Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
di Sarantis Thanopulos

Maschere, tra autenticità e oggettività.

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23 maggio, 2020 - 13:13
di Sarantis Thanopulos
Ginevra Bompiani: “Caro Sarantis, nell’ultima nostra conversazione, avevi messo il dito su un punto cruciale: la spontaneità dei gesti si perde nell’imposizione di regole. E’ un aspetto spettacolare di questa quarantena, la perdita della spontaneità dei gesti e dell’autenticità del pensiero, divorati dalla paura e dai continui bollettini di guerra, che ci dettano ogni giorno condotte e pensieri. Quando viene a cadere l’autenticità, succede come in un vasto gioco di domino, dove rovesciando la prima tessera, le rovesci tutte. Se togli autenticità a gesti, parole e sentimenti, le tessere della tua vita ruzzolano una dopo l’altra, radendo al suolo l’intero edificio.
La perdita dell’autenticità è il primo effetto di una politica farisea e perentoria; il suo strumento è la paura. Ora che giriamo per le strade, incontriamo persone con la mascherina sul viso, e altre che non ce l’hanno. Curiosamente, mi suscitano entrambe un sentimento fastidioso, che si potrebbe esprimere così: guarda questi fanatici, con la mascherina! Oppure: guarda questi come se ne infischiano! Insomma, sembra che non ci sia un comportamento giusto. In realtà nessuno dei due è giusto o sbagliato, semplicemente nessuno dei due è convincente. Se invece incontri un asiatico con la sua mascherina, tutto bene. Le loro precauzioni non sono nate ieri. Non si fidano e basta. Noi, come grosse falene, continuiamo a sbattere contro le lampadine accese dalle autorità di stanza nella nostra televisione, imperiose e ossessive, che hanno fatto di noi un popolo che naviga a vista nell’inautenticità. E’ difficile immaginare una situazione drammatica in cui ci si comporti in modo inautentico. Il dramma porta di solito a galla il sugo intimo della soggettività. Perché stavolta non succede? Lo chiedo a te, che di sughi intimi te ne intendi...”
 
Sarantis Thanopulos: “Cara Ginevra, la soggettività si prosciuga dove il dramma è spento, disattivato dall’azione inerziale, predeterminata. Il termine ‘dramma’ deriva dalla parola greca ‘drama’, sostantivo passivo del verbo ‘dran’, che significava ‘agire’. Un agire non chiuso nel sua finalità, diverso da quello fattivo designato con ‘prattein’, il cui prodotto era l’opera teatrale: tragedia e commedia. Il dramma umano si svolge nello spazio in cui il caso e la necessità, l’oggettività della nostra posizione e condizione nel mondo, cedono il passo alla soggettività, all’elaborazione/esperienza tragicomica del nostro abitare la vita. Tuttora dicendo ‘dramma’ intendiamo la catastrofe e al tempo stesso la passione che muove il nostro sentire, pensare e agire. Associamo tra di loro il cambiamento coercitivo che (per motivi di qualsiasi natura) subiamo impotenti e la trasformazione creativa interna che ci restituisce la potenza, l’agire potenziale sulla realtà esterna. Non si può parlare di spontaneità, autenticità dell’esistenza, se non nello spazio in cui il pianto e il riso, ingredienti liberatori dell’esperienza soggettiva, destabilizzano la presa granitica della necessità sulla nostra vita, scavando dentro il senso d’impotenza per estrarre la potenza, come faceva Michelangelo con il blocco di pietra. Da molto tempo confondiamo, in gran parte inconsapevolmente, l’oggettivo con l’autentico. Quando l’interpretazione soggettiva, intrinsecamente  drammatica nel suo acquisire profondità (diventare sugo intimo), è abolita, l’oggettività poco ci dice della realtà, è una restrizione, di fatto, del nostro campo visivo. Ci riduciamo a relazionarci esclusivamente con la necessità senza altra scelta se non compiacerla o sfidarla, atteggiamenti entrambi inautentici perché istituendo ugualmente come norma il necessario ci privano della libertà della nostra esperienza. Ci possiamo trovare inavvertitamente nelle maglie della ‘sicurezza’, dove è alto il rischio che la paura e la sfida diventino canoni interni di vita.
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