ormai totalmente svincolata dal vecchio principio clinico dell’observatio et ratio. Una medicina virtuale, dis-umana, fregata da un’entità virtuale, dis-umana. E’, questa, la vendetta efferata del “bios”, che travolge la ubris della “techné”. Pertanto scrivo, stanotte, prigioniero di una solitudine cosmica e di questa mura, lasciandomi andare, nella mia reverie, come il personaggio di Dostoewskij nelle Notti bianche, in un Ospedale non ancora dismesso, ma ormai disconnesso dal flusso del mondo, considerato off limits, pervaso da un silenzio spettrale, sotto un cielo senza stelle e senza luna, su cui solo la morte getta la sua ombra, nel quale il famelico virus prende i nostri corpi, l' uno dopo l’altro, come i pezzi di una scacchiera, di corpo in corpo, silenzioso e aggressivo. Stanco, allora, di questa assurda partita a scacchi con la morte, come il crociato Antonius nel film di Bergmann “Il settimo sigillo” (1957), mi getto sulla mia branda, chiudendo gli occhi, e cercando una qualche forma di quiete interiore. Cerco di calmarmi recuperando, nella memoria uditiva, la carezza malinconica e dolce di quella tromba che tutte le sere, nella caserma “Gamerra” di Pisa, suonava “Il silenzio fuori ordinanza”. “Buonanotte, amore / ti vedrò nei miei sogni / buonanotte a te, che sei lontana…”, era il recitato nella versione di Nini Rosso, del 1965. Ma non riesco a tranquillizzarmi più di tanto. Stanotte sembra che il matto agitato sia io. Io, stanotte, sono il paziente più grave, di cui debbo occuparmi. La verità è che sono angosciato, mi sento prigioniero, e non ho proprio nessuno a cui dirlo. Mi accorgo che, per la prima volta nella mia vita di guardiano notturno, mi manca addirittura il cicalino del telefono, che mi annunciava, quando da fuori arrivava la vita, la presenza della follia acuta in PS. La verità è che mi sento, stanotte, proprio come su una grande zattera, che va alla deriva nell’oceano.

Mi ossessiona proprio l’immagine della zattera della Medusa di Théodore Géricault. Proprio come se, stanotte, con i pazienti ricoverati in SPDC che mi sono affidati, con la squadra degli infermieri, e con gli altri pazienti e operatori dell’ospedale, noi tutti fossimo l’esagitato e disperato equipaggio di quella  zattera messa in mare dopo che la fregata francese Medusa, in navigazione verso l’Africa, si arenò su di un banco di sabbia al largo del Senegal il 2 luglio 1816. Siamo noi, ormai, quei corpi, torti dallo spasimo, immortalati nel quadro sublime di Géricault; siamo noi quelli che ogni giorno sopravviviamo, gettando in mare i cadaveri, guardandoci smarriti negli occhi, cercando, ossessivamente, le tracce del virus nel nostro stesso sangue, nel nostro naso e nella nostra gola, e sperando solo di vedere, improvvisamente, all’orizzonte, stagliarsi la vela bianca. Sperando di approdare, finalmente incolumi, sulla terra patria. La Patria. Che nome dolce, di un maschile declinato al femminile. Ma quale Patria? Vorrei, mai come stanotte, che ci fosse una Patria del ritorno. Cos’è la Patria del ritorno? Dov’è la Patria del ritorno? C’è più una Patria del ritorno? C’è una Patria alla quale tornare? Di baci, di abbracci, di folla, ignara e vociante, lungo i Boulevards; di caffè e bistrot, aperti tutta la notte; di pizze, fumanti e calde, sfornate a tutte le ore, per strade brulicanti di colori; di cervi, che bramiscono nella brughiera, alla luce del tramonto..…stanotte mi sembra che tutto questo, e altro, sia svanito per sempre. "Non c'è speranza di tornare alle condizioni del passato. Non ci sono zone intatte. L'altrove immunizzato è solo una fantasia o un' ipotesi. Il mondo infetto è senza fine e senza nessuna aurora", così leggo su una pagina di Repubblica del 23/03/20, a firma di Matteo Palumbo. Invece, rispetto alla penetrazione del virus in Ospedale, cioè proprio in uno di quelli che dovevano essere i fortini più “sicuri” e difesi della guerra al COVID, mi viene in mente, col passare delle ore, il drammatico racconto di Edgar Allan Poe “La maschera della Morte Rossa”, del 1842. La trama è quanto mai suggestiva: una terribile pestilenza, la Morte Rossa, sta devastando una contrada e il princioe Prospero, vedendo le sue contrade spopolate, decide di ritirarsi insieme ad un migliaio di amici e cortigiani nel suo palazzo, così da evitare il morbo. All'interno dell'edificio gli occupanti trascorrono gioiosamente le giornate, con danze e giullari, e, dopo cinque mesi di isolamento, il principe decide di indire un ballo in maschera. Vengono quindi allestite sette stanze, ciascuna di un colore diverso: azzurro, giallo, verde, arancione, bianco, viola e nero. Durante lo svolgimento della festa compare, tra gli invitati, una figura misteriosa, la quale indossa un sudario macchiato di sangue e la maschera di un cadavere. La figura attraversa tutte e sette le stanze tra lo sconcerto dei presenti, che si fanno da parte per evitare di toccarla. Quando ha concluso la sua camminata, Prospero, ripresosi e oltraggiato da quello che crede un orribile scherzo, corre incontro al nuovo venuto con l'intenzione di ucciderlo, ma, poco prima di raggiungerlo, cade a terra senza vita. Solo allora gli astanti riescono a togliere il costume al misterioso ospite, ma si accorgono che, sotto di esso, non c'è niente: è la Morte Rossa, riuscita a entrare nel palazzo. Gli occupanti cadono, morti, uno dopo l'altro, e la Morte Rossa stabilisce il suo regno sull'intera contrada e sull'edificio, ormai buio e desolato. Proprio come in questo racconto di Poe, il virus è transitato ed ha penetrato l’Ospedale (il castello di Prospero), annidato nel corpo di una paziente “normale”, oppure mascherato nel cadavere dell’uomo rivelatosi positivo solo dopo la morte, nel post chirurgico.  Così il virus è riuscito ad “invitarsi” nel reparto pulito, arroccato, dove la Medicina e la Chirurgia celebravano i loro fasti. Così il virus si è procurato l’accesso e, da convitato di pietra che era, è diventato il maestro di festa. Ha infestato, ed è rimasto a circolare in segreto e, beffardamente, ha fatto arrivare retrodatato il proprio biglietto da visita. Sono state dribblate, così, fior di intelligenze ed esperienza di colleghi clinici di indubbio valore. Ai tanti esperti del caso, avrebbe, forse, fatto meglio leggere il vecchio racconto di Edgar Allan Poe, piuttosto che le review di statistica, piene zeppe di dati confusi su “curve”, “picchi” e “plateau”. Essi fanno, come dice il mio amico ufficiale di cavalleria Felice Nunziata "la guerra al virus praticando il surf.." Questo virus ci umilia. Tutti. Questa è la più dura verità. E questa è la sola verità. Il virus colpisce, con la velocità e la precisione di una Blitzkrieg, laddove non ce l’aspettiamo. Viola gli spazi di interdizione. E, come sempre, mentre gli Stati Maggiori fanno le loro guerre, con le carte topografiche spianate o, meglio di fronte a simulazioni virtuali dettate da modelli matematici, al sicuro delle stanze di vetro, tra burocrazia, ordini e contrordini, procedure e protocolli diversi da regione e a regione, e scarsità di materiali di prima necessità, noi, qui, stanotte, con i nostri infermieri e i nostri pazienti, noi stiamo lentamente morendo. Alla fine di questa guerra, inutile e assurda come tutte le guerre, ai nostri generali le medaglie, e a noi soldati le croci. Sembra proprio, questa, la “Guerra di Piero” cantata da De Andrè. “Chi diede la vita ebbe in cambio una croce.” Ma chi sono i pazienti che condividono con me l’angoscia di stanotte? C’è una signora rumena, Cloe, prigioniera del suo complotto, del quale facciamo parte anche noi medici, e altre entità che da sopra la manovrano. C’è Ido, schizofrenico cronico, venuto da una clinica privata perché non voleva fare più la terapia, in TSO, che è completamente disorganizzato. C’è Salvo, un tranquillone con deficit cognitivo grave, che a casa è molto aggressivo con i genitori. C’è Alessandro, uno psicotico che trascorre la vita ascoltando il ritmo del proprio cuore, fino a farlo accelerare senza motivo. C’è Amalia, una ragazza brasiliana senza le piccole falangi alle dita dei piedi e delle mani, come una sirena venuta dal mare con la coda di pesce, cha ha cercato la morte volontaria sorseggiando il  Lysoform. E poi ci sta Rambo. Rambo è lo psicotico nomade che violava la quarantena. Il suo compagno di merende è finito al Cotugno, e lui circolava impunemente. A rischio di linciaggio della folla che urlava : “Dagli all’untore!” Uno dei nostri “nomadi” più pittoreschi. E’ toccato proprio a me ricoverarlo. Mi sono bardato di carta velina verde, cuffia, mascherina e occhiali (mancavano le pinne) e sono andato in PS. Era attorniato da carabinieri giganti in tenuta antisommossa e tolfe di ferro. Aveva sollevato i vasi di piante di cemento, quando si era reso conto che la turba di astanti (dai balconi) non capiva la sua missione salvifica. Lui mi aspettava apparente calmo, disteso, muscoloso, tatuato dappertutto. Ma pronto a scattare, come chi non ha nulla da perdere. Sul cranio rasato aveva tatuato a caratteri cubitali RAMBO. Nello spazio angusto che ci è rimasto (che ormai tutto il PS è COVID) mi sentivo piccolo e fragile di fronte a lui, ma, soprattutto, mi vergognavo di come stavo combinato da carnevale. Per giunta, mi sentivo ridicolo, in mezzo ad operatori indaffarati e marziani con tute spaziali di tutte le fogge. Mi sono domandato, ad un certo punto, dal di fuori, noi come dovessimo apparire. L’unico “nudo”, con i suoi bicipiti scolpiti fuori dalla canotta, era proprio Rambo. Chissà se avrà pensato che eravamo tutti veramente matti.  Ho sentito, in quel momento, che se avesse voluto, avrebbe potuto massacrarmi. E’ stato bello vedere, in un attimo di derealizzazione, la follia pura delirante totalmente sprezzante della viremia e della morte e, dall’altra parte, vedere la normalità razionale atterrita dalla viremia e dalla morte. Il confronto era schiacciante. Forse proprio il mio senso di ridicolo (per me stesso) e il fascino che, spesso, provo di fronte alla follia acuta, mi hanno fatto apparire ai suoi occhi come uno più da compatire che da uccidere. Comunque provavo, per lui, novello san Francesco che appellava il virus contro cui tutto il mondo lotta “frate’ a me”, una sorta di rispetto. L’ho salutato, ad un certo punto, con voce incerta, ma più per darmi coraggio: “Ciao Rambo!”, gli ho detto, e lui, con gli occhi puntati al cielo : “Dottore, ma non lo vedi, adesso sono Padre Pio”: Effettivamente, una lunga barba ieratica e profetica gli pendeva dal mento. Dall’eroe guerriero al Santo miracoloso, il passo era compiuto: “Io giro il mondo per combattere ò virùs. A me ò virùs non fa niente. Io proteggo l’umanità.” Gli ho chiesto, allora, di farci la grazia di venire a trascorrere un periodo presso il nostro reparto, per proteggere noi, che ne abbiamo tanto bisogno in questo momento. Non ha fatto storie. Ce lo hanno portato in ambulanza i marziani.  E poi abbiamo anche un ragazzo di quelli ormai rari :  un esordio. Un giovane fragile, filiforme, longilineo (leptosomico-astenico, avrebbe detto Kretschmer), gotico, violocellista, che ha devastato la casa, e che, improvvisamente e senza motivo, sferra un pugno a chiunque, anche al vetro della televisione, si denuda e sputa, ti guarda dall’alto dei suo metro e novanta con occhi freddi, vitrei e inespressivi. Che non sa perché sta qui, e non sa cosa gli sta capitando. Oggi, dopo un lungo colloquio, a prudente distanza, in piena tranquillità, mi ha sferrato un pugno in pieno petto. Non mi sono mai sentito tanto vicino a questi pazienti, che adesso dormono il sonno chimico, come stanotte: siamo tutti esseri senza destino, nomadi senza patria. E, mentre questa navigazione nel nulla procede, io mi domando se, per me e per gli altri, ci sarà veramente un giorno una Patria a cui tornare dopo. E quale sarà, se mai ci sarà, questa Patria? Potremo ancora avere noi una vita? Potremo vivere ancora noi un amore? Sperare in una vita, in un amore.  A quale vita torneremo, se sopravviveremo? A quale mondo? E’ cambiato forse per sempre qualcosa dentro di noi? Chi abbiamo trovato, scandagliando noi stessi in queste notti bianche, interminabili, rimanendo in silenzio, al buio e al silenzio delle città; chi abbiamo contattato nel fondo di noi stessi? Dove sono finiti gli altri? I nostri altri? Ormai siamo tutti immersi in uno stato crepuscolare, sia chi di noi non ha avuto la possibilità di uscire, sia chi la ha avuta. Abbiamo perduto la concentrazione, non riusciamo più a leggere, non riusciamo a dedicarci a nulla, che non sia assistere allo scorrere uguale del tempo.   Torneremo mai a casa? E a quale casa? A quale noi stessi? Chi saremo dopo questo flagello? A quali amori? A quali passioni? Che cosa di noi, invece, sta morendo? Quali modelli organizzativi prevarranno dopo questa sconfitta dell’ipermodernità da parte di una creatura micrometrica? Dove finirà la boria dei politici? L’onnipotenza dei primitivi digitali? L’orgoglio di chi sente di sapere? C’è un dolore, stanotte lo sento chiaro e forte, si chiama “Nostos”, il nome che gli antichi Greci davano a quel melange di desiderio della vita e di addio alla vita, che è il ritorno, e che non si lascia soffocare più dalla stessa routine della vita, un dolore di fondo ormai dissepolto, che non è addolcito dal vento di aprile, dalle carezze e dagli abbracci mancati; che non si smonta con il sorriso, che non si smorza più guardando la riva del mare al mattino, arrivando sulla collina dell’Ospedale. In questa terra desolata che è diventato il mondo disabitato, neanche quella linea dell’orizzonte che, fugando la foschia invernale, in un lampo mi fa vedere il promontorio cilentano di Punta Licosa a sud, e il promontorio di Gaeta a nord e, se affino lo sguardo, la cresta dell’isola di Ponza, mi solleva più. Stanotte noi, rimasti qui, sepolti dentro questa cattedrale sommersa, noi che non sappiamo se, alla fine, saremo “sommersi” o “salvati”, noi non siamo gli eroi fulgidi cantati dai poeti e dalla stampa, noi operatori sanitari di tutto il mondo siamo, piuttosto, come gli antichi opliti, silenziosi, l’uno vicino all’altro nella falange. "L'umanità diventa simile alla città di Troia. E' un popolo accerchiato da un avversario feroce. Le forze esterne assediano le sue mura e provano ad abbattere le difese innalzate, che sono sempre precarie. Ogni volta si rinnova il conflitto tra la Vita che resiste e la Morte che s'insinua dovunque, Circondati dal nemico, gli Umani imparano a lottare e a difendersi. […] Resistono con ogni mezzo alla vittoria del Non-umano. […] Persone diverse che non hanno niente in comune si ritrovano unite a combattere. […] Davanti al contagio gli uomini possono diventare perfino migliori: responsabili delle proprie scelte e attori del destino che li attende" (M. Palumbo). Noi, allora, siamo trattenuti in piedi dal peso dei nostri scudi di bronzo, con cui ognuno ripara il fianco del nostro compagno, più che se stesso; su cui battiamo il tempo non le nostre lance, ma lo facciamo solo per non dimenticare che cos’è il tempo. Per non lasciare che, come nella “Guerra di Piero”, il tempo che a me resterà sarà quello per vedere gli occhi di un uomo che muore. Ma adesso siamo fermi. Siamo tutti fermi. "i nostri giorni sembrano avvolti da un alone uguale […]. Il tempo non scorre, le giornate si trasformano nella ripetizione di un uguale rito: in attesa che tutto finisca e la vita ricominci a pulsare di nuovo" (M. Palumbo). Quest’esperienza è quella che gli psicopatologi tedeschi chiamano Zeitstillstand, cioè la morte del tempo, la caduta del tempo. Il tempo è la più grande vittima del virus, il tempo. Il nostro tempo vissuto. Come possiamo noi rimanere vivi, con i nostri pazienti, con i nostri infermieri, con i nostri figli, con i nostri padri, in questa mostruosa caduta del tempo, privi di ogni riferimento delle nostre vita abitudinarie, mentre il virus cammina e infetta tra i cadaveri a cuore battente delle nostre corsie? Consapevoli di essere rimasti “con il cerino in mano”, costruendo posti per i moribondi attaccati ad un respiratore, ma incapaci di combattere casa per casa, incapaci di immaginare campi di battaglia dove attrarre il virus e sconfiggerlo, piuttosto che farlo entrare nel cuore delle nostre cittadelle sanitarie. L’alba, forse, si sta avvicinando. "Il personaggio principale si trova in ospedale. Si risveglia e si affaccia alla luce che sta fuori. E' simile ad un neonato che sta scoprendo la vita. Seminudo, vaga alla ricerca di qualcosa; tra macerie, caos, sporcizia, Per lui comincia una nuova esistenza. Il protagonista sta conoscendo l'origine di un mondo infetto, in cui ogni giorno può essere l'ultimo", scrive Palumbo a proposito del romanzo del 1985 "Rumore bianco", di Don Delillo. "Il rumore bianco è il suono silenzioso della morte. In agguato, schiaccia i singoli destini e li trascina dentro il proprio vortice." Ho perso anche io, stanotte, il senso del tempo. Ma forse proprio questa scrittura, facendomi riscoprire la potenza delle parole incarnate, pensando a chi domani la leggerà, mi ha aiutato a guadare la notte, cercando una via d'uscita per la mia e per tute le esistenze minacciate. Nel 1818 Percy e Mary Shelley erano in Italia, e trascorsero tre mesi  a Napoli. Lei scrisse un romanzo, “The last man”, ambientato fantascientificamente nel 2092. Durante una visita all’antro della Sibilla cumana, a due passi da dove mi trovo io e da dove sto scrivendo stanotte, Mary Shelley trova il papiro di un profezia, nella quale una tremenda pestilenza devasta l’Europa e le Americhe. Si salva alla fine, dopo una serie di fughe di patria in patria, del gruppo di superstiti,  solo Lionel, protagonista maschile che forse è lei, l’Autrice stessa. I superstiti dell’epidemia, infatti, tentano di navigare attraverso il mare Adriatico fino in Grecia, ma una tempesta improvvisa fa morire Clara e Adrian. Lionel, l'ultimo uomo, nuota fino a riva. La storia finisce nel 2100. Ma, forse, nessuna Patria si può abitare da soli. Cadesti in terra senza un lamento/ E ti accorgesti in un solo momento/ Che la tua vita finiva quel giorno/ E non ci sarebbe stato un ritorno.” Se questa peste è il trionfo della morte, o ci salviamo insieme, ognuno di noi per mano a qualcun altro di noi, dando corpo e presenza alla speranza che illumina il futuro, o non ci sarà più, per nessuno di noi, dentro questo desiderio, dentro questo amore e dentro questo dolore, alcuna Patria del ritorno.

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2 Commenti

  1. dr.ceparano

    Sembra che tra immaginario e
    Sembra che tra immaginario e reale non ci sia più un qualcosa che lo separi.
    Quello che accade è stato immaginato e raccontato da chi con lo sguardo oltre l’orizzonte vedeva quello che dal futuro giungeva.
    Sembra che la storia ritorni come a dirci: eppure ve lo avevamo detto.
    Noi, come scrivi alla fine, re-esisteremo, solo se ci teniamo per mano, nonostante questo sembrerebbe essere la cosa da evitare, ma se di contagio si muore con il contagio si va verso una “possibile” Patria.

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  2. trebiconlab

    ….in effetti tracci a
    ….in effetti tracci a grandi linee una cupa realtà come quella che vissero i fantaccini ed i loro giovani ufficiali (i vecchi panciuti ed i giovani cadetti dell’aristocrazia affondavano lombi e glutei nelle poltrone degli Stati Maggiori beandosi del luccichio degli stivali spazzolati dagli attendenti che pur di schivar pallottole si prestavano al basso servaggio) mandati al macello in inutili assalti tra i reticolati o confinati nelle trincee a trovar morte con le pallottole dei cecchini e a spulciarsi dividendosi una gavetta di poltiglia…la storia non cambia perché l’uomo dimentica…gli eroismi son di pari peso rispetto alle morti bianche che casualmente occorrono, l’unica differenza è che le prime sugellano un patto di sangue e spirito tra gente in grigioverde…proprio per sfuggire alla gogna della massificazione volli essere artefice del mio destino, pattugliando terre sconosciute, duellando con nemici che opprimevano il mio essere parossistico…sono quello che ho voluto essere ma in questa garanzia ontologica c’è tutta la mia tragedia fatta di orizzonti chiari ed allo stesso tempo letiferi per un’anima libera e ribelle…e come il Capitano Wiilard mi accingo a visitare il tuo villaggio popolato di dannati che dormono, talvolta, il sonno chimico, di cadaveri putrescenti e membra pendenti da un cappio o crocefissi all’altare di Psiche…il regno pagano dove tu novello Colonnello Kurtz vivi con i tuoi Cambogiani ti porta a raccontare del violinista che come il viet che taglió il braccio al bambino di un villaggio appena vaccinato contro la poliomielite dagli americani, viola le regole dell’umana convivenza scagliando un pugno in petto all’interlocutore…ma non crucciarti, appena extra moenia ti aspetta la massa dei Tenente Colonnello Kilgore che fanno la guerra al virus praticando il surf….l’orrore dentro e fuori il limes aspetta solo la salvifica pioggia monsonica scrosciante per lavare la pelle sporca del sangue versato…

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