La psicoanalisi ha contribuito anch’essa, a suo modo, a destrutturare le certezze attraverso una critica alla pretesa di unicità dello psichismo e mostrano, al tempo stesso, la relatività della coscienza. Il concetto di inconscio è proprio ciò che relativizza l’Io il quale, come scrive Freud ne L’Io e l’Es, non è più padrone in casa propria.
Nell’era del declino delle certezze, tuttavia, la psicoanalisi si è assunta il compito di gestire la crisi del soggetto cercando in esso ciò che di più autentico è custodito nel suo profondo, con lo scopo, certamente ideale, di far emergere la verità soggettiva e, così facendo, di raggiungere una nuova e più piena unità del soggetto. Una riproposizione della massima del’oracolo delfico: conosci te stesso. Questa conoscenza è possibile solo assumendo che ciò che appare è in rapporto con ciò che è latente; ciò che si manifesta è una “deformazione” – non importa se si tratti di un sintomo o di uno sviluppo simbolico creativo– di ciò che alberga nell’inconscio passato, di per sé inconoscibile, ma comunque inferibile attraverso i suoi derivati (deformati) che giungono a manifestazione.
La psicoanalisi nasce dunque come una tecnica per indagare la verità privata che alberga nel soggetto e per far ciò essa deve procedere ad una decostruzione delle strutture manifeste. Queste costruzioni manifeste sono delle formazioni di compromesso che rappresentano le soluzioni migliori possibili della dinamica conflittuale fra desideri profondi, bisogni di adattamento e richieste del sistema culturale dominante.
Il punto importante di questa tecnica è che le strutture manifeste possono essere decifrabili ed interpretabili e comunque sono dotate di un significato conoscibile.
E’ solo in virtù di questo principio che i sintomi psicopatologici, come ogni altro fenomeno della vita psichica, non sono dei meri segni, ma possiedono un valore simbolico e comunicativo che rimanda alla verità privata del soggetto.
E’ evidente, dunque, che nella psicoanalisi la tecnica non mira a riparare, ad istruire o a rieducare, bensì cerca di dare un senso all’esperienza. Qui tocchiamo con mano l’abissale differenza che separa la psicoanalisi da altri approcci, come ad esempio i modelli cognitivi, i quali, oggi, nel dominio della tecnica, si presentano come la risposta più coerente con lo spirito del tempo.
Le trasformazioni culturali hanno inoltre inciso in modo sensibile sulla psicologia collettiva. La popolarità di interventi brevi e improntati a tecniche cognitive, rispondono all’esigenza di sbarazzarsi del dolore attraverso un processo di rieducazione e di correzione di false credenze, bypassando il confronto e l’analisi dell’interiorità. Il crescente consumo di psicofarmaci rende concreto questo bisogno di rimozione. Lo stesso vale per il vertiginoso aumento dell’assunzione di sostanze attraverso l’anestesia emotiva o la ricerca di stati edonici positivi e performanti. E’ evidente che queste “tecniche”, ovviamente non assimilabili, mirano ad evitare il confronto con la propria verità privata che costituisce la fonte della sofferenza.
In questo contesto culturale il ricorso alla psicoanalisi è diventato un fenomeno di “nicchia”. I pazienti scarseggiano, i trattamenti prolungati con più sedute settimanali sono sempre meno richiesti, i costi economici e di tempo sono spesso improponibili.
La psicoanalisi è dunque diventata una disciplina inattuale e questa è la prima ragione della sua crisi.
La seconda ragione della crisi è tutta interna al mondo psicoanalitico. Citerò, fra i tati, tre autorevoli contributi.
In un brillante articolo, Eric Kandel (1999), premio Nobel per le sue ricerche sul meccanismo della memoria, pur riconoscendo che la psicoanalisi, nel corso della prima metà del secolo scorso, ha contribuito a rivoluzionare il modo di comprendere la vita mentale, nella seconda metà essa sembra aver rinunciato ad evolvere sul piano scientifico. Più in particolare, “it has not developed objective methods for testing the exciting ideas it had formulated earlier. As a result, psycho-analysis enters the twenty-first century with its influence in decline.”
Ciò è tanto più deprecabile se è vero che, come scrive l’Autore, la psicoanalisi rappresenta ancora il più coerente e soddisfacente modo di intendere la dimensione mentale.
La psicoanalisi è nata senza dubbio con intenti scientifici, ma col passare dei decenni, sostiene Kandel, si è trasformata in una filosofia della mente, senza ponti referenziali con le scienze biologiche, con una grande enfasi sulla filosofia ermeneutica. Per tale ragione egli ritiene necessario un genuino dialogo fra la biologia e la psicoanalisi per raggiungere una comprensione coerente della vita mentale.
Quindi c’è un problema di “scientificità” all’interno di un complesso e variegato proliferare di modelli che non possono essere né validati né falsificati.
Johannes Cremerius (1987) mette in luce un altro tema critico, quello dei processi che hanno guidato la storia del movimento psicoanalitico. Il conflitto fra ciò che deve essere mantenuto e stabilizzato da un lato e la revisione critica di questo patrimonio dall’altro, è una preoccupazione che inquietava Freud già nel 1910 circa il futuro del suo lavoro. E’ qui che nasce l’ortodossia. Le dispute teoriche vengono risolte con espulsioni e scissioni. Lo sviluppo del movimento psicoanalitico è presto contaminato dal tema del potere. L’ortodossia, che dovrebbe costudire lo spirito autentico del metodo e delle scoperte psicoanalitiche, si organizza attraverso un sistema formativo standardizzato e tutto ciò che è fuori da ciò che è stato rigidamente codificato diventa semplicemente estraneo e nemico.
E’ evidente che quanto appena affermato non rende ragione della complessità degli sviluppi psicoanalitici, ma non vi è dubbio che la diffidenza, quando non una aperta ostilità, ancora alberga nelle società psicoanalitiche – salvo rare eccezioni, per la verità sempre più frequenti negli ultimi anni– nei confronti non solo di discipline differenti, ma anche all’interno dello stesso mondo psicoanalitico.
E’ evidente quanto e come questo atteggiamento mentale rappresenti un ostacolo per il dialogo e qianto, al tempo stesso, alimenti l’autorefernzialità.
Infine, Otto Kernberg (1996), che dell’International Psychoanalytical Association ne è stato presidente, scrive un importante articolo dal titolo "Thirty methods to destroy the creativity of psychoanalytic candidates" in cui denuncia le distorsioni formative all’interno degli istituti che finiscono col produrre analisti compiacenti e collusioni emozionali che ostacolano lo sviluppo di uno spirito critico che dovrebbe costituire la cifra qualificante della identità analitica.
Con molte, forse troppe, approssimazioni, si può convenire su quanto sino ad ora scritto su quelle che appaiono essere le ragioni attuali della crisi della psicoanalisi.
Posso, a questo punto, entrare nel merito del contributo di Romolo Rossi.
Perché rileggere Freud? E in che modo rileggerlo?
Partirò da un elemento formale, ma, a mio modo di vedere, rivelatore del senso del lavoro. Le 24 lezioni iniziano con il giovane Freud, agli albori degli anni ’80 del diciannovesimo secolo, e terminano con Psicologia delle masse e analisi dell’Io che è un testo del 1923, ma ben due terzi del testo coprono un arco di tempo che va dal 1981 al 1905. Cosa vuol dire questo? Mi sembra di poter dire che il senso della scelta e dell’organizzazione del materiale riflette un intendimento che privilegia il Freud ricercatore solitario, ancora lontano dalla costruzione dell’ortodossia, impegnato nell’impresa unica dell’auto-analisi, un esempio raro di creatività. Non che il Freud più tardivo dia prova di minore creatività. Basti pensare a testi fondamentali quali Introduzione al narcisismo del ‘14, Metapsicologia del ’15, Lutto e melanconia del ’17, l’Io e l’Es del ’22, La negazione del ’25, Inibizione, sintomo e angoscia del ’25, L’avvenire di un illusione del ’27, Il disagio della civiltà del ’29, fino agli ultimi grandi testi del ’37 Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni nell’analisi.
Insomma, una serie di testi che rifondano la psicoanalisi, illuminano la clinica e ampliano l’analisi del sociale.
Perché dunque l’enfasi è spostata sui primi due decenni dell’opera freudiana?
La risposta più semplice, e forse la più vera, è che in questo arco di tempo vengono gettate le basi della psicoanalisi e in quelle opere risiede il common ground del pensiero psicoanalitico, il fondamento comune a tutti gli sviluppi successivi.
Il nucleo concettuale comune ruota attorno ai seguenti principi:
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la parte più significativa della vita mentale è governata da processi inconsci motivati non solo dal principio di piacere-dispiacere, ma anche da forze motivazionali psico-biologiche (le pulsioni);
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il modello è fondato su una tri-ripartizione inconscio, preconscio e coscienza (prima topica);
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i fenomeni mentali sono espressione di forze in contrasto (psicodinamica) ed esprimono investimenti affettivi (principio economico);
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i conflitti sono ubiquitari;
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le esperienze infantili, in concorso con fattori genetici e costituzionali, costruiscono la vita mentale in una prospettiva evolutiva;
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la psicopatologia dell’adulto ha una stretto legame con la psicopatologia dell’età evolutiva;
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lo sviluppo mentale è un processo di progressiva soggettivazione;
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i disturbi mentali possono essere concettualizzati in termini di organizzazioni – consce ed inconsce- di pensieri, credenze ed affetti patogeni;
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i sintomi, come pure i comportamenti, sono formazioni di compromesso e svolgono funzioni multiple, cosce ed inconsce;
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il transfert è una delle fonti principali per la costruzione della relazione e la comprensione del funzionamento mentale del paziente; di converso, il controtransfert del terapeuta contribuisce a comprendere cosa il paziente induce in lui e negli altri.
Questo costituisce il terreno comune ad ogni modello psicoanalitico e le basi vengono definite nell’arco di tempo che va dal 1984 al 1905. Questo è il nucleo essenziale della psicoanalisi, sembra suggerirci Romolo Rossi, che ogni giovane specialista in psichiatria deve conoscere ed assimilare, anche se i suoi interessi muovono in altre direzioni: la mente è una funzione dominata da forze dinamiche e ciò che è manifesto, ciò che appare, ha un senso ed un significato decifrabile; i sintomi cessano di essere meri segni di una ipotetica malattia organica e quand’anche lo fossero, essi assumono, per il soggetto e per il suo contesto di convivenza, un significato simbolico che rimanda ad una verità soggettiva, narrativa e segreta, che va, nei limiti del possibile, compresa, ricostruita e restituita al soggetto medesimo.
Romolo Rossi ripercorre la genealogia dei concetti, quasi mettendosi nei panni di Freud, e cercando di comprendere, dall’interno, quali processi e problemi teorico-clinici lo abbiano indotto a proporre quelle specifiche soluzioni. E’ inoltre importante sottolineare come uno dei capisaldi metodologici della nascente disciplina sia stata l’autoanalisi.
Nel privilegiare il lavoro del primo Freud, il Freud della prima topica per intenderci, non c’è tuttavia solo l’obiettivo di mettere in luce il nucleo fondante della psicoanalisi comune a tutti i modelli successivi. Mi sembra di poter intravedere, almeno questa è la mia impressione, l’ammirazione di Rossi per il ricercatore che vuole fondare una scienza non separata dalla biologia.
Sin dagli inizi del suo lavoro, Freud mirava a fondare una disciplina coerente con i principi scientifici allora disponibili.
Il principio economico, ad esempio, cioè quell’assunto per il quale i fenomeni psichici sono caratterizzati da investimenti o disinvestimenti energetici, deriva chiaramente dalla concezione di von Helmholtz sulla conservazione dell’energia.
Freud preconizzava che un incremento delle conoscenze biologiche avrebbe consentito di dare una base empirica alle sue scoperte e riteneva che la psicoanalisi costituisse per molti aspetti “una mediazione fra biologia e psicologia” (Freud, 1913, p. 265).
Freud non ha mai abbandonato l’idea che la nevrosi abbia anche delle basi biologiche. Nella sua ultima grande riflessione Analisi terminabile e interminabile (1937), nel ricostruire la dinamica della nevrosi, egli parla di “forza costituzionale delle pulsioni”, di “rafforzamento delle pulsioni” nel corso di particolari fasi del ciclo vitale e di “alterazioni dell’Io”. Ma è tutta la sua opera ad essere costellata da riferimenti al biologico, pur riconoscendo che, al momento, non era possibile procedere oltre su questo terreno.
Non vi è dubbio che Freud, come osserva Romolo Rossi, avrebbe visto con favore lo sviluppo delle neuroscienze.
Anche se siamo ancora lontani dal possedere modelli biologici che diano una spiegazione esaustiva sulla natura dei processi mentali (processo primario e secondario, causalità psicologica e psicopatologia, esperienze precoci e predisposizione alle malattie mentali, rapporto fra corteccia pre-frontale e processi preconsci, modificazioni strutturali successive ad interventi psicoterapeutici e psicoanalitici, ecc.), un dialogo fra psicoanalisi e neuroscienze è già in atto.
Un ultimo aspetto mi sembra importante mettere in evidenza. Romolo Rossi non perde occasione per stabilire dei ponti concettuali fra la psicoanalisi e la psichiatria.
Non soltanto egli mostra come le intuizioni cliniche di Freud abbiano dei derivati (molto impoveriti) nella clinica psichiatrica contemporanea1, ma come, nella Lezione 19, riprendendo il saggio di Freud (1918) Vie della terapia psicoanalitica, viene preconizzata una riforma dell’assistenza sanitaria pubblica ispirata ai principi della psicoanalisi per poter trattare un maggior numero di pazienti di quanto non sia possibile fare con la tecnica psicoanalitica “pura”. Qualcosa di molto simile ai nostri centri di salute mentale.
Ma non è questo il punto che più mi preme sottolineare. Il tema che serpeggia in tutto il volume è la questione del rapporto fra psicoanalisi e psichiatria. E’ evidente che il testo di Romolo Rossi esprima l’idea che senza una cultura psicodinamica, senza ovviamente tralasciare altri apporti, la psichiatria diventa sterile. Ed io sono del tutto d’accordo, ma non possiamo sottacere il fatto che questo matrimonio non è stato mai davvero celebrato, neppure dove i servizi erano e sono diretti da psichiatri con formazione psicoanalitica.
Perché?
E’ noto che la psicoanalisi tradizionale non ha mai amato l’istituzione, anzi ha sempre mostrato diffidenza e refrattarietà rispetto a tutto ciò che viene vissuto come una contaminazione della propria identità, interpretata come un unicum che ha il diritto di reclamare uno statuto di “extraterritorialità”2.
Inoltre, la psicoanalisi tradizionale ha assunto col passare dei decenni una dimensione, direi, asociale i cui tratti dominanti sono la natura solitaria della professione, la centralità della dimensione duale della clinica, la struttura endogamica delle istituzioni psicoanalitiche, la refrattarietà al dialogo con le discipline affini.
Quindi, la psicoanalisi ha frenato questa integrazione per le sue problematiche intrinseche. Gli stessi psichiatri appartenenti alle istituzioni psicoanalitiche si trovano a vivere una doppia identità, una forma di dissociazione fra il lavoro del mattino e quello del pomeriggio.
Dal canto suo, la psichiatria non ha accolto, se non marginalmente, il pensiero psicoanalitico in quanto considerato non scientifico e non evidence based.
Romolo Rossi ci ricorda, invece, che Freud aveva un alto livello di coscienza sociale, come dimostra il saggio del 1918,appena citato. La storia della psicoanalisi testimonia inoltre innumerevoli esperienze pedagogiche e preventive sulla prima infanzia che hanno avuto un marcato impatto sociale.
Quale può essere allora il ruolo della psicoanalisi nella moderna organizzazione dei servizi psichiatrici?
Io, con molti altri colleghi, fra i quali Mario Perini innanzitutto (2007), individuo tre ambiti privilegiati che mi limiterò, in questa sede, ad una breve citazione.
Il primo ambito è lo studio psicoanalitico delle istituzioni, quello che Correale (1991) ha efficacemente rinominato il campo istituzionale, in altri termini la conoscenza delle dinamiche inconsce che regolano la vita e la funzionalità dei gruppi e delle organizzazioni. Tutto ciò ha un profondissimo impatto sul modo di trattare i pazienti.
Il secondo ambito riguarda la capacità del singolo operatore e delle équipe territoriali di leggere i fenomeni clinici e di essere in grado di introdurre elementi di pensiero al posto di agiti e di formulare dei progetti terapeutici integrati, basati sull’analisi dei bisogni latenti e non solo su quelli manifesti (Grispini, De Angelis, 1996), secondo l’insegnamento di Carlo Cesare Zapparoli (1988).
Il terzo ambito è considerare la psicoanalisi come una scienza sociale che può essere applicata come il modello di comprensione delle relazioni in qualsiasi contesto di convivenza, formale o informale, pubblico o privato, analizzando il modo in cui i membri simbolizzano i rapporti che si fondano su una collusione inconscia condivisa (Carli, 2020). E’ evidente che, nei contesti pubblici, il concetto di setting necessiti di un mutamento radicale, ma non per questo il modo di interpretare le relazioni e le sue crisi è meno psicoanalitico. In tal modo, la psicoanalisi esce dalla stanza e dalla dimensione duale per farsi scienza sociale.
Molte altre cose si potrebbero dire sul volume di Romolo Rossi, ma è difficile condensarle nello spazio di una recensione. Ciò che in ultimo vorrei mettere in luce è il suo stile accattivante, personale, antiriduzionistico, aperto alla cultura e all’arte. Tutto ciò ci ricorda che la psichiatria e la psicoanalisi possiedono un fondamento umanistico e non possono essere ridotte rispettivamente ad un modello medico e ad un modello puramente mentale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Carli R., (2020), Vedere, leggere, pensare emozioni, Franco Angeli, Milano.
Correale A. (1991), Il campo istituzionale, Borla, Roma.
Cremerius J. (1987), Alla ricerca di tracce perdute. Il “Movimento Psicoanalitico” e la miseria dell’istituzione psicoanalitica, tr. it., Psicoterapia e Scienze Umane, XXI. N. 3:3-34.
Freud S. (1913), L’interesse per la psicoanalisi, in Opere, vol. VII, Boringhieri, Torino.
Freud S. (1918), Vie della terapia psicoanalitica, in Opere, vo. IX, Boringhieri, Torino.
Freud S. (1937), Analisi terminabile e interminabile, in Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino.
Grispini A., De Angelis I. (1996), Valenze psicoterapeutiche dell'équipe nel trattamento dei pazienti schizofrenici, Prospettive Psicoanalitiche nel Lavoro Istituzionale, vol.14,n.3,323-337.
Kandel E, (1999), Biology and the Future of Psychoanalysis: A New Intellectual Framework for Psychiatry Revisited, Am. J. Psychiatry, 156:505–524.
Kernberg O. (1996), Thirty methods to destroy the creativity of psychoanalytic candidates, Int.J. Psycho-Anal, 77, 5: 1031-1040.
Perini M. (2007), L’organizzazione nascosta: dinamiche inconsce e zone d’ombra nelle moderne organizzazioni, Franco Angeli, Milano.
Severino E. (1979), Legge e caso, Adelphi, Milano.
Zapparoli G.C. (1988), La psichiatria oggi, Bollati Boringhieri, Torino.
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