COVID-19: Più invisibili del virus: isteria e psicopatia.

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16 giugno, 2020 - 18:45

Si è fatto un gran parlare in questo periodo di come si declina la psicopatologia e in particolare i disturbi di personalità in tempi di coronavirus. In queste dissertazioni ha fatto da padrone, e non ne siamo certo sorpresi, il narcisismo: fenomeno così diffuso e noto ai più da non potere mai passare inosservato. E, forse, la visibilità è caratteristica costitutiva del campo psicopatologico che questo modo di stare al mondo di per sé produce. Il ‘narcisista’ difficilmente passa inosservato e anche in questo caso è stato visibilissimo.

Qui vogliamo parlare, al contrario, di qualcosa di meno visibile, di qualcosa che forse per qualcuno addirittura non esiste, o non esiste più. Qualcosa di molto più controverso, ma, nell’opinione di chi scrive e, prima ancora, in quella di Rosaria Lisi (espressa nel bellissimo testo ‘Isteria e Gestalt Therapy. Quando tutto è pertinente, Il pozzo di Giacobbe, 2019.): è endemico e pervasivonella nostra società, almeno in quella pre-covid. L’isteria. Pervasiva e invisibile quanto il virus, appunto. E vogliamo parlare anche della psicopatia: invisibile anch’essa grazie alla normalizzazione della reificazione dell’umano caratteristica di questa – e di ogni - società fondata sul consumo. Anch’essa pervasiva e invisibile quanto il virus, appunto.
Prima di entrare in questa breve esplorazione, vogliamo, però, modificare la prospettiva. Dicevamo che c’è stato un gran parlare di come si declinano in questa fase i disturbi di personalità. Proviamo invece ad esplorare se in una società mutata, in questa sorta, diciamo così, di esperimento collettivo che stiamo vivendo, i cosiddetti disturbi di personalità, nelle loro varie sfaccettature, hanno la stessa ragione di esistere che avevano nella società che abbiamo conosciuto fino a ieri.
Certo, perché l’idea è che i disturbi di personalità, nelle loro manifestazioni, nelle loro caratteristiche, siano strettamente connessi ai comportamenti e alle modalità relazionali della nostra vita quotidiana, alle forme che la nostra vita quotidiana assume, fino alle sue estremizzazioni. Quindi, se cambia la società e la norma, cambiano anche le forme più o meno estreme di benessere e malessere che questa esprime. La società ha una funzione patoplastica e patogenetica, in molte forme esplicite ed implicite, eclatanti e sottili.
Quando cambia lo scontato sociale in modo così rapido come è avvenuto ora, i cambiamenti adattivi di personalità non sono così immediati: non è che improvvisamente, nel giro di pochi giorni, un nuovo adattamento trova il modo di emergere e di stabilizzarsi. E allora? Cosa succede? Come cambiano, come si adattano queste modalità di esperienza - modalità cresciute e formate in una specifica struttura sociale - all’improvviso e inatteso cambiamento della stessa? Come cambiano, ad esempio, due forme estreme - opposte e affini - come le sopra nominate isteria e psicopatia? La prima dettata e orientata al continuo inseguimento-ricerca-imitazione, all’intercettare e seguire le modalità prevalenti di comportamento e relazione, all’essere come gli altri e, anzi, più degli altri come-gli-altri. La seconda, invece, portatrice di quella vena di individualistica e a-relazionale distruttività sociale (e quindi anche di se stessi, della propria presenza al mondo), portatrice di una pressione a distanziarsi dall’etica e dall’umano della relazione.
Come cambia tutto questo in assenza, diciamo così, di quella società, su cui si è costruita la competenza ad imitare o a de-umanizzare?
Stimolati da questo interrogativo, possiamo fare incrociare due linee di ragionamento: una teorica, che parte da quello che conoscevamo dei due fenomeni, per teorizzare come potrebbero adattarsi in un campo sociale diverso.  L’altra è utilizzare i due concetti di isteria e psicopatia, per tentare di spiegare alcune reazioni individuali e sociali di questo periodo.

Cominciamo dalla prima linea e partiamo dal meccanismo di negazione, termine e accezione per cui siamo tutti debitori alla psicanalisi, ma ormai da tempo comprensibile e accessibile ai più. Partiamo dalla non attenzione ai comportamenti anche nei periodi più “caldi” della pandemia o da un’attenzione meccanica, mentre si programma il prossimo viaggio, si chiacchiera del più e del meno - anche se solo online e al telefono -non si modifica niente dell’intonazione della propria voce e sorriso. Come sempre avviene per i fenomeni sociali, il meccanismo di negazione è stato ed è in parte concentrato e presentificato in alcune persone, in parte onda diffusa che, come le maree, invade e sommerge un po’ tutti noi. E ci ha invaso in aspetti insospettabili, come nella linea sottile che distingue la salvifica spinta ad aggrapparsi alla normalità, ad abitudini e stili di vita noti e consolidati, dalla sovrapposizione di tale spinta sulla consapevolezza dei bisogni realmente emergenti in un campo mutato e mutevole.

Venendo alla seconda linea, e facendola già intrecciare con la prima, ci sembra che in una situazione di emergenza in cui cambia l’assetto relazionale e sociale, come sta accadendo in questi mesi, le dimensioni di personalità debbano riaggiustarsi per adattarsi al nuovo contesto: in modo da continuare a offrire e mantenere una forma sufficientemente stabile alle esistenze a cui danno, appunto, forma. E nel fare questo determinano, subiscono, contribuiscono a formare i fenomeni sopra accennati, quelli connessi a un meccanismo di negazione. Quando si è più contagiati da alcune dimensioni di personalità, non si può credere (nè di conseguenza agire) alla perdita delle strutture, delle forme, delle abitudini a cui ci siamo, nel tempo, (dis)adattati, abitando il mondo in un forma non di presenza ma di assenza, privi di un surplus di energia e potenzialità da sviluppare, privi della visione di nuovi mondi da contribuire a creare. Facile allora aggrapparsi - non nel modo, privato e silenzioso, in cui questo può avvenire in una dimensione nevrotica, ma lanciando risonanze sociali ampie e variegate - alle vecchie abitudini, ai vecchi modi, confondendo lo status quo con la libertà, le abitudini con i bisogni e addirittura con i diritti.

Le dimensioni isteriche, pur restando invisibili, si ‘isterizzano’ e si amplificano.

Come? Partiamo con gli estremi, con le situazioni in cui la dimensione isterica è fortemente incarnata e personificata. Partiamo da chi è più contagiato, da chi, nel periodo più profondo della pandemia, ha perso pubblico e palcoscenico. Ha perso, soprattutto, l’utilità della parte e del ruolo faticosamente imparati. Sentono dire “è un’occasione”, “un’opportunità per cambiare” e, nel migliore dei casi, aspettano che qualcuno o qualcosa dica loro come dev’essere questo nuovo modo, questa nuova forma da assumere. Ma nessuno lo dice. Si parla di sentire, di vita più a misura, dell’importanza della società, della comunità, degli altri.

Incomprensibile.

Impossibile.

Fortunatamente ci sono altre voci, più simili al mondo precedente.

Sollievo…

E poi c’è un’inerzia, che porta un po’ tutti, piano piano, verso le vecchie direzioni.

Salvezza!

Naturalmente, l’intelligenza e le competenze espresse da questo tipo di adattamento sono molto più forti di quanto ora accennato e banalizzato. Ed è quindi molto più forte anche il potere di manipolazione, la capacità di contribuire al ritorno del precedente status quo, di assecondare e favorire l’inerzia che non si fa domande.

Naturalmente, soprattutto, il fenomeno è molto più strisciante e diffuso, più variegato e cangiante. Perché, al di là di più o meno ipotetiche figure che incarnano in pieno la dimensione isterica, le tendenze, le voci, le resistenze passive, gli adattamenti si incrociano continuamente. Ma, ora che l’abbiamo identificata, l’onda isterica diventa più visibile.

E le dimensioni psicopatiche?

Le dimensioni psicopatiche, sottilmente, lievitano, prendono forza per resistere al cambiamento che rende meno scontato e sicuro l’adattamento precedente. Ci consentono di distanziarsi sufficientemente dal dolore della sofferenza vicina, o da quella lontana ravvicinata dai media. Ci consentono di ridurre la sensazione del rischio per noi e per gli altri. Il disorientamento iniziale, e il timore spaesato, viene ridotto attraverso un incremento della desensibilizzazione: prima temo, e temo per tutti, perché tremo per me, poi tremo sempre meno per me e non tremo più per nessuno. Il nucleo della dimensione psicopatica può essere individuato nella capacità di reificare e disumanizzare l’altro e il mondo, concependolo per esempio in modo esclusivamente numerico. E perdendo la risonanza che produce il sentire in modo immediato che ogni numero è una esistenza, uno spessore unico e irripetibile di forma e di rete affettiva e storica. Questo angolo prospettico così adattivo ha sostenuto in modi diversi molti di noi, o probabilmente tutti. La risonanza affettiva ed emotiva all’ascolto dei numeri dati dalla Protezione Civile ogni giorno alle 18.00 è spesso diminuita nel tempo col ripetersi - e persino col crescere - del fenomeno.

Perché ci interessa sottolineare come i disturbi di personalità - e forse alcuni in particolare – si siano adattati particolarmente bene al nuovo contesto, utilizzandolo per accrescersi e prendere forza?

Innanzitutto perché l’energia creativa, impegnata a perpetuare e a gonfiare le forme più rigide della personalità, non sarà libera, disponibile al cambiamento. Il campo sociale ha assorbito il cambiamento ed è già pronto a tornare alla modalità precedente. Perdendo l’occasione per quel cambiamento che abbiamo tanto auspicato e auspichiamo. Ciò che è stato assorbito dalla nostra isteria e psicopatia non è più inquietudine che interroga il futuro, che chiama a nuove forme di vita. Questo gonfiarsi della personalità per trattenere in forme acquisite il nuovo che accade ostacola l’apprendimento che ogni cambiamento, ancor più se emergente e traumatico, porta in nuce con sé. Questi due adattamenti, l’isteria con la sua competenza alla negazione e la psicopatia con la sua competenza alla reificazione, sono intervenuti per proteggerci dagli eventi traumatici e dal cambiamento possibile: amplificandosi e tendendo al ritorno all’adattamento precedente. Il beneficio - che qualcuno sente di più, qualcuno sente di meno, qualcuno non sente - è evidente; il costo - che qualcuno sente di più qualcuno sente di meno e qualcuno non sente - è non essere trasformati dall’esperienza, è arginare il nuovo senza lasciarsene attraversare. Negazione e reificazione consentono di sopravvivere ma non di crescere.

In secondo luogo ci interessa riflettere su questo fenomeno perché questi informa le forme cliniche che incontriamo nel nostro lavoro psichiatrico e psicoterapeutico. Infinite forme d’ansia, di panico, di depressione che sono arrivate ai clinici in questi mesi sono nient’altro che modulazioni in eccesso di disturbi di personalità. Disturbi disturbati e disarcionati dal cambiamento sociale e rapidamente riadattati per continuare a svolgere il loro compito: rendere vivibile il presente senza cambiarlo.

Infine: queste riflessioni vorrebbero contribuire alla funzione sociale della psicoterapia, una funzione ‘meta’, capace di interpellare e avviare dialoghi che sostengano la consapevolezza della comunità. E, ancora, queste riflessioni e interrogativi devono rivolgersi alla psicoterapia stessa, al ruolo che può e deve avere nell’emergenza del cambiamento sociale. La psicoterapia, infatti, non può permettersi di utilizzare rigidamente gli stessi strumenti e le stesse prospettive a prescindere da quanto accade intorno a noi. Altrimenti muore. E, morendo, contribuisce al morire del cuore della cura. Quello che già soffoca nelle pieghe isteriche e psicopatiche del nostro vivere insieme.

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