LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI di Saverio Costanzo (2010)

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2 ottobre, 2012 - 12:30

"Noi non dobbiamo solo sapere che l’uomo ha un corpo e come sia fatto questo corpo ma anche che l’uomo è sempre, in qualche modo, corpo. Questo non significa solo che l’uomo vive sempre corporalmente ma anche che egli parla e si esprime permanentemente con il corpo. L’uomo parla questo linguaggio del corpo, in modo soprattutto evidente, quando il linguaggio della parola viene meno a causa della rinuncia della comunicazione e a causa dello sprofondare nel proprio io"
Ludwig Binswanger, Ausgewahlte Vortrage und Aufsatze (1935)

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E’ di questi giorni la notizia dello straordinario quanto inaspettato successo di pubblico del film "La solitudine dei numeri primi", che mentre stiamo scrivendo questa recensione si trova al terzo posto nella classifica dei film più visti in Italia. Forse vale la pena iniziare proprio da qui la nostra riflessione sul film e i suoi protagonisti. Cosa sta spingendo centinaia di migliaia di italiani a scegliere un film crudo, scarno, volutamente inquietante? Nel film non c’è alcun tentativo di "sedurre" lo spettatore indugiando su quegli aspetti della sofferenza e del disagio che inevitabilmente e tristemente stimolano la curiosità morbosa del pubblico: questo rende ancora più complicata la comprensione del perché di tanto interesse. La presentazione del film a Venezia (peraltro con critiche non troppo lusinghiere) può aver funzionato da traino per il film? Forse. L’omonimo e fortunato libro di Paolo Giordano da cui il film prende spunto ha creato un pregiudizio positivo che ha influenzato gli spettatori nella scelta? Probabile. Ma se ci fosse di più?

A noi uscendo dal cinema sono rimaste impresse nella mente due scene. La prima: Mattia bambino è stato invitato insieme alla sorellina Michela, che sembra affetta da una grave forma di autismo (quale sia il problema della bambina non viene in realtà nel film mai apertamente dichiarato, solo in una scena la madre si limita a dire "Almeno di Michela sapevamo che non era normale"), alla festa di compleanno di un compagno di classe. Mattia è in cucina pronto per la festa accanto a sua madre tutta presa a impacchettare il regalo per il festeggiato (quasi che tutta quella carta debba e possa da sola coprire e isolare l’angoscia profonda dei suoi figli) e improvvisamente con un filo di voce chiede: "Per questa volta Michela può restare a casa?". La risposta sarà negativa e anche da questa decisione avrà origine un tragico evento nella vita di Mattia e della sua famiglia. La seconda scena invece ha come protagonista Alice adolescente, già pesantemente segnata dagli eventi della vita: dalla mamma depressa alla rovinosa caduta sugli sci che la costringerà a rimanere zoppicante per tutta la vita. A tavola con i genitori Alice dice: "Voglio farmi tatuare una viola. Tutti hanno il tatuaggio".


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Si tratta evidentemente di scene molto diverse, ma accomunate da un unico straziante sentimento: la vergogna. A chi da bambino e ancor più da adolescente è capitato almeno in una occasione di sentirsi per motivazioni esteriori o interiori profondamente diverso dagli altri e di provare per questo la disperata esperienza della vergogna può comprendere ciò che questi frammenti del film raccontano. Danilo Cargnello con la sua straordinaria acutezza ha scritto, a proposito della vergogna: "Chi si vergogna è chi si sente oggetto dell’osservazione altrui e spesso non solo per le mere apparenze fisiche ma anche per quelle spirituali dagli astanti rivelate o attribuitegli". E allora come non vedere nelle richieste di Mattia e di Alice due estremi tentativi di sfuggire a questa esperienza di diversità, che magari da adulti può assumere l’aspetto di una risorsa ma che risulta pesante, ingombrante e intollerabile in fasi della vita in cui l’identità personale è ben lontana dall’essersi definita? La necessità per Mattia di lasciare a casa Michela confondendosi alla festa tra gli altri bambini e il tatuaggio per Alice nascondono la necessità di sentirsi per una volta uguali agli altri e di sfuggire al sentimento di solitudine che la vergogna porta con sé. Borgna descrivendo il sentimento della vergogna scrive: "Fra i segni interiori della vergogna si coglie un sentimento doloroso di scoramento e di smarrimento che sembra sgorgare dal senso di solitudine e di frattura della comunicazione con gli altri e con il mondo. Un sentimento che è accresciuto da ogni contesto interpersonale e ambientale contrassegnato da indifferenza e da chiusura emozionale".


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Sarebbe assolutamente semplicistico pensare che la solitudine di Mattia e Alice avrebbe potuto trovare la soluzione definitiva in una festa o in un tatuaggio. L’angoscia che li accompagnerà per tutta la loro esistenza e che li condurrà ad avere come unico canale comunicativo il corpo (un corpo dilaniato dai tagli e dall’autolesionismo per Mattia e dalla anoressia per Alice) meriterebbe ovviamente ben più lunghe e approfondite riflessioni. Quello che però in questo momento ci interessa evidenziare è come forse per una volta e nonostante da molti giornali il film di Costanzo sia stato definito "Horror dei sentimenti", le persone che stanno decidendo di vedere "La solitudine dei numeri primi abbiano" scelto di non nascondersi e di identificarsi in quel sentimento di vergogna che tutti abbiamo provato. La maggior parte delle volte fortunatamente la vergogna si limita a essere un transitorio stato d’animo e non deve essere interpretata nel contesto di una patologia. Tuttavia siamo tenuti ad avere ben presente questo sentimento e a non scandalizzarci davanti alla solitudine e alla volontà di autodistruzione che nei casi estremi possono accompagnarla.

"Solo dal cammino della introspezione e della immedesimazione possono nascere risposte alle domande di dolore"
E. Borgna, Come in uno specchio oscurante

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