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COVID-19: Spettri clinici

16 Giu 20

Di Raffaele-Vanacore

La pandemia da COVID-19 ha offerto una spinta decisiva verso lo sviluppo digitale.
Finalmente, gran parte della vita – o, meglio, delle nostre esistenze – può svolgersi in maniera telematica. Siamo sempre più simili ad interfacce utenti con le quali i nostri dispositivi digitali possono interagire, grazie a quella infrastruttura virtuale che emerge dall'accumulo e dall'elaborazione di dati, estrapolati dalle nostre azioni quotidiane. Il punto è che tali dati non sono elaborati soltanto a partire dal nostro interagire con i dispostivi, ma – più in generale – dal comportamento nel nostro costante essere in vita. Questa mente tecnologica sembra, dunque, sostituirsi, in ultima analisi, a quel fondo vitale – altrimenti detto "momento patico" (A. Masullo) o "nuda struttura dell'esistenza" (G. Di Petta) – che va a costituirsi, in maniera dinamica ed in reciproca risonanza, nella continua interazione con gli altri e, quindi, nel continuo essere in vita. Ciò che caratterizza questo fondo vitale è la spontaneità – o, in altri termini, la possibilità di essere liberi. Al contrario, ciò che è peculiare di una infrastruttura tecnologica della vita è la previsione comportamentale, come dimostra Shoshana Zuboff nel suo recente "Il capitalismo della sorveglianza" (2019). In altre parole, l'estrazione di capitale, ai nostri giorni, è massima lì dove si utilizza il suprlus comportamentale, ossia quell'insieme di dati e di tracce che lasciamo durante l'utilizzo di dispositivi telematici. Ma, come detto, per dispositivi telematici non intendiamo soltanto, ad esempio, smartphone o PC durante il loro utilizzo, ma l'insieme di informazioni raccolte da qualsiasi dispositivo anche quando non lo stiamo utilizzando, ma stiamo, semplicemente, vivendo. Si pensi a Google Maps o a quei televisori che registrano le nostre parole anche quando sono spenti. Il fatto è che, per essere efficace, la raccolta di dati deve produrre previsioni comportamentali quanto più corrette possibili. Insomma, il nostro comportamento deve essere quanto più simile a quello predetto dai dispositivi.

In questi termini, dunque, non vogliamo parlare di plagio o influenzamento delle menti, come se fossimo tutti intenti a fissare le capre, come nel film di George Clooney, ma di questa recente modalità di comunicazione, che tende a plasmare la nostra infrastruttura dell'esistenza secondo modelli prevedibili. Insomma, tale nuda struttura della vita, in maniera forse crescente, è modellata secondo schemi di interazione utente-dispositivo, piuttosto che secondo relazioni con altri esseri viventi. Da un lato, quindi, la nostra esistenza tecnologica fornisce dati utilizzati per la costituzione di una radice digitale del comportamento personale, che alimenta sempre più il nostro esistere in maniera tecnologica e che influenza, appunto, il nostro comportamento rendendolo quanto più previdibile possibile. D'altro lato, l'insieme delle previsioni dei comportamenti di più individui – ad esempio, di una comunità o di una nazione – può influenzare l'attuazione di dinamiche sociali o politiche ritenute vantaggiose in termini di prevedibilità del comportamento. Pertanto, il dispositivo riceve ed elabora informazioni personali, al fine, in tal modo, di proporre – per così dire – le possibilità di interazioni che hanno, a loro volta, un maggiore potenziale di estrazione di dati comportamentali. In altri termini, tendono ad essere suggerite quelle interazioni che alimentano la nostra tendenza ad interagire con il dispositivo. Ovvero, siamo sempre più connessi.

Dovremmo però chiederci in quali termini sia ancora possibile un'esperienza soggettiva durante questo vivere sempre più tecnologico. Per ora pensiamo – o almeno speriamo – che non siamo ancora nella situazione di Joaquin Phoenix, che nel film "Lei" si innamora del proprio sistema operativo, Samantah. Salvo poi andare in crisi quando scopre che Samantha è il sistema operativo di migliaia, o forse milioni, di utenti. Insomma, non crediamo che siamo sul punto di innamorarci del nostro smartphone o del nostro frigorifero smart. Ma, senz'altro, la radice emotiva della nostra esperienza soggettiva è sempre più plasmata da tali interazioni digitali. In altre parole, la comunicazione telematica è, in crescendo, costitutiva del far esperienza del mondo attorno a noi. La dimensione spazio-temporale della nostra esistenza si sviluppa secondo binari online, i quali, intrecciandosi tra loro in maniera sempre più fitta, vanno a costituire quell'impalcatura telematica dell'esistenza, verso cui tende quel capitalismo della sorveglianza di cui parlava la Zuboff. In questi termini, è singolare che la psichiatria contemporanea presti ben poca attenzione a queste dinamiche, come se tutto ciò che esula dai manuali diagnostici non servisse. Ecco che, però, scopriamo una significativa analogia tra psichiatria categoriale e capitalismo della sorveglianza. Entrambi operano in nome della prevedibilità e ciò che non è prevedibile lo deve divenire. Questo processo è definito, in informatica, renderizzazione. E Shoshana Zuboff ci rende benissimo il concetto: "renderizzare" significa non soltanto "estrarre un profitto", ma anche "dichiarare la resa". Il punto è quando a dichiarare la resa è la libertà dell'essere umano. Attenzione, però. Non stiamo dicendo che non si deve usare Internet, che dobbiamo gettar via i nostri smartphone o che non dobbiamo più fare ricerche online. Al contrario, vogliamo interrogarci sulla nostra, propria e soggettiva, struttura esistenziale, ed in particolare di quella di chi opera nel campo della salute mentale. Giungere ad una più profonda, più nuda esistenza, vuol dire anche questo: essere consapevoli della impalcatura digitale che tende a sorreggere la nostra vita. Ad esempio, un tema particolarmente attuale è quello della telepsichiatria. Nessuno mette in discussione l'utilità, e talvolta la necessità, di rapportarsi da remoto con i pazienti. Anzi, questo è decisivo nei periodi più bui, come è stato quello del COVID-19. Vogliamo, però, sottolineare come, da un lato, sostituire la via digitale a quella dell'incontro faccia a faccia possa difficilmente essere considerato il fulcro della cura. E, d'altro lato, vogliamo mettere in guardia rispetto ai rischi di estrazione di surplus comportamentale che l'utilizzo delle piattaforme telematiche – quali Microsoft, Google o altre – comporta. Chi analizzerà i dati comportamentali dei pazienti psichiatrici? Ed in che modo li utilizzerà? È molto difficile rispondere a queste domande, ma ci auguriamo che il sistema telematico diventi uno strumento per la cura e non la cura stessa, così come accaduto per i farmaci psichiatrici, il cui utilizzo si è imposto come fulcro della cura, sostituendo la relazione e l'incontro terapeutico. È, di certo, molto difficile pensare ai luoghi della salute mentale come spazi di incontro in una società che, di fatto, ha imposto la virtualità come nuova direzione della comunicazione. Ma il rischio è che, eludendo noi stessi la domanda sulla nostra infrastruttura digitale, ci ritroviamo ad essere spettri di noi stessi, vuoti portatori di una prevedibilità algoritmica, agenti di azioni che ci vengono suggerite, esperienze di una soggettività sbiadita.

 

E veniamo così al secondo punto della questione. I comportamenti non devono soltanto essere prevedibili, ma anche modificabili. La situazione, per il capitalismo della sorveglianza, è in pratica la stessa in cui si trova Leonardo Di Caprio nel film "Inception". Il suo compito non è più solo quello di estrarre i segreti dal subconscio tramite i sogni, ma quello, ben più difficile, di innestare idee nella mente altrui. Nel film, dunque, la chiave per l'accesso al mondo sub-cosciente è il sogno, ed in particolare quella architettura onirica, nella quale le motivazioni più recondite della nostra esperienza possono svelarsi e le idee, anche se installate ab estrinseco, diffondersi. Ma la realtà del XXI secolo è andata ben oltre il film. Non c'è bisogno di un accesso al mondo dei sogni per estrarre ed immettere informazioni, basta catturare i comportamenti della vita quotidiana, per lo più tramite l'estensione uniquitaria di sensori in grado di connetterci, costantemente, a quell'impalcatura digitale che la Zuboff chiama il Grande Altro. L'espropriazione di dati a partire da ogni gesto quotidiana è la base dello strutturarsi di una sensorialità telematica, che risulta costitutiva dell'esperienza soggettiva stessa. Questa infrastuttura sensoriale sembra contribuire a fondare un nuovo senso dei sensi, oramai architettato in maniera telematica e non fondato sulla naturalità dell'esperienza mondana. E questa nuova architettonica dell'esperienza viene definita come "sistema nervoso globale" o come "sistema nervoso della società". In pratica, come un sistema che estrae, elabora, modella ed attua l'esperienza personale in nome della efficienza comportamentale. Chiaramente, come visto in precedenza, i canoni dell'efficienza sono posti da quei capitalisti della sorveglianza, il cui massimo profitto deriva proprio dalla maggiore prevedibilità comportamentale e dalle modifiche comportamentali che vanno in questa stessa direzione. E questo sistema nervoso globale viene a proclamare la propria efficienza in un momento decisivo, quale quello della diffusione del contagio. E infatti, quando la diffusione – tanto virale, quanto emotiva – viene a minacciare l'architettura stessa, ecco che la tracciabilità di ogni dato, di ogni gesto, di ogni pensiero, diviene cruciale. In nome, quindi, di una salvaguardia dal rischio di contagio, quel sistema nervoso sociale – definito appunto capitalismo della sorveglianza – ci sottrae i residui di soggettività, di scelta, di autonomia, lasciandoci come fantasmi delle nostre stesse vite. E, infatti, per Mark Fisher, che riprende il pensiero di Jacques Derrida, il campo di gioco non è più l'ontologia, ma l'hauntologia, questa scienza delle esistenze ridotte a spettri, ossia a ciò che non è più e non è ancora. È possibile, quindi, affermare la realtà del fantasma? Siamo soltanto spettri di una realtà che è oramai predefinita a livello digitale? Siamo confusi, come al termine del film "Inception. Leonardo Di Caprio sta sognando o è finalmente nel mondo reale? Come sottrarci, dunque, alla spettralità dell'esistenza e, forse, della psichiatria stessa? La risposta potrebbe essere, in una pospettiva di dialogo e di cura, verso l'altro e verso noi stessi, che dovremmo trovare una via d'accesso personale alla nostra esperienza soggettiva. Diciamoci la verità, non è facile, non è neanche conveniente. Quella dimensione che, con Aldo Masullo, abbiamo definito patica, è in genere gravata dal dolore, alimentata dalla sofferenza. È una dimensione profonda, strutturata nella carne viva – come ha detto Gilberto Di Petta – fatta delle nostre esperienze conflittuali e traumatiche della nostra esistenza. Ma anche dalle gioie autentiche, e magari anche piccole, della nostra vita. Dei nostri desideri, realizzati, da realizzare, forse irrealizzabili. È una dimensione fanciullesca, in cui, come ancora bambini, possiamo creare, ri-creare, sorridere. È una dimensione che può essere dimenticata, ritenuta non efficiente dal quel sistema nervoso sociale che vuole affermarsi, con i suoi tentacoli, come vera infrastruttura. La verità dei dati contro l'incertezza dei vissuti. Svelata la natura mediatica e non messianica del Grande Altro digitale, il rischio è di trovarsi sospesi sul vuoto, tesi verso il baratro delle nostre verità, dei nostri desideri, delle nostre delusioni. Ma non è più, forse, soltanto un'esperienza di vacuità, quanto un sentire rabbioso e timoroso. Il Grande Altro mira, però, ad indirizzare la rabbia e la paura verso qualcosa, come modalità più efficiente di alimentazione del sistema. La crisi soggettiva non è contemplata, lo spettro va catturato da quei nuovi acchiappa-fantasmi che vagano per la salute mentale. Anzi, le crisi stesse vanno renderizzate, telematizzare, profittate. Ma è proprio la crisi, per chi si occupa di dialogo e cura, ad essere il momento decisivo per l'accesso a quella dimensione personale, pre-digitale, dell'esperienza. E la crisi, intesa etimologicamente come scelta, è la decisione di assumere l'alterità viva come possibilità di essere liberi, dalla sofferenza, dal dolore, da ciò che non ci corrisponde più. Insomma, la crisi è un'occasione da non perdere.

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