Non credo che l’importante produzione di testi sulla follia[1] e la Prima guerra mondiale sia collegata al recente centenario (2015-2018), che pure ha prodotto iniziative, eventi, mostre e convegni. Molti di questi lavori sono datati ben prima, a partire dagli anni 90, fino ad arrivare alla fatidica data del 2015[2] dopo la quale vi sono state, comunque, ulteriori e importanti pubblicazioni[3].
Tutti gli autori si sono occupati di vedere, attraverso la consultazione di registri e documenti disponibili negli archivi, che cosa succedeva ai soldati ricoverati negli ospedali psichiatrici durante la Prima guerra mondiale. Agli inizi del 900 la concezione della malattia mentale era indiscutibilmente più ampia di come oggi la si intende. A causa del ruolo predominante, nelle valutazioni diagnostiche, di una semeiotica fondata sulla degenerazione nervosa, vi era una certa sovrapposizione fra gli aspetti costituzionali, quelli secondari a intossicazioni, a malattie infettive o relativi a malattie mentali ancora non bene definite nella loro identità nosografica come è ben testimoniato dai diversi manuali di psichiatria dei primi del Novecento[4]. Sull’onda dell’interesse ottocentesco per le conseguenze nervose dei traumi [5] il conflitto venne ritenuto da molti psichiatri, anche italiani, una irripetibile occasione di studiare le reazioni a eventi traumatici da parte di coloro che si sarebbero trovati esposti. Per queste conseguenze però non c’era una teoria univoca e gli studiosi si schieravano in alcuni casi per una spiegazione di tipo funzionale e psicologico in altri per una di tipo organico[6]. Il concetto di “shell shock” introdotto da Myers nel 1915, pur riscuotendo un certo consenso a livello internazionale non fu mai particolarmente apprezzato in Italia dove il dibattito sulla esistenza o meno di patologie conseguenti alla guerra rimase aperto per tutta la durata il conflitto non risolvendo mai il dilemma se si trattava di malattia o simulazione. Per ulteriori approfondimenti rimando ad un altro mio articolo in questa rubrica http://www.psychiatryonline.it/node/6504 .
Tornando alla significativa produzione di letteratura, il fatto che gli autori siano per la grande parte , se non tutti, storici o comunque umanisti ha permesso uno sguardo sulle vicende umane e sociali di soldati vittime “speciali” della guerra, soldati colpiti in modo diverso dai feriti nel corpo o da coloro che vennero uccisi; nello stesso tempo però testimonia di una scadente vocazione alla memoria della psichiatria che, pur mantenendo vivo l’interesse per molti degli studiosi di allora[7], sicuramente in Italia , non si è ancora completamente confrontata con quelle vicende. Tutti i manicomi del regno furono coinvolti. Le innumerevoli testimonianze contemporanee alla vicenda, i diari e i memoriali [8]di chi partecipò direttamente all’evento della prima guerra hanno lasciato molto materiale ai posteri che si sono interrogati su cosa davvero successe. Ma credo che questo non basti a spiegare a che cosa è dovuto questo grande interesse e questa importante produzione sulla follia nella (e della) prima guerra mondiale; su una quesitone di così grande rilievo cui non sono in grado di dare una risposta, ma qualche spunto, peraltro già trattato in alcuni dei testi citati, quello sì, credo valga la pena di sottolinearlo
Per primo la prima guerra mondiale è un evento epocale per le sue caratteristiche , il modo in cui le persone sono state coinvolte nei combattimenti , gli stermini di massa, i gas, le macchine i cannoni tutto ciò che molti considerano una manifestazione della “modernità” ne segna indiscutibilmente un carattere globale sia dal punto di vista di belligeranti che da quello dei mezzi di morte utilizzati per i combattimenti e per i coinvolgimento dei territori dove questo si svolgeva. La prima guerra mondiale fu ,per un’Italia piuttosto giovane come nazione , un prolungamento del moto risorgimentale , l’occasione per la retorica della vittoria ma anche la evidente dimostrazione che la grandezza italica , che tanto sarà evocata a partire dagli anni 20 proprio dai più frustrati fra i reduci di quella guerra, era ben poca cosa e che la povertà , l’arretratezza strutturale , la inadeguatezza della classe politica, dei comandanti e delle loro strategie determinarono una prova quasi fatale per il paese , che seppur coperta dalla retorica della vittoria, aveva il sapore di una sconfitta profonda e lacerante. Lo stesso sapore che nel primo dopoguerra alimentò la retorica della “vittoria mutilata”.
Allo stesso tempo la “Grande” guerra è una guerra ancora ricordata attraverso i passaggi generazionali. I memoriali, le persone che vivono nei territori scenario dei combattimenti hanno ricevuto racconti dai loro avi. Nessuno dei combattenti , oggi è in vita[9] e forse pochi dei loro figli , che si trovarono poi coinvolti nella seconda di guerra e i figli dei figli hanno ricordato e trasmesso le memorie , le foto , i documenti ovvero tutto ciò che avevano a diposizione creando una tradizione che si basa anche su presidi sul territorio come sacrari , mausolei , ossari che con la loro stessa presenza segnano i luoghi teatro del conflitto. E queste i figli dei figli li hanno visitati con i loro padri e hanno portato i loro figli a vedere questi monumenti.
L’occasione per queste riflessioni mi è data da Guido Alliney che pubblica in questi giorni un volumetto dal titolo” La follia nella grande guerra” per Leg Edizioni di Gorizia. Sono partito da ciò che ha scritto, ovvero mi sono chiesto che cosa ha spinto un professore di storia della filosofia medievale a fare un libro sulla follia e la prima guerra mondiale? La lettura del testo, che è piuttosto, agevole mi ha fornito una prima risposta: lo scopo, in parte si identifica con la strategia narrativa di Alliney. Egli esamina delle vicende di alcuni militari, e non solo, e le racconta. Le racconta come quelle storie di cui parlavo prima, quelle narrate dai padri ai figli. Ogni capitoletto è dedicato a una vicenda, rigorosamente costruita attraverso i documenti matricolari e le cartelle cliniche ovvero con tutto quello che è disponibile negli archivi e lo mette insieme in una narrazione. Sicché di fatto il libro è l’insieme di alcuni brevi racconti della vita di alcune persone, Pietro Savazzi, Mazzoni Giuseppe, Umberto Sormani e altri di cui, giustamente riporta il nome per intero per restituire loro ciò che un anonimato avrebbe ancora una volta sottratto, generalizzandoli come “casi” e non come persone. Ma perché proprio loro? Guido Alliney sa, di sicuro la risposta. Per parte mia credo sia una domanda importante , in ogni caso, perché, in verità , storia ed esperienze di queste persone sono narrate a partire dalle tracce che hanno lasciato: i documenti scritti di loro pugno o da quello dei loro familiari, come diari e lettere, e i documenti che sono stati prodotti successivamente al loro passaggio nei contesti istituzionali ovvero gli atti di nascita , di famiglia , i fogli matricolari e ogni altra documentazione che accompagna il percorso di una persona che diventa soldato e viene inviata al fronte. A questi documenti si aggiungono le cartelle cliniche di ospedali e manicomi e questo sembra spiegare, in parte, l’interesse di molti studiosi proprio per queste persone: esse sono state raccontate dal linguaggio medico e della psichiatria manicomiale. Da queste tracce si ricerca di comprenderne la particolarità, di trovare in loro il perché di una crisi che li ha resi diversi dagli altri. Ma è proprio questa la parte più difficile e frustrante. Le cartelle cliniche riportano questi individui in una dimensione impersonale, tendono farne perdere le tracce o, al massimo, di collocarli in qualche categoria che, come tutte le categorie, non può rendere giustizia alla esperienza delle persone, in particolar modo quando questa esperienza è così enorme come quella di essere stati gettati al fronte, posti di fronte alla morte. In loro si cerca il senso di questa enormità ma ogni sguardo finisce con il disperdersi in un “oscuro scrutare”. E’ comprensibile come Alliney, in più momenti debba far riferimento, invece che alla teoria medica, alla personalità dei diversi direttori di manicomio, alla loro bonarietà o rigidità, al fatto che ammettano o meno la possibilità di un trauma bellico[10]. Lo sguardo non-psichiatrico di umanisti, come Alliney, sui manicomi oltre a parlare di quelle persone ci mostra lo stato dello stesso ospedale e l’insufficienza del linguaggio medico-psichiatrico.
I racconti de “La follia nella grande guerra” sono impreziositi dalla descrizione degli scenari e da un repertorio fotografico, di proprietà dell’autore, che rende le narrazioni ancora più vive attraverso le immagini dei luoghi, di altri protagonisti, dei documenti. Entrano in scena mano a mano gli ospedali psichiatrici di Treviso, di Verona, di Reggio Emilia, di Ancona, di Venezia. Storie complicate di persone con una vita complicata. La presenza delle famiglie, il dolore e le frustrazioni dei padri, delle madri, delle mogli sono tangibili in questi bevi racconti così come colpisce la vicenda di Osmana Lusvardi giovanissima vedova che appresa la morte del marito uccide il proprio bimbo di tre anni e tenta poi di togliersi la vita. Come si fa a pensare che questi racconti non abbiano, intrinseca, la necessità di essere, almeno in parte, inviolabili da qualsiasi ermeneutica? Le descrizioni dei soldati, di quanto stavano vivendo, dai rumori delle granate, agli odori, alla fame, agli insetti i al sangue, hanno la stessa natura della paura, del terrore che lascia senza parole, dell’impulso di salvarsi, di trovare una via di scampo. Tutto ciò non riguarda la loro eventuale malattia, ma il fatto che le loro malattie, magari in un mondo diverso, non si sarebbero mai manifestate in quel modo. O forse sì, ma la cosa preziosa di quelle narrazioni però è che, senza poterlo spiegare, mettono chi legge nella condizione di provare a comprendere, empaticamente. Senza sentire quel fastidio derivato dalla irrisione che il termine “scemi di guerra” si è portato dietro fino ad oggi.
Tutti gli autori si sono occupati di vedere, attraverso la consultazione di registri e documenti disponibili negli archivi, che cosa succedeva ai soldati ricoverati negli ospedali psichiatrici durante la Prima guerra mondiale. Agli inizi del 900 la concezione della malattia mentale era indiscutibilmente più ampia di come oggi la si intende. A causa del ruolo predominante, nelle valutazioni diagnostiche, di una semeiotica fondata sulla degenerazione nervosa, vi era una certa sovrapposizione fra gli aspetti costituzionali, quelli secondari a intossicazioni, a malattie infettive o relativi a malattie mentali ancora non bene definite nella loro identità nosografica come è ben testimoniato dai diversi manuali di psichiatria dei primi del Novecento[4]. Sull’onda dell’interesse ottocentesco per le conseguenze nervose dei traumi [5] il conflitto venne ritenuto da molti psichiatri, anche italiani, una irripetibile occasione di studiare le reazioni a eventi traumatici da parte di coloro che si sarebbero trovati esposti. Per queste conseguenze però non c’era una teoria univoca e gli studiosi si schieravano in alcuni casi per una spiegazione di tipo funzionale e psicologico in altri per una di tipo organico[6]. Il concetto di “shell shock” introdotto da Myers nel 1915, pur riscuotendo un certo consenso a livello internazionale non fu mai particolarmente apprezzato in Italia dove il dibattito sulla esistenza o meno di patologie conseguenti alla guerra rimase aperto per tutta la durata il conflitto non risolvendo mai il dilemma se si trattava di malattia o simulazione. Per ulteriori approfondimenti rimando ad un altro mio articolo in questa rubrica http://www.psychiatryonline.it/node/6504 .
Tornando alla significativa produzione di letteratura, il fatto che gli autori siano per la grande parte , se non tutti, storici o comunque umanisti ha permesso uno sguardo sulle vicende umane e sociali di soldati vittime “speciali” della guerra, soldati colpiti in modo diverso dai feriti nel corpo o da coloro che vennero uccisi; nello stesso tempo però testimonia di una scadente vocazione alla memoria della psichiatria che, pur mantenendo vivo l’interesse per molti degli studiosi di allora[7], sicuramente in Italia , non si è ancora completamente confrontata con quelle vicende. Tutti i manicomi del regno furono coinvolti. Le innumerevoli testimonianze contemporanee alla vicenda, i diari e i memoriali [8]di chi partecipò direttamente all’evento della prima guerra hanno lasciato molto materiale ai posteri che si sono interrogati su cosa davvero successe. Ma credo che questo non basti a spiegare a che cosa è dovuto questo grande interesse e questa importante produzione sulla follia nella (e della) prima guerra mondiale; su una quesitone di così grande rilievo cui non sono in grado di dare una risposta, ma qualche spunto, peraltro già trattato in alcuni dei testi citati, quello sì, credo valga la pena di sottolinearlo
Per primo la prima guerra mondiale è un evento epocale per le sue caratteristiche , il modo in cui le persone sono state coinvolte nei combattimenti , gli stermini di massa, i gas, le macchine i cannoni tutto ciò che molti considerano una manifestazione della “modernità” ne segna indiscutibilmente un carattere globale sia dal punto di vista di belligeranti che da quello dei mezzi di morte utilizzati per i combattimenti e per i coinvolgimento dei territori dove questo si svolgeva. La prima guerra mondiale fu ,per un’Italia piuttosto giovane come nazione , un prolungamento del moto risorgimentale , l’occasione per la retorica della vittoria ma anche la evidente dimostrazione che la grandezza italica , che tanto sarà evocata a partire dagli anni 20 proprio dai più frustrati fra i reduci di quella guerra, era ben poca cosa e che la povertà , l’arretratezza strutturale , la inadeguatezza della classe politica, dei comandanti e delle loro strategie determinarono una prova quasi fatale per il paese , che seppur coperta dalla retorica della vittoria, aveva il sapore di una sconfitta profonda e lacerante. Lo stesso sapore che nel primo dopoguerra alimentò la retorica della “vittoria mutilata”.
Allo stesso tempo la “Grande” guerra è una guerra ancora ricordata attraverso i passaggi generazionali. I memoriali, le persone che vivono nei territori scenario dei combattimenti hanno ricevuto racconti dai loro avi. Nessuno dei combattenti , oggi è in vita[9] e forse pochi dei loro figli , che si trovarono poi coinvolti nella seconda di guerra e i figli dei figli hanno ricordato e trasmesso le memorie , le foto , i documenti ovvero tutto ciò che avevano a diposizione creando una tradizione che si basa anche su presidi sul territorio come sacrari , mausolei , ossari che con la loro stessa presenza segnano i luoghi teatro del conflitto. E queste i figli dei figli li hanno visitati con i loro padri e hanno portato i loro figli a vedere questi monumenti.
L’occasione per queste riflessioni mi è data da Guido Alliney che pubblica in questi giorni un volumetto dal titolo” La follia nella grande guerra” per Leg Edizioni di Gorizia. Sono partito da ciò che ha scritto, ovvero mi sono chiesto che cosa ha spinto un professore di storia della filosofia medievale a fare un libro sulla follia e la prima guerra mondiale? La lettura del testo, che è piuttosto, agevole mi ha fornito una prima risposta: lo scopo, in parte si identifica con la strategia narrativa di Alliney. Egli esamina delle vicende di alcuni militari, e non solo, e le racconta. Le racconta come quelle storie di cui parlavo prima, quelle narrate dai padri ai figli. Ogni capitoletto è dedicato a una vicenda, rigorosamente costruita attraverso i documenti matricolari e le cartelle cliniche ovvero con tutto quello che è disponibile negli archivi e lo mette insieme in una narrazione. Sicché di fatto il libro è l’insieme di alcuni brevi racconti della vita di alcune persone, Pietro Savazzi, Mazzoni Giuseppe, Umberto Sormani e altri di cui, giustamente riporta il nome per intero per restituire loro ciò che un anonimato avrebbe ancora una volta sottratto, generalizzandoli come “casi” e non come persone. Ma perché proprio loro? Guido Alliney sa, di sicuro la risposta. Per parte mia credo sia una domanda importante , in ogni caso, perché, in verità , storia ed esperienze di queste persone sono narrate a partire dalle tracce che hanno lasciato: i documenti scritti di loro pugno o da quello dei loro familiari, come diari e lettere, e i documenti che sono stati prodotti successivamente al loro passaggio nei contesti istituzionali ovvero gli atti di nascita , di famiglia , i fogli matricolari e ogni altra documentazione che accompagna il percorso di una persona che diventa soldato e viene inviata al fronte. A questi documenti si aggiungono le cartelle cliniche di ospedali e manicomi e questo sembra spiegare, in parte, l’interesse di molti studiosi proprio per queste persone: esse sono state raccontate dal linguaggio medico e della psichiatria manicomiale. Da queste tracce si ricerca di comprenderne la particolarità, di trovare in loro il perché di una crisi che li ha resi diversi dagli altri. Ma è proprio questa la parte più difficile e frustrante. Le cartelle cliniche riportano questi individui in una dimensione impersonale, tendono farne perdere le tracce o, al massimo, di collocarli in qualche categoria che, come tutte le categorie, non può rendere giustizia alla esperienza delle persone, in particolar modo quando questa esperienza è così enorme come quella di essere stati gettati al fronte, posti di fronte alla morte. In loro si cerca il senso di questa enormità ma ogni sguardo finisce con il disperdersi in un “oscuro scrutare”. E’ comprensibile come Alliney, in più momenti debba far riferimento, invece che alla teoria medica, alla personalità dei diversi direttori di manicomio, alla loro bonarietà o rigidità, al fatto che ammettano o meno la possibilità di un trauma bellico[10]. Lo sguardo non-psichiatrico di umanisti, come Alliney, sui manicomi oltre a parlare di quelle persone ci mostra lo stato dello stesso ospedale e l’insufficienza del linguaggio medico-psichiatrico.
I racconti de “La follia nella grande guerra” sono impreziositi dalla descrizione degli scenari e da un repertorio fotografico, di proprietà dell’autore, che rende le narrazioni ancora più vive attraverso le immagini dei luoghi, di altri protagonisti, dei documenti. Entrano in scena mano a mano gli ospedali psichiatrici di Treviso, di Verona, di Reggio Emilia, di Ancona, di Venezia. Storie complicate di persone con una vita complicata. La presenza delle famiglie, il dolore e le frustrazioni dei padri, delle madri, delle mogli sono tangibili in questi bevi racconti così come colpisce la vicenda di Osmana Lusvardi giovanissima vedova che appresa la morte del marito uccide il proprio bimbo di tre anni e tenta poi di togliersi la vita. Come si fa a pensare che questi racconti non abbiano, intrinseca, la necessità di essere, almeno in parte, inviolabili da qualsiasi ermeneutica? Le descrizioni dei soldati, di quanto stavano vivendo, dai rumori delle granate, agli odori, alla fame, agli insetti i al sangue, hanno la stessa natura della paura, del terrore che lascia senza parole, dell’impulso di salvarsi, di trovare una via di scampo. Tutto ciò non riguarda la loro eventuale malattia, ma il fatto che le loro malattie, magari in un mondo diverso, non si sarebbero mai manifestate in quel modo. O forse sì, ma la cosa preziosa di quelle narrazioni però è che, senza poterlo spiegare, mettono chi legge nella condizione di provare a comprendere, empaticamente. Senza sentire quel fastidio derivato dalla irrisione che il termine “scemi di guerra” si è portato dietro fino ad oggi.
[1] Follia è il termine, forse, più usato in molti saggi e monografie sull’argomento, assieme a “scemi di guerra”
[2] Senza poterli citare tutti ricordo che Gibelli scrive il suo: L’officina della guerra nel 1991, Bruna Bianchi La follia e la fuga nel 2001, riprendendo lavori che aveva già pubblicato in altri contesti , altri ( Scartabellati , Bettiol , Adami , La Fata ) dal 2008 al 2014.
[3] Salonna su Ancona nel 2015, Grillini su Pergine Valsugana nel 2018 fino al recentissimo: Una guerra di Nervi di Fabio Milazzo su Racconigi.
[4] A parte le diverse edizioni del trattato Kraepeliniano ricordo il manuale di riferimento per gli psichiatri italiani ovvero il Tanzi. questi, come molti altri manuali contengono proprie considerazioni relativamente alla classificazione dei disturbi mentali
[5] Traumatic Pasts: History, Psychiatry, and Trauma in the Modern Age, 1870-1930 a cura di Mark S. Micale, Associate Professor of History Mark S Micale, Paul Lerner, Charles Rosenberg Cambridge press 2001
[6] Questo spiega anche la gamma di interventi terapeutici che andavano dall’ipnosi alla psicoterapia fino alle terapie elettriche (ovvero stimoli elettrici applicati in varie parti del corpo) terapie febbrili, idroterapie o in generale alla cura dell’alimentazione e del sonno. Come è noto anche per Freud e la psicoanalisi la guerra fu una occasione di ripensamento della terapia delle nevrosi. Freud, direttamente partecipò, nel dopoguerra, a una commissione d’inchiesta sulla disumanità di alcuni trattamenti fisici. |
[7] Non si puoò negare infatti che l’interesse per gli autori del primo Novecento, da Kraepelin a Freud, da Janet a Jaspers e Bleuler non sia, tutt’oggi, molto vivo.
[8] F. Maggio Un popolo la fronte. Diari e lettere dal fronte italiano nella Prima guerra mondiale. Albatros, 2001
Oltre a Gadda, Lussu e molti altri non posso non ricordare Corrado Tumiati che nel suo “Zaino di sanità” ha uno sguardo originale, segnato in modo indelebile dal suo essere psichiatra anche se di patologie psichiatriche non parla quasi mai.
Oltre a Gadda, Lussu e molti altri non posso non ricordare Corrado Tumiati che nel suo “Zaino di sanità” ha uno sguardo originale, segnato in modo indelebile dal suo essere psichiatra anche se di patologie psichiatriche non parla quasi mai.
[9] Carlo Orelli di Perugia morì a 110 anni nel 2005 e Delfino Borroni, alla stessa età nel 2008.
[10] Vale la pena ricordare che un paio d’anni dopo la guerra vi furono indicazioni governative che riconoscevano anche le malattie nervose fra i danni indennizzabili in conseguenza della guerra.
0 commenti