Sabino Nanni, nella post-fazione, fa qualche osservazione interessante dalle quali vale la pena partire. Egli afferma che chi ha letto fino in fondo il libro non potrà che concludere, a fronte di una “naturale estinzione” di una teoria, che la psicoanalisi “ha ancora molto da offrire” e che la lettura delle opere freudiane, dai primi lavori sull’isteria fino a Psicologia delle masse che Rossi propone, è un buon antidoto alla decadenza del pensiero sulla psicoanalisi e le eviterebbe una morte prematura perché “misconosciuta e dimenticata”. Il misconoscimento, afferma Nanni, sarebbe legato a una autoreferenzialità della pratica psicoterapeutica che ha smarrito l’autenticità ma anche ai rischi dell’irrigidimento di una psicoanalisi “ortodossa” che ha la pretesa di essere unica e originale. La lettura del libro di Rossi dovrebbe aiutare in tal senso.
Non posso che essere d’accordo solo in parte con questa riflessione di Nanni, innanzitutto perché una teoria deve essere pronta ad accogliere dentro di sé i cambiamenti che essa stessa produce e questo, in parte almeno, la psicoanalisi l’ha fatto. Il testo di Rossi è frutto di un meticoloso lavoro di raccolta e riordino di tanto materiale. Il libro, di circa 300 pagine, esita in una trama intrecciata del pensiero di Freud, meglio di citazioni originali da una scelta dei suoi lavori ordinati in senso cronologico, e delle considerazioni di Rossi. Il semplice motivo per cui non posso essere totalmente d’accordo è che, pur condividendo come gli atteggiamenti autoreferenziali e quelli rigidamente regolativi non abbiano prodotto altro che la dispersione in mille rivoli del pensiero psicoanalitico ( e non solo ) , non si chiarisce, né nella postfazione ma neppure in tutto il testo a cosa corrisponda quella psicoanalisi di cui si parla, tenuto conto che abbiamo sì a che fare con una esegesi di testi freudiani ma il riferimento “all’oggi”, ovvero al tempo in cui le lezioni sono state fatte, è costante e ripetuto. Interrogarsi su cosa si intenda, in quell’ “oggi”, per psicoanalisi, invece, potrebbe essere l’unica chiave di lettura che permette di scoprire un senso a questo testo, senso che, forse, va al di là delle intenzioni dell’autore e del curatore stesso. Ma procediamo con ordine.
La lettura di Freud è un atto fondante e quasi iniziatico per chiunque si avvicini alla comprensione della psicoanalisi. La lettura di testi, che oramai contano più di 130 anni, in nessuna disciplina scientifica verrebbe considerata immodificabile per le “verità scientifiche” che contengono ma, invece sarebbe interpretata per il valore di testimonianza per quanto quei lavori hanno determinato nella formulazione di alcuni principi e per quanto questi hanno avuto significative ricadute nella cultura di un’epoca. I testi freudiani, pur appartenendo al fondatore, sono stati la tappa della evoluzione successiva di un sistema, di un paradigma che, in 130 anni , si è evoluto , si è modificato sia per fattori interni sia per l’evoluzione del sapere contestuale che riguarda , nel caso della psicoanalisi , l’individuo e il suo funzionamento. Che cosa Freud abbia determinato per il 900, per la psicologia, la psicoterapia, i modelli della mente a partire dalla sua scoperta dell’inconscio, non è certo nello scopo di queste mie brevi note. Puntualizziamo il fatto che, indiscutibilmente, le opere di Freud, in particolar modo quelle di fine e inizio secolo, hanno la temerarietà e la freschezza di chi definisce un modello innovativo e genera una cultura che influenzò e influenza tutt’ora artisti, letterati filosofi oltre alla psichiatria, alla psicologia alle stesse neuroscienze e ogni altro modello di comprensione dell’ambito sociale e relazionale. Vale a dire che in 130 anni la nozione di Inconscio ha mantenuto inalterata, se non aumentata, la sua importanza proprio perché i cambiamenti del pensiero freudiano contenevano in sé quelle aperture che hanno permesso, nei decenni successivi evoluzioni e sviluppi.
Merito di Freud aver portato fuori dalle mura degli istituti psichiatrici ciò che riguarda la psiche (uso questo termine nello stesso modo in cui si poteva usare allora) , uscendo dalla logica della degenerazione nervosa e ponendo questioni ancor attualissime come quella dell’evoluzione personale , di come funziona la mente , qual è la dinamica delle emozioni , l’influsso degli affetti e delle ripetizioni nei comportamenti dell’individuo dentro la condizione di psicoterapia (ovvero il tema del transfert) , l’importanza fondante del linguaggio ,e molto altro. Tutti temi che sono rintracciabili nelle evoluzioni delle diverse scuole psicoanalitiche che in questi 130 anni hanno prosperato più o meno rigogliosamente.
Per i precedenti a Freud mi limito qui a ricordare la necessità di conoscere il lavoro di Ellemberger[1] che ne dà un quadro serio e rigoroso. Per ciò che viene dopo c’è una letteratura molto abbonante che non necessita neppure di essere citata.
Fatta questa premessa pare che la questione, del senso di questo libro, possa essere, dunque, collocata dentro quel che sta nel prefisso Ri- di “Ri-leggendo Freud”. A oltre 20 anni di distanza che cosa possiamo vedere nelle riletture di Romolo Rossi dei testi freudiani? Siamo certi, e se non lo fossimo basta scorrere il libro, della finalità didattica del testo, ma, se è, così perché una ri-lettura e non una semplice esposizione o spiegazione?
Il primo punto è che il testo porta, come invariabilmente succede a intere generazioni di psicoanalisti, ma con una certa frequenza nella produzione culturale di psicoanalisi in Italia, dentro uno schema dialogico: Freud e Romolo Rossi in questo caso. L’attitudine di molti, e Rossi non fa eccezione, è di non riuscire a sottrassi al confronto e alla precisazione col fondatore della psicoanalisi. Rossi esercita questa facoltà, sottolinea dove Freud, a suo avviso, ha errato proponendo una interpretazione invece che un’altra, intreccia la sua cultura umanistica con quella freudiana, in tema di letteratura e di mito in quella dimensione che egli chiama narrativa. Il peso di un approccio narrativo al paziente si consolida durante la lettura delle Lezioni e finisce con l’assumere una importanza che non si può comprendere se non si pensa al tempo in cui Rossi produce le sue Lezioni. Infatti, egli trasposta le diagnosi freudiane nella nosografia degli anni 90 facendo riferimento al DSM e alle nomenclature di quel manuale. Per comprendere appieno questo, e arrivare al secondo punto, è necessario ricordare che nel 1990 si costituiva la Società italiana di psicopatologia, la Sopsi [2], che molti dei suoi fondatori furono autori e curatori del Trattato Italiano di psichiatria[3], uscito pochissimi anni dopo, e che Romolo Rossi era fra i curatori e autori di questo manuale. Un anno prima era uscito il “Trattato di psicoanalisi” in due volumi curato da A.A Semi[4] con il contributo di molti psicanalisti italiani, la grandissima maggioranza dei quali non lavorava né nelle Università né, tantomeno nei servizi per la salute mentale[5]. fra questi Romoli Rossi non c’era. Rossi, invece, in virtù del suo ruolo delle diverse associazioni fu uno dei protagonisti del crescendo di occasioni congressuali e seminariali che negli anni 90, per motivi che sarebbe interessante approfondire ebbe , in Italia una crescita esponenziale accompagnata da un sottile ma inesorabile cambio di visione.
Secondo punto: il testo di Rossi diventa comprensibile e importante non solo per la lettura dei testi freudiani dall’isteria al principio del piacere, ma , soprattutto , per capire che cosa faceva , pensava e affermava un cattedratico di psichiatria , psicoanalista negli anni 90 e quale fosse la dimensione culturale nella quale si muoveva. E così finisce col testimoniare con evidenza e grande chiarezza lo scenario italiano degli anni 90. Uno scenario che qui non mi è possibile analizzare in modo approfondito ma che, indiscutibilmente, segna un declino per la psichiatria italiana, declino dal quale, forse questa non si è più risollevata.
Il principio di questo declino sta proprio dentro le Università e la loro difficoltà, quasi generale, di fare una formazione coerente con la situazione in Italia, ovvero di incorporare l’esperienza e i problemi della riformata assistenza psichiatrica[6] e di formare persone che sapessero stare nei servizi lasciando, nella maggioranza dei casi a loro e alla loro iniziativa decidere il percorso formativo. La formazione nelle cliniche psichiatriche in Italia è sempre stata un problema significativo e importante[7]. Ovviamente c’erano scuole e scuole, e alcune di queste scuole si dicono a orientamento psicoanalitico perché il loro direttore è uno psicoanalista della SPI. ma questa carenza di cura non potrebbe essere stata una delle basi della autoreferenzialità che poi, nel corso degli anni si è rivelato essere un problema nei servizi e un fertile terreno per orientare scelte culturali da parte di chi, come le industrie farmaceutiche, disponeva di crescenti risorse?
Terzo punto: l’insegnamento della psicoanalisi negli anni 80 e 90, ovvero dopo gli anni della riforma della assistenza psichiatrica, ma anche i controversi e conflittuali rapporti fra università e servizi del territorio. Che, a dire il vero, son due temi distinti ma che, nella scrittura di Romolo Rossi non emergono chiaramente anche se, in alcuni passaggi (in particolare nella lezione 19) vi è il tentativo da parte sua di trovare una posizione nella quale e dalla quale poter affermare valori e principi culturali ma anche etici per la cura delle malattie mentali. La relazione fra psichiatri, e psichiatri in formazione negli anni 80 e 90 nei confronti della psicoanalisi fu di caloroso interesse e di adesione molto più di quanto si potrebbe dire oggi. Le aspettative nella cura attraverso la relazione, le letture relative alla psicoanalisi francese (per chi non lo ricorda “Lo psicanalista senza divano”[8] ) degli autori che avevano fatto evolvere il pensiero psicoanalitico (Klein , Winnicot, Bion, Lacan …) in queste lezioni sembrano essere inascoltate, non vi si trova, praticamente , nessun riferimento. Mentre al DSM sì. Si potrebbe dire che si parla dei fondamentali, così come nel gioco in cui per fare azioni brillanti è necessario conoscere alcuni schemi di base, ma francamente mi sembra una giustificazione poco sostenibile. Il punto è un altro, ovvero la profonda preoccupazione di Rossi di mantenere una vista coordinata (lo dice anche esplicitamente) fra montanti passioni genericamente definite “organicistiche” ed un approccio umanistico e narrativo ; ovvero fra le crescenti e (artificiosamente) contrapposte visioni della psicofarmacologia e la psicoterapia
Ora venendo alla questione che a me sembra centrale, si condensa , in quegli anni , e nel testo di Rossi di conseguenza , la chiara evidenza di una conflitto fra una approccio “umanista” e narrativo ed uno, di chiara provenienza “neokrapeliniana”[9], legato al diffondersi delle terapie psicofarmacologiche [10] e delle nuove nosografie provenienti dagli Stati Uniti [11]. E Rossi prova a porsi come una specie di mediatore dei diversi linguaggi, e lo fa ri-leggendo Freud.
Ma, invece, quello che succede in quegli anni è che l’approccio psicosociale (e uso qui una nomenclatura davvero rivedibile) che ha caratterizzato il nostro paese a partire dagli anni 70 [12] resta , stritolato da questa contrapposizione e dalla difficoltà dei maestri di insegnare come ci si comporta nei servizi. Di conseguenza si sono allargati a dismisura comportamenti autoreferenziali legittimati semplicemente dal fatto di dirsi come appartenenti a uno schieramento invece che ad un altro. Purtroppo neppure la presenza in Italia di una significativa scuola fenomenologica, mai davvero entrata nelle Università, ha potuto porre rimedio a questa situazione , anzi, anche questo approccio negli anni , è rimasto vittima di un declino conseguenza della sua esclusione dalle pratiche assistenziali e culturali dei servizi e di un rimanere compresso sul versante della pura narrativa a volte vicina a quella di un diario. Insomma, è come se ognuna di queste culture fosse esistita semplicemente come teoria perdendo la possibilità di essere uno stimolo a un pensiero critico ma fornendo invece risposte preformate ad attestazione di una Verità che con tutto ha a che fare meno che con il pensiero scientifico, e forse anche con quello etico.
Che cosa resta per la pratica e di quali comportamenti e condizioni e decisione è costituita la pratica dello psichiatra oggi? Sapere di Freud, di Jaspers e di tutti gli altri è indiscutibilmente indispensabile. Ma è sufficiente? Credo l’aver fatto pensare che bastasse, probabilmente è ciò che ha impedito a un approccio più clinico di costruire, in Italia , un modello intelligente e consapevole per una psichiatria critica. Critica perché sa quali son i propri fondamenti, conosce le proprie idee, definisce i propri valori, aumenta le proprie conoscenze e alla fine assume comportamenti adeguati. Il libro di Rossi è quindi un elemento utile come lo sono altre ri-letture. Ma non basta. Il rischio è che tutto quel sapere sia considerato un piacevole ricordo dell’università e degli entusiasmi giovanili ma che ahimè, oggi, un oggi che è sempre diverso, ha dovuto cedere il passo a un “realismo” concreto, frutto di una cattiva interpretazione del modello medico , che poco ha a che fare con la scienza e di cui , francamente, pochi pazienti hanno mai davvero beneficiato.
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