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L’invidia tra banalità del male e follia. Una riflessione psicopatologica sull’omicidio di Lecce

2 Ott 20

Di cisat@centrostudiarteterapia.org, riccardopierodalleluche

Ho fatto una cavolata. So di aver sbagliato.  

Li ho uccisi perché erano troppo felici  

e per questo mi è montata la rabbia.”  

 

(l'omicida reo confesso, Antonio  De Marco, 21 anni, 

studente modello di scienze infermieristiche) 

 

 

Stando alle parole dette ancora a caldo dall'assassino, il movente dell’efferato omicidio del 21 settembre scorso, che nei progetti avrebbe dovuto avere connotazioni ulteriori di perfezionismo sadico, è l'invidia: la constatazione della felicità altrui sarebbe stato il motivo sufficiente per la realizzazione di un piano criminoso premeditato che, per motivi ancora non chiari, è andato solo parzialmente a buon fine, ovviamente dal punto di vista dell'assassino. 

L'invidia è un sentimento celato, mai realmente dichiarato, spesso solo inferibile, per questo sottovalutato come movente di azioni e comportamenti. In questo caso di cronaca è, invece, dichiarato, per questo, se ne potrebbe perfino dubitare, come movente, o considerarlo solo la superficie di dimensioni psicopatologiche più importanti: vedremo gli elementi che emergeranno nel proseguo delle indagini e degli interrogatori dell’omicida. Per il momento diamolo per buono e, riprendendo un nostro articolo dimenticato (Di Piazza e Dalle Luche, 2001), cerchiamo di offrire un contributo alla comprensione di questo delitto, riesaminando la fenomenologia e la struttura dell’invidia.  

 

1) L'invidia non è la gelosia, ma le due condizioni sono spesso confuse (anche in ambito giornalistico). Se la prima è frutto di una relazione duale (l'invidioso e l'invidiato), la seconda ha una struttura triadica (il geloso, la persona o la cosa di cui si è gelosi, il terzo – incomodo – che si è avvicinato/impossessato della persona o cosa di cui si è gelosi); la prima scaturisce dalla frustrazione nel constatare la mancanza (il più delle volte da sempre) di una qualità/bene/capacità che l'invidiato possiede, la gelosia invece da un vissuto di perdita (potenziale o già concretizzata) della persona a cui si era legati. Nella fattispecie del delitto, l'attacco invidioso si è rivolto esplicitamente non ad una proprietà del rivale, bensì alla “felicità” condivisa dalla coppia, dalla quale l’omicida è stato escluso con lo sfratto dall’appartamento e dal rifiuto alla sua richiesta di ritornarvi. L’espulsione sembra aver messo in risalto e reso più evidente l’infelicità nascosta di un giovane serio, isolato, solo. Nel caso di Lecce non si tratta quindi di gelosia per la ragazza, né di una invidia del pene tutta al maschile, bensì piuttosto di una mastodontica invidia della felicità di coppia, invidia del godimento direbbe forse Lacan, e per il luogo, l’appartamento, dove liberamente poteva realizzarsi.   

 

2 L'invidia appartiene a quelle esperienze matriciali psicologiche (come a ben vedere tutti gli altri peccati capitali, ira, lussuria, gola, avarizia…), che poggiano sugli strati pulsionali più primitivi. Tra tutti questi l'invidia non si manifesta con costanza, bensì con andamento carsico nel corso degli anni per poi, talora, rivelarsi in comportamenti eclatanti e delittuosi. Si tratta di un'emozione (nel latino ex movere si coglie la dimensione del movimento e della direzionalità eccentrica) che agisce da catalizzatore e da innesco per agiti che appaiono a ciel sereno “incomprensibili”, ma il cui senso può essere ricostruito a ritroso nel loro subdolo sviluppo psicologico. Il suo situarsi aldilà della dimostrazione scientifica e della medicina evidenziale, la escludono dai criteri nosologici e perfino psicopatologici. Così i CTU dei tribunali dovranno certificare anche in questo caso diagnosi generiche o artificiose per giustificare agiti in realtà sostanzialmente sostenuti da processi passionali e antropologici che con le malattie mentali in senso stretto intrattengono rapporti incerti e forse perfino non necessari.  

 

3 La vista è il senso privilegiato dell'invidia, lo sguardo la prerogativa dell'invidioso com’è evidente in tutta l’iconografia classica. Tuttavia l’etimologia “in-videre” ci propone un “non vedere”, un guardare con sospetto, malignamente. Vedere e non (voler) vedere. Lo sguardo dell’invidioso è caratterizzato da un continuo movimento di “va e vieni”, dove il primo consiste nella capacità di riconoscere nell’altro il possesso di qualità che non si hanno, mentre il “vieni” ha a che fare col guardare furtivo, il tentativo di sottrazione di quel bene, l’odio per il possessore che sarà placato solo dal suo soggiogamento (Di Piazza e Dalle Luche, 2001). Il riconoscimento delle risorse e dei successi dell'invidiato avviene con una capacità che non si limita alla superficie delle cose osservate col distacco fatalistico dell'oggettività, ma con una visione partecipata e, paradossalmente, fortemente empatica; il bene altrui, nel caso del delitto di Lecce, la gratificazione e la pienezza d'essere di una coppia di giovani innamorati, viene colto come bene sulla base di una percezione affettiva, sia pure di segno negativo, non certo mediante un ragionamento razionale. L'invidia è quindi per sua natura un sentimento fondamentalmente ambivalente: affermativo e negativo, empatico e partecipe, freddo ma anche passionale, desiderante ma anche distruttivo; da nascondere e di cui vergognarsi, ma anche potatore di orgoglio e autostima. Forse l'invidia profonda non può esserci se non in quei soggetti la cui strutturazione affettiva è connotata dall'ambivalenza o dall'ambiguità dei sentimenti (Dalle Luche e Bertacca, 2007), ad esempio personalità al contempo ipersensibili e insensibili, come è stato descritto classicamente nella letteratura sugli schizoidi minkowskiani o i sensitivi di Kretschmer e, nell'attualità, in alcuni dei tratti dei cosiddetti pazienti affetti da disturbi da spettro autistico ad alto funzionamento (Maggini e Dalle Luche, 2018). Quello che si invidia è qualcosa che non si può ricercare, perseguire, tentare di raggiungere e possedere legittimamente, ma qualcosa che non si ha né si potrà mai avere perché non è, strutturalmente, nelle possibilità del soggetto stesso. Nella fattispecie del caso di Lecce, probabilmente, la capacità di conquistare una bella ragazza, di amarla e darle amore caldo e univoco.  

 

4) Banalità del male o follia? Potrebbe aprirsi (ed in effetti si aprirà) un dibattito se l'omicidio di Lecce sia frutto di una mente folle e criminale oppure se, come siamo più propensi a pensare, dovremmo rassegnarci all'idea che nell'essere umano possano albergare sentimenti e emozioni che, per quanto riprovevoli, non per questo sono da considerarsi meno umani di quelli socialmente approvati, quali la generosità e l'altruismo. Se oggi siamo quelli che siamo, una quota parte della nostra evoluzione e del nostro progresso posa le propria fondamenta sul sangue, gli scheletri, i sotterfugi, i misfatti dei nostri predecessori. Certamente, alcuni aspetti dell'esperienza invidiosa potrebbero indurci ad accostarla ad un'esperienza paranoicale: il piano premeditato e punto per punto pianificato del duplice delitto di Lecce, compresa l'ipotesi di infliggere alle vittime una lenta tortura che potesse essere da monito per la collettività, richiama alla mente la grandiosità e l’etica abnorme del Vernichtungsplan di Ernst Wagner, il drammaturgo e sterminatore descritto da Cargnello (2011). Togliere il sorriso dal volto dei due sventurati fidanzati potrebbe essere stato considerato dall'omicida come un atto di giustizia per ristabilire una adeguatezza tra la (eccessiva) gioia da loro goduta e la (ingiusta) sfortuna e solitudine di un omicida non pienamente realizzato e gratificato di quanto fino ad allora raggiunto: come il paranoico, l'invidioso non può ritrovarsi sotto o alla pari, deve irrimediabilmente trovarsi sopra, in una posizione di superiorità. Lo anima l’onnipotenza paranoide sadica, ossessiva e perfezionistica che alimenta le opere del Marchese de Sade, quando ridicolizza alti prelati, aristocratici come pure virtuose fanciulle (e qui il cinema può venirci incontro, dal Salò-Sade di Pasolini fino al più recente The house that Jack built di Lars von Trier). 

 

Non appare possibile, tuttavia, ridurre inesorabilmente l'invidia alla paranoia: l'invidia infatti appare un'esperienza emotiva di base, riducibile solo ai proto-fenomeni elementari che la suscitano (presa d'atto delle proprie incolmabili mancanze, frustrazione incorreggibile, vissuti di rabbia, messa in atto distruttiva di chi possiede il bene che non si può avere), mentre la paranoia rappresenta lo sviluppo delirante che procede da esperienze o percezioni o convinzioni elementari che non hanno primariamente a che fare con l’invidia per il benessere altrui. Anzi, molti degli elaborati deliri del paranoico nascono proprio dalla convinzione di essere lui stesso così importante da suscitare invariabilmente, grazie al posizionamento megalomanico e autocentrico, l'attenzione e l'invidia degli altri. 

 

5) Invidiare, pur di esistere. Renée Girard (1998) acutamente indicava che “l'invidia testimonia una mancanza di essere che disonora l'invidioso” al punto che se l'invidioso non invidiasse, sarebbe meno di niente, un nulla: in effetti, l'invidiato offre all'invidioso l'opportunità e l'occasione per decentrarsi dalla desertificazione della propria interiorità e agire sul e contro il mondo, passare finalmente da soggetto assoggettato (sub-jectum), dalla visione in posizione passiva della fortuna altrui, a soggetto attivamente agente sul mondo anche se in modo distruttivo, finalmente sulla ribalta, sia pure per la grandezza dei propri demeriti. L’attacco invidioso, come il comportamento suicida, sono, come ha detto il reo confesso, “una cavolata” o, meglio, una soluzione illusoria, che se si potesse evitare, si rivelerebbe per quello che è: la trasformazione da una realtà di una sofferenza in “una gloria da stronzi”, per citare Guccini (1976), una pseudo-soluzione effimera e immaginaria di un conflitto irrisolvibile. Queste affinità strutturali nel passaggio tra psicologia e psicopatologia tra suicidio e attacco invidioso dimostrano che dietro ogni omicida c’è un potenziale suicida e che, comunque, le persone scomparse e perdute in questo atroce equivoco della mente umana di cui l’omicidio di Lecce è , ancora una volta, testimonianza, non sono solo i due giovani di cui si è celebrato il funerale. 

 

Riferimenti 

 

Cargnello D. (2011). Il caso Ernst Wagner. Lo sterminatore ed il drammaturgo. Roma: Giovanni Fioriti Editore 

Dalle Luche R., Bertacca S., L’ambivalenza e l’ambiguità nelle rotture affettive. Franco Angeli, 2007. 

Di Piazza G. e Dalle Luche R. (2001). Fenomenologia dell'invidia. Note preliminari. Psicoterapia 22-23: 129-133 

Girard R. (1998). William Shakespeare. Il Teatro dell'Invidia. Tr. it. a cura di G. Luciani. Milano: Adelphi Edizioni  

Guccini F., L’avvelenata (1976). 

Maggini C., Dalle Luche R., Genealogia della schizofrenia. Ebefrenia, Dementia Praecox, Neuroscienze. Milano: Mimesis, 2018. 

Pasolini PP (regia di), Salò e le 120 giornate di Sodoma (Ita, Fra, 1976) 

Trier L. v (regia di), The house that Jack built (La casa di Jack), (Dan, Ger, Fra, Sve, 2018) 

 

Società Italiana per la Psicopatologia Fenomenologica https://www.psicopatologiafenomenologica.org/ 

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