Differenze di genere, evoluzione della Sanità verso un modello affermativo e validante: un possibile percorso integrativo per gli operatori

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8 settembre, 2020 - 07:31

English abstract: The LGBT community has long been victim of stigmatization, prejudice and discrimination not only on a social level but also in the medical and mental health field. Historically, in fact, and in many situations to this day, LGBT people were often offered and encouraged to seek “reparative therapy” aimed at converting their homosexual orientation considered immoral, perverse, criminal and pathological. The adverse physical and mental consequences of these therapies were subsequently described and repeatedly demonstrated in numerous studies commissioned by the American Psychiatric Association (APA) itself. These researches led to the elimination of the diagnosis of homosexuality from the second edition of the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Illnesses (1973). Unfortunately, this has not been followed by a radical change in the medical and mental health field such as the modification of training models specifically targeting social and health workers who provide services for LGBT people. This article describes the main competencies that a health and social worker must possess in order to develop an "affirmative and validating" attitude in supporting the journey of LGBT people towards an optimal level of self-acceptance and self-enhancement. 

Keywords: Gay-Affirmative Therapy, Gender Identity, Coming-Out, Minority Stress, Gender Studies and Skills

Abstract in italiano: La comunità LGBT è stata per molto tempo vittima di stigmatizzazione, pregiudizio e discriminazione non solo a livello sociale ma anche nel mondo della sanità. Storicamente infatti, ed in molte realtà a tutt’oggi, alle persone LGBT veniva spesso offerta e suggerita una terapia “riparativa” volta alla conversione del loro orientamento omosessuale considerato immorale, perverso, criminale e patologico. Gli effetti collaterali avversi a livello sia fisico sia mentale di tali terapie sono stati successivamente descritti e ripetutamente dimostrati grazie a numerosissimi studi commissionati dall’Associazione Psichiatrica Americana (APA) stessa. Tali ricerche hanno condotto alla eliminazione della diagnosi di omosessualità dalla seconda edizione del Manuale Diagnostico e Statistico della Malattie Mentali (1973). Sfortunatamente, a ciò non è seguito un cambiamento radicale nel mondo della sanità quale la modifica dei modelli di formazione rivolti agli operatori della salute che forniscono servizi per le persone LGBT. In questo articolo vengono descritte le principali competenze che un operatore della salute deve possedere al fine di sviluppare un atteggiamento “affermativo e validante” nel supportare il cammino delle persone LGBT verso un ottimale livello di autoaccettazione e valorizzazione di sé.  

Parole chiave: Terapia Affermativa per la Popolazione LGBT, Coming-Out, Minority-Stress, Studi e Competenze di Genere 

 

INTRODUZIONE 

Storicamente alle persone LGBT veniva spesso detto che la loro unica salvezza era rappresentata dal trovare “un buon terapeuta” per riuscire a cambiare il loro orientamento sessuale. Veniva anche detto che qualora non fossero sufficientemente motivati o ambivalenti rispetto al proprio desiderio di cambiare, la psicoterapia non avrebbe funzionato per colpa loro e non della terapia o del terapeuta, condannandoli così ad una vita di depressione ed infelicità (Kort J., 2018). 

Queste convinzioni provenivano dall’influenza di aspetti culturali, religiosi, sociali e politici che hanno da sempre avuto un impatto profondo sul modo di pensare alla psicoterapia con persone LGBT. Come conseguenza, informazioni corrette basate sull’evidenza di ricerche scientifiche hanno da sempre fatto fatica nel venire trasmesse, mentre opinioni personali, pregiudizi e teorie basate su metodologie di ricerca poco rigorose hanno rappresentato la base di molti modelli psicoterapici rivolti a questa popolazione (Kenneth L., 2008) 

Gli effetti di tali influenze provenienti da diverse direzioni sono ben rappresentate dai cosiddetti miti dell’identità LGBT”. Alcuni di questi miti sull’identità LGBT sono per esempio rappresentati da teorie psicoanalitiche che vedono l’omosessualità come forma di sessualità bloccata o immatura o una perversione o forma di narcisismo; o altre teorie, sempre psicoanalitiche, che vedono l’omosessualità come un risultato indesiderato di dinamiche familiari caratterizzate da una madre troppo protettiva ed un padre assente (Mitchell S.A., 2002). Altri miti presenti nella popolazione generale sono per esempio rappresentati da assunzioni scorrette e mai provate scientificamente quali il fatto che parlare di omosessualità può cambiare l’orientamento sessuale dei bambini o che l’omosessualità è legata ad abuso sessuale nell’infanzia (l’abuso sessuale può disorientare ma non orientare) o che l’orientamento sessuale può essere modificato, è una scelta, è un comportamento e non una identità, è uno stile di vita alternativo o che le relazioni affettive omosessuali non possono durare (Kort J., 2018). 

Sfortunatamente, pur non essendo stata stabilita alcuna base scientifica per dedurre una predisposizione alla psicopatologia o ad altro disadattamento intrinseco all'omosessualità, molti di questi miti sono poi diventati la base di molte tecniche psicoterapiche volte e “riparare” l’orientamento sessuale1 delle persone LGBT poiché ritenute “malate”. Un esempio è rappresentato da modelli di terapie riparative basate su teorie religiose oppure l’uso di tecniche quali elettroshock, lobotomia, terapie aversive, castrazione e imprigionamento. Come detto correttamente da Lingiardi (2007): “Tali terapie si fondano su falsi presupposti circa lo sviluppo infantile, strettamente legati allo stigma2 antiomosessuale. Questi psicologi della riparazione ritengono infatti che la vita di una persona omosessuale sia stata segnata da un trauma o da una genitorialità inadeguata, da cui deriverebbe una carenza di mascolinità nell’uomo gay e di femminilità nella donna lesbica. Il comportamento omosessuale viene concepito come una forma di dipendenza sessuale o parafilia curabile con terapie comportamentali. E così, le terapie riparative mirano a “rimettere le cose al loro posto”, incentivando stereotipati atteggiamenti maschili nei gay e femminili nelle lesbiche. I fautori delle terapie riparative vantano una percentuale di successo che dichiarano intorno al 30% dei soggetti trattati. Quello che viene omesso è la natura di tale successo: una reale conversione dell’orientamento o una repressione del comportamento omosessuale, ottenuta rinforzando difese disadattive come la negazione e la dissociazione?”.  

A seguito della rimozione della diagnosi di omosessualità dalla seconda edizione del Manuale Diagnostico statistico della Malattie Mentali (DSM II, 1973) da parte dell’Associazione Psichiatrica Americana, l'Associazione Psicologica Americana ha adottato diverse risoluzioni in cui si afferma che l'omosessualità di per sé non implica alcun danno nel giudizio, nella stabilità, nell'affidabilità o nelle capacità sociali o professionali generali e sollecita tutti i professionisti della salute mentale a prendere l'iniziativa nel rimuovere lo stigma della malattia mentale che è stato a lungo associato a orientamenti omosessuali” (APA, 1974). Negli anni successivi all'adozione di questa importante politica, l'APA ha effettivamente assunto la guida nel promuovere la salute mentale e il benessere delle persone lesbiche, gay e bisessuali e nel fornire agli psicologi strumenti affermativi per la pratica, l'educazione e la ricerca con queste popolazioni. Nel 2009, l'associazione ha affermato che le attrazioni, i sentimenti e i comportamenti sessuali e romantici tra persone dello stesso sesso sono variazioni normali e positive della sessualità umana indipendentemente dalla natura del loro orientamento sessuale. Ha inoltre evidenziato come l’uso di terapie riparative possa generare ansia, depressione, ideazione suicidaria e scarsa autostima nelle persone ad esse sottoposte (APA, 2009).  

Questo passato ha ed ha avuto un impatto radicale sulle persone LGBT che considerano di iniziare un percorso psicoterapico. Spesso questi potenziali pazienti, consapevoli di questo passato nonché dello stigma della società nei loro confronti, si pongono domande quali: “Cosa pensa il mio terapeuta del fatto che sono gay? Proverà a fare in modo di cambiare il mio orientamento sessuale? Penserà che sono un malato mentale?”.  Per tali ragioni, alcune persone cercano terapeuti apertamente LGBT, ma questo non garantisce che non riceveranno messaggi omofobi ed eterosessisti3. Il punto non è l’orientamento sessuale del terapeuta bensì la formazione del terapeuta sulle tematiche specifiche della psicologia LGBT.  

Il concetto di formazione sulle tematiche specifiche legate all’appartenenza del paziente alla comunità LGBT viene spesso confuso con l’atteggiamento o la mentalità del terapeuta. Essere “gay-positive” or “gay-friendly” non significa essere “gay-affermative”. Significa avere una mente aperta, ma non significa necessariamente essere formati ed informati sulle specificità di questa popolazione e il conseguente bisogno di considerare queste specificità nell’aiutare queste persone. Infatti, un operatore della salute può essere “gay-friendly” ma non avere una specifica formazione sul tema (Kort, 2004). Pur essendo vero ed essenziale che il professionista debba esplorare il proprio controtransfert, bias, stereotipi, privilegio, eterosessismo ed omofobia privatamente o all’interno di un percorso psicoterapeutico personale, questo rappresenta soltanto un buon punto di partenza ma serve molto di più. Il concetto di “possedere una competenza specifica” su tale tema rappresenta il nodo fondamentale. Per esempio, è fondamentale che il professionista conosca le specificità della comunità LGBT in aree quali: relazioni affettive, dinamiche familiari e di coppia, relazione con le famiglie di origine, religione e spiritualità, difficoltà e bisogni specifici relativi all’età (giovani, anziani…), HIV-AIDS e discriminazione sul posto di lavoro (Kort J., 2018). Va ritenuto del tutto accettabile, infatti, che i professionisti della salute inviino questi pazienti ad un altro professionista qualora non siano competenti. Anche se questo approccio non è sicuramente ideale ed in molte parti del mondo considerato persino non etico, è pur sempre preferibile al danno che può essere arrecato a queste persone per la mancata competenza o il pregiudizio dell’operatore sociosanitario. Non possiamo essere competenti in tutto. 

 

PSICOTERAPIA AFFERMATIVA PER LE PERSONE LGBT 

Cominciando da una definizione generale, la terminologia “terapia affermativa per persone LGBT” venne usata per la prima volta in un articolo scritto da Alan Malyon nel 1982. Va sottolineato che la terapia affermativa per le persone LGBT non è un approccio indipendente di psicoterapia. È un insieme di conoscenze specifiche che il professionista dovrebbe possedere nel lavorare con persone LGBT che partano dall’assunto che l’omosessualità non è una patologia. È una cornice di riferimento che informa il lavoro dei professionisti con questa popolazione. Permette di offrire al paziente LGBT una esperienza emotiva correttiva in cui il terapeuta funge da modello positivo (esperienza non avuta in infanzia) al fine di aiutare il paziente a superare i propri sentimenti di vergogna legati alla propria identità di genere e giungere così ad un sentimento di orgoglio per ciò che è (Friedman & Downey, 2002). Il punto focale di tale modello è come utilizzare tecniche psicoterapiche con questa popolazione senza stigmatizzare o diagnosticare. Conoscere le problematiche specifiche di questa popolazione significa farle sentire accettate e capite. Soprattutto, significa evitare che il paziente si ritrovi nella condizione di “dover formare il terapeuta” all’inizio del percorso terapeutico o che venga dato per scontato che il motivo per il quale una persona LGBT cerchi un aiuto psicologico sia l’orientamento sessuale. Alcuni esempi di tematiche e conoscenze specifiche che il terapeuta dovrebbe possedere sono: l’impatto delle microaggressioni, omofobia (interna ed interiorizzata), stigma, pregiudizio e bullismo sulla salute mentale delle persone LGBT. Inoltre, il professionista della sapute dovrebbe essere informato sulle peculiarità del crescere gay in una società eteronormativa e le diverse fasi del processo di coming-out4 (Malyon, A. K.,1982). 

 

CRESCERE GAY   

Gli atteggiamenti sociali verso il sesso e il genere si sviluppano nel corso del processo di socializzazione primaria e secondaria ed appaiono in relazione con la costruzione dell’identità maschile e femminile e del rapporto fra i sessi. Sono quindi generalmente appresi acriticamente e interiorizzanti passivamente molto presto nelle prime fasi della vita e ancor prima che un individuo abbia riconosciuto il proprio orientamento sessuale.  

Vi è un pregiudizio nella nostra società nell’affermare che un bambino possa essere gay. Il pregiudizio è legato al fatto che l’identità gay viene solitamente sessualizzata. Fondamentalmente vengono associati all’identità LGBT comportamenti sessuali che sono tipici degli adulti. In realtà, essere gay è una identità e non un comportamento. Come l’identità eterosessuale, l’identità gay comprende aspetti identitari, affettivi, e sessuali. Ovviamente, l’aspetto sessuale più adulto comparirà più avanti nello sviluppo (Kort J., 2018). 

Il coming-out parte nel momento in cui il bambino comincia a sentirsi diverso fin dall’infanzia. Ovviamente un bambino non riesce ad etichettare con chiarezza questo sentimento interiore, non riesce a dire in che modo si sente diverso o la parola da usare per esprimere questa sensazione. Solitamente le persone LGBT riescono ad avere chiarezza in adolescenza.  

I fattori che contribuiscono a ciò non sono solo legati alla maturità dell’individuo, ma anche al fatto che: al bambino solitamente non viene permessa una esplorazione in tal senso, mancano modelli alternativi, non se ne parla a scuola o in famiglia, se ne parla poco nei media. Infine, il bambino riceve costantemente messaggi omofobi proveniente da una società in cui i messaggi sono solitamente di natura eteronormativa. Questo è anche il momento in cui il bambino comincia a comprendere lo stigma legato all’essere omosessuali ed a sviluppare ciò che viene definita omofobia internalizzata. Il termine omofobia fu coniato da Weinberg nel 1969 (Weinberg, 1983). Con questo termine si indica genericamente un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti avversi all'omosessualità o alle persone omosessuali. L’omofobia interiorizzata è frutto dell’accettazione passiva (consapevole e soprattutto inconsapevole) da parte delle persone omosessuali, di tutti i pregiudizi, i comportamenti e le opinioni discriminatorie tipici della cultura omofoba in cui siamo immersi e incide profondamente, come agente patogeno, sul benessere delle persone omosessuali (Meyer, I. H., & Dean, L.,1998). 

Infine, va ricordato che l’aspettativa dei genitori, della scuola e della società è che il bambino sia eterosessuale. Questo crea effetti psicologici negativi e talora devastanti (vero e proprio trauma) nel bambino che non riesce a soddisfare le aspettative provenienti dalle persone che ama di più.  

La paura di perdere relazioni significative con la propria famiglia rappresenta uno dei fattori di rischio maggiori nei tentativi di suicidio degli adolescenti LGBT. Molti bambini LGBT, infatti, riportano la paura che qualora condividessero la loro vera identità di genere con i propri familiari, questi potrebbero abbandonarli, metterli fuori di casa, diventare fisicamente violenti, ammazzarli o ammazzarsi.  

A questo si sommano gli episodi di bullismo a cui sono esposti moltissimi bambini gay (micro-aggressioni). Queste esperienze evolutive delle persone LGBT rappresentano veri e propri traumi. Il bambino può cominciare a sviluppare le seguenti credenze: convincersi che non stia succedendo nulla, pensarsi come danneggiato, rotto, sbagliato; confusione, colpevolizzarsi / odiarsi. 

 

COMING-OUT 

Nel mondo LGBT l'espressione coming-out è usata per indicare la decisione – da parte della persona LGBT - di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale o la propria identità di genere. Questo termine va distinto dal termine “outing” che invece si riferisce al rivelare pubblicamente l’orientamento sessuale di un’altra persona contro la sua volontà (APA, 2011). Solitamente si identificano 3 fasi nel processo del coming out: coming out a stessi, ad amici, alla famiglia (Signorile M., 1996) 

Dal punto di vista dello sviluppo individuale, il coming-out non è un fenomeno discreto od una tappa definita dello sviluppo, ma un percorso, un processo che dura tutta la vita. Ciò significa che la decisione di condividere con altre persone la propria identità di genere ha un passato ed un futuro. La persona arriva a prendere questa decisione attraverso un processo e la stessa persona deve poi affrontare le ripercussioni nella propria vita quotidiana della decisione che ha preso. Le persone gestiscono il proprio coming-out a livello emotivo e psicologico in maniera diversa. Ciò dipende dal “come” la persona è giunta al momento del coming-out evolutivamente parlando, dal luogo in cui la persona vive, dal contesto sociale, familiare, storico, politico e così via (Kort J., 2018). 

Vi sono diversi modelli che cercano di spiegare il coming-out descrivendolo come una serie di tappe che la persona affronta dal diniego della propria identità omosessuale alla completa integrazione di tale identità priva di conflitti. Uno di questi modelli è quello di Cass (1979) che ha descritto sei stadi del processo del coming-out nel suo Homosexuality Identity Formation Model 

Nelle sei fasi del modello di Cass, le persone che potrebbero eventualmente identificarsi come LGBT inizierebbero il loro percorso da una fase di Confusione a seguito della comparsa di alcuni pensieri omosessuali. Le reazioni delle persone a tali pensieri sono solitamente confusione e paura. Esse infatti non vogliono neppure considerare questa possibilità e cercano prove del fatto di non essere gay, ma eterosessuali. Lentamente le persone si muovono verso una fase di Confronto con questa eventualità. Non si identificano ancora come gay ma si confrontano con la possibilità di essere “forse gay. In questa fase, la persona esamina le implicazioni più ampie di tale accettazione provvisoria e si muove verso una sorta di esplorazione di questa possibilità ma da una distanza di sicurezza. Compartimentalizzare la propria sessualità, ossia accettare la definizione di comportamento lesbico / gay ma mantenere un'identità eterosessuale, è tipico di questa fase. In modo simile, affermazioni quali: È solo temporaneo; Sono solo innamorato di questa particolare donna / uomo vengono usate nel tentativo di razionalizzare questi pensieri e contenere l’ansia. Ad un certo punto di questo processo si sviluppa solitamente una sorta di Tolleranza verso questa possibilità. La persona capisce di non essere l'unica, riconosce di essere probabilmente gay o lesbica e cerca altre persone gay e lesbiche per combattere i sentimenti di isolamento. Iniziano quindi i primi contatti con la cultura lesbica e gay, si accentua la differenza tra sé (omosessuale) e gli eterosessuali e la persona comincia a provare una varietà di ruoli stereotipicamente gay. Idealmente, le persone giungono ad una Accettazione dell'identità omosessuale. Ciò significa attribuire una connotazione positiva alla propria identità gay o lesbica e accettarla piuttosto che tollerarla. In questa fase, vi è un continuo e crescente contatto con la cultura gay e lesbica ed una ulteriore compartimentalizzazione della vita gay (la persona mantiene sempre meno contatti con la comunità eterosessuale). Comincia una forma di coming-out selettivo e sociale poiché la persona si sente maggiormente a proprio agio nel farsi vedere con gruppi di uomini o donne identificati come gay. Successivamente, molte persone, non tutte, sviluppano un senso di Orgoglio verso la propria identità omosessuale. Le persone non si nascondono più e il pensiero principale è Devo far sapere alla gente chi sono!. Vi è una immersione nella cultura gay, la persona divide il mondo in eterosessuali e omosessuali ed è immersa nella cultura gay e lesbica minimizzando il contatto con gli eterosessuali. Si crea il concetto di noi/loro da un punto di vista politico e sociale (divisione del mondo in "gay" - buono e "eterosessuale" - cattivo). Infine, molte persone giungono ad una Sintesi dell'identità. In questa fase, la persona integra la propria identità sessuale con tutti gli altri aspetti del sé e l'orientamento sessuale diventa solo un aspetto del sé piuttosto che l'intera identità (Cass, V. C.,1979) 

L’utilizzo di questi modelli può essere molto utile al clinico per avere una sorta di mappa mentale del processo di sviluppo di una identità LGBT e comprendere in quale tappa del processo si trovino i pazienti che incontra nella sua pratica clinica. Infatti, ciò permette al clinico di riconoscere quali siano le tematiche, problematiche e preoccupazioni che il paziente sta affrontando in un determinato momento del suo sviluppo. È fondamentale occuparsi delle tematiche specifiche della tappa di sviluppo in cui il paziente si trova prima di muoversi ad altre tematiche tipiche di fasi successive al fine di non rendere il paziente ancora più ansioso o perdere l’alleanza terapeutica e giungere ad un possibile “drop-out” dalla terapia. A questo riguardo, va sottolineato che è il paziente che decide come e quando passare attraverso gli stadi e non il terapeuta. Questo è importante perché è bene non dare mai per scontato che la conclusione inevitabile del percorso di un determinato paziente sarà quella di giungere ad una identificazione gay. Ci sono diversi scenari identitari possibili e dobbiamo essere pronti ad accettare lo scenario nel quale il paziente si trova più a proprio agio. Infatti, non è compito del terapeuta decidere l’identità sessuale del paziente, ma è compito del terapeuta aiutare il paziente a scoprirla nel modo meno traumatico possibile. Va inoltre tenuto presente che gli stadi di sviluppo di una identità gay non avvengono sempre in quest’ordine. Per esempio, le persone passano un tempo diverso in ogni stadio, vi possono essere regressioni a stadi precedenti ed alcune tappe potrebbero essere saltate.  

 

STIGMATIZZAZIONE, VITTIMIZZAZIONE E DISCRIMINAZIONE 

La popolazione LGBTQ, soprattutto nella fascia adolescenziale, è massivamente soggetta ad atti di bullismo (Heiden-Rootes, Salas, Moore, Hasan, & Wilson, 2020) che incrementano il distress relativo alla propria condizione o scelta di genere. Tali atti di bullismo possono prendere diverse forme. Abbiamo forme più ovvie e violente di tale fenomeno quali la violenza fisica a verbale e forme più sfumate e sottili ma altrettanto dolorose e deleterie per la salute mentale della popolazione LGBT. In quest’ultimo caso, parliamo di microaggressioni. Il termine “microaggressioni” venne coniato da uno psichiatra e professore di Harvard, Chester Pierce, nel 1970. Si riferisce ad insulti o commenti inappropriati che persone che appartengono ad un qualche tipo di minoranza ricevono costantemente nella loro vita quotidiana al punto da avere ripercussioni psicologiche (Sue, D. W., 2010). Nel caso della popolazione LGBT, alcuni esempi possono essere: “Allora chi è l’uomo e chi è la donna nella vostra relazione? Hai mai avuto sesso vero? Perché non indossi mai gonne?”. Solitamente la persona che fa questi commenti non ha l’intenzione di ferire o offendere nessuno ma finisce per farlo per ignoranza.  

Le conseguenze di tali atti subiti sono sia immediate che a lungo termine e minano la crescita di questi soggetti poiché intaccano l’autostima e il senso di sé con conseguenze che possono affondare le radici in aspetti psicopatologici (Sherman et al., 2020; Zeglin, Terrell, Barr, & Moore, 2020) 

I soggetti LGBTQ, infatti, soffrono maggiormente di sintomatologia depressiva e ricorrono più facilmente all’uso di sostanze (Capistrant & Nakash, 2019; Livingston et al., 2019) sia come tentativo di autocura sia come oblio dalla realtà che li circonda. Possibili conseguenze in termini di raggiungimento di obiettivi di vita e di carriera sono obiettivabili attraverso numerosi studi, tanto che questi soggetti spesso raggiungono livelli accademici o posizioni lavorative inferiori ai pari eterosessuali (Heiden-Rootes et al., 2020; Nowaskie, Patel, & Fang, 2020). 

L’estrema conseguenza che si rileva nella popolazione LGBTQ (dovuta a molteplici fattori tra cui si annoverano la vittimizzazione e il minority stress, descritto di seguito) si manifesta come incremento di atti autolesivi e anticonservativi (Rahman, Khan, Hasan, & Choudhury, 2020; Tomicic et al., 2020). I soggetti transgender sembrano i più interessati dal fenomeno, seguiti da bisessuali ed omosessuali (di Giacomo, Krausz, Colmegna, Aspesi, & Clerici, 2018).  

 

PREVALENZA DI MALATTIE PSICHIATRICHE NELLA POPOLAZIONE LGBT (MINORITY STRESS) 

Leggendo le revisioni di molte ricerche sulla prevalenza di sintomi e patologie psichiatriche nelle persone LGBT, risulta evidente come vi sia una prevalenza maggiore di sintomatologie psichiatriche nelle persone LGBT rispetto alle persone eterosessuali. In particolare, è stato evidenziato come la prevalenza di patologie quali uso di sostanze, ideazione suicidaria, disturbi affettivi, disturbi d’ansia e PTSD sia maggiore nella popolazione LGBT. La domanda allora diventa perché è così?  

La cornice di riferimento che viene utilizzata maggiormente a spiegazione di questo fenomeno è quella del Minority Stress, come descritto inizialmente da Meyer (1995). Secondo tale modello, stigma, pregiudizio e discriminazione verso le minoranze creano un ambiente così ostile e stressante per queste persone da avere un effetto negativo sulla loro salute mentale.  

Nel caso particolare delle persone LGBT, la ricerca ha evidenziato come fattori quali il pregiudizio, la discriminazione, l’aspettativa del rifiuto, il bisogno di nascondersi, lo stigma, la vergogna, l’omofobia (esterna ed internalizzata) avrebbero un impatto dannoso sulla psicologia delle persone LGBT. Come dice Meyer: “In una società così ostile verso le persone LGBT, non è affatto sorprendente che le persone LGBT abbiano più problematiche di autostima rispetto alle persone omosessuali”. Detto in sintesi, non sarebbe l’omosessualità a generare questi sintomi, ma l’atteggiamento ostile della società fondata su modelli di genere eteronormativi. Quindi la correlazione non è fra omosessualità classificata o meno come malattia mentale, ma fra omosessualità e atteggiamento della società nei confronti della stessa (Meyer I. H., 2003) 

Questa cornice di riferimento è di particolare rilevanza per gli operatori della salute che lavorarono con questa popolazione. Infatti, lavorare con persone LGBT che richiedono servizi di salute fisica e mentale richiede al clinico di possedere competenze specifiche al fine di non stigmatizzare e patologizzare situazioni che potrebbero far pensare a diagnosi psichiatriche vere e proprie, ma che sono in realtà o la conseguenza dello stigma, pregiudizio e discriminazione a cui queste persone sono costantemente esposte o processi normali e momentanei di sviluppo di una identità gay. A tal proposito, il clinico deve possedere la capacità di effettuare diagnosi differenziale. Molte persone LGBT, infatti, possono apparire come possedere sintomi qualificanti di determinate malattie mentali, ma in realtà questi sintomi sono legati non a questioni strutturali ma agli effetti legati alla soppressione della loro identità di genere o allo stadio del loro processo di coming-out. Per esempio, una vita passata a scindere, compartimentalizzare e nascondere la loro identità di genere può produrre comportamenti che possono far pensare al clinico a disturbi di personalità quale quello borderline. Questa scissione non è causata da un disturbo di personalità ma dal tentativo di adattarsi ad un ambiente pieno di contraddizioni in cui viene detto: “ti amo incondizionatamente, ma solo se sei eterosessuale”. Anni passati a nascondersi senza poter parlare con nessuno dei propri conflitti interiori possono portare le persone LGBT a sviluppare problemi di autostima, ritiro sociale, isolamento, depressione o al contrario ad adottare strategie compensatorie di natura grandiosa e narcisistica (Falco K., 1996) 

Inoltre, molti dei sintomi attribuiti alle persone LGBT vanno considerati come meccanismi di difesa più che sintomi. Esempi possono essere: sviluppare comportamenti narcisistici come modo di evitare la vergogna, o sintomi depressivi legati a movimenti psicologici di ritiro ed internalizzazione di messaggi negativi che arrivano dall’esterno (Kort J., 2018). 

A questo riguardo, è fondamentale conoscere le tappe del processo del coming-out ed i tipici comportamenti e processi psicologici caratterizzanti di ogni stadio. Questo permetterà al clinico di meglio comprendere il significato sottostante ai comportamenti dei loro pazienti ed evitare di stigmatizzare ed etichettare questi comportamenti come patologici ed anormali. Ad esempio, nello stadio 5 del processo di coming-out - in cui la persona comincia a sviluppare un profondo senso di orgoglio verso la propria identità di genere - alcune persone possono apparire bipolari, maniacali o narcisistiche in quanto si presentano con comportamenti, soprattutto sessuali, fuori controllo. Questa è solo una fase giustificata da anni di negazione della propria identità ed inibizione dei propri comportamenti e bisogni sessuali. Questa fase è solo passeggera e viene solitamente superata in poco tempo (Cass, V. C.,1979) 

Ciò dimostra come la capacità di effettuare diagnosi differenziale risulta essere fondamentale nel lavorare con questa popolazione. Si tratta di vera e propria psicopatologia (ed a volte ovviamente lo è) o è una reazione allo stigma ed allo stress del crescere omosessuale?  

 

COME COMINCIARE AD ESSERE TERAPEUTI AFFERMATIVI 

Alcuni importanti accorgimenti specifici che dovrebbero essere impiegati da un professionista della salute che vuole praticare in una maniera che sia affermativa per la comunità LGBT sono: essere in grado di offrire risorse specifiche per questi pazienti in termini per esempio di centri LGBT disponibili nell’area in cui il paziente si trova o essere in contatto con colleghi che praticano in una maniera simile in diversi campi della salute qualora il paziente necessitasse di un invio ad un medico di famiglia o altro specialista. Inoltre, il professionista dovrebbe essere in grado di utilizzare una terminologia accurata, corretta, rispettosa e non offensiva. Per esempio, molte persone LGBT utilizzano termini diversi per esprimere la loro identità di genere5 o espressione sessuale6. L’operatore della salute dovrebbe sempre chiedere al paziente cosa intende o come definisce quel termine e poi utilizzare lo stesso termine nella stessa maniera in cui il paziente lo definisce. Allo stesso modo, è opportuno che il clinico utilizzi i pronomi o nomi che il paziente attribuisce a sé stesso o alle persone a lui vicino e non confonda il concetto di sesso7 con il concetto di genere8. Sarebbe opportuno infine che il professionista cambiasse aspetti specifici nella propria pratica quali i moduli di accesso impiegati nella loro pratica pubblica o privata al fine di renderli inclusivi. 

 

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