Ai maestosi interrogativi di Nietzsche sulla vita aggiungo i miei più modesti sul sapere. Come può un filologo classico, di nome amante delle parole, arrivare a interrogarsi sulla nascita della tragedia greca dallo spirito della musica, arte senza parole? Quale genealogia nel suo pensiero? Pensava alla tragedia come all’indicibile? O al melodramma? Mistero tra vita e tragedia, che il riferimento ambiguo a Wagner infittisce. La psicanalisi parlerebbe di affetti vitali emergenti. E poi?
La psicanalisi è solita rispondere ai misteri. Per antica consuetudine ebraica lo fa di mestiere narrando storielle. (L’antico testamento ne offre uno zibaldone). La scienza tace. O meglio, “la voce dell’intelletto è bassa ma non si acquieta finché non ottiene ascolto”.[2] Si sa, le storielle mitologiche sono fatte per dare senso alla vita non per spiegarla. “O muthos deloi”, la favola mostra come va la vita, concludeva Esopo alla fine di ogni suo raccontino.
Allora lasciamo parricidio e castrazione in Berggasse, 19. Passiamo da rue de Lille, 5. Ingresso libero; non c’è portiere a fermarci. Saliamo al primo piano per alti gradini di legno lamentoso, mezzo giro di scala a chiocciola. La sala d’attesa è piena. “Venez, mon cher!” Il padrone di casa celebra i suoi misteri con garbo e riservatezza. Si sa, il rito coabita con il mito. Ecco lo spiraglio, la porta socchiusa dello studiolo dove l’analizzante si accoppia all’analista, una sveltina. Piacere o godimento? Plaisir ou jouissance? Lust oder Genuss? Sappiamo Nietzsche come rispose: Apollo o Dioniso; al primo l’arte figurativa, acquietante, al secondo la musica, eccitante. La nascita della tragedia, capolavoro giovanile del filosofo non ancora trentenne e non ancora accademico, sarebbe un testo sul godimento e la sua estinzione? L’interrogativo non è accademico ma psicanalitico. L’accademia censura questioni vitali, in particolare sul vitalismo, anche se senza dirlo lo pratica.
Trattando di godimento, quasi dimenticavo la scienza; facile su certi temi scabrosi, soggettivi come questo, cui la narrazione si adatta meglio delle dimostrazioni scientifiche. Su tutte domina la tediosa cronaca godereccia di De Sade, priva di spessore psicologico.[3]Nel racconto la presenza del soggetto si avverte attraverso la voce narrante, oggetto di un plus-godere fuori schema. Nel resoconto scientifico la presenza del soggetto è discreta; parla con la voce flebile dell’intelletto. Non dice “io”; sussurra “noi”; congettura; non afferma verità categoriche.
Chi scrive queste righe mal si adatta alla retorica narrativa. È identificato al proprio maestro che in mezzo secolo di professione raccontò l’unico caso clinico di una paranoica, passata all’atto, molto amata. Gli interessava altro: le simmetrie tra soggetto collettivo e individuale nei quattro discorsi che legano padrone, Università, isteria e analista. Capì che narrare casi clinici in ottica vitalista non racconta tutta la verità soggettiva. Bisogna rassegnarsi al mi-dire. La verità è femmina: non si racconta tutta, neppure in tribunale.
Allora decido di esporre la metà scientifica della mia verità, non molto vera ma neppure molto falsa, cioè congetturale. Eccone metà della metà.
Vitalismo o tragedia
Non sto proponendo mie riflessioni idiopatiche. Sul vitalismo Wikipedia la racconta come me:
"Il vitalismo ritiene che i fenomeni della vita, costituiti da una ‘forza’ p articolare, non siano riconducibili interamente a fenomeni chimici, e in particolare che vi sia una netta demarcazione tra organico e inorganico, che la vita sulla terra abbia avuto origine divina e non solo da un’evoluzione risalente a circa 3800 milioni di anni fa, come sostengono i biologi contemporanei.
Il vitalismo può essere anche inteso, nell’ottica nietzschiana e dannunziana, come esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come ricerca del godimento (dionisiaco), come celebrazione dell’istinto e di quella volontà di potenza che apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto.
In tale ottica l’evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo; darebbe anzi la conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude molti degli elementi tipici dell’estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica della vita, di accettazione tout courtdella vita, anche nei suoi aspetti più truci e sofferenti."
Sia come sia, il vitalismo è antico e ben attestato nella tradizione occidentale. Narrare la vita è la sua vocazione da oltre 25 secoli. L’epica di Omero inaugurò il topos del godimento letterario; è un genere consolidato, oggi meno epico e più romanzesco; ripropone i luoghi comuni delle passioni dell’anima, tuttora gettonati dalla retorica del dire il vero, soprattutto in filosofia. Il principio di ragion sufficiente innerva le pretese del realismo; a ogni effetto attribuisce la sua causa; fonda il vitalismo realistico dei fatti effetti delle cause (Nachfolge).
A proposito di realismo segnalo lo scotto che la cultura italiana, più della francese e dell’inglese, paga alla tedesca, per aver accolto il filone di pensiero idealista. In tedesco “realtà” si dice in due modi: Realität e Wirklichkeit. Freud usò il termine latino per la realtà psichica “interna”, il tedesco per la fisica “esterna”. Così credeva di distinguere tra dentro e fuori dall’Io come tra due geografie. Ignorava che interno ed esterno hanno topologie equivalenti, entrambi con punti interni, circondati da altri punti dell’insieme.[4] Pur vacua, la distinzione ha forte presa semantica; in psicologia distingue tra proiezione e introiezione; nella vulgata cognitiva, risalente al divino Platone, porta la scienza a riconoscere forme ideali interne alla realtà esterna alla caverna.
L’aggettivo wirklich è polisemico; significa “vero”, “reale”, “effettivo”. La Wirklichkeitè, quindi, la “realtà effettuale”, è vera e reale perché effetto di cause. Il tedesco convoca già nella lingua il principio di ragion sufficiente, base del discorso ontologico e della sua variante a servizio della salute, il discorso medico, dove ogni morbo ha un agente morboso alle spalle. Semplice, no? Non c’è il virus Sars-Cov2 come causa dell’attuale pandemia? (Per i negazionisti effettivamente non c’è.) In effetti, ridotta la scienza a storia che immagina catene di cause ed effetti, la mossa freudiana è realistica, pur con grande quota fantastica: nel romanzo edipico narra la verità materiale del soggetto, assoggettato al desiderio dell’altro. Il freudismo toccò il vertice letterario nell’Uomo Mosè e la religione monoteista (1938), vero thrillerche consacrò Freud come romanziere.[5] In medicina è pratica corrente; si chiama anamnesi; racconta gli antecedenti dello stato morboso, con sicure reminiscenze platoniche. Ha un difetto sistematico: ricorda i fattori eziologici presenti meglio degli assenti. Kahneman parla di pensieri veloci, che sorvolano su molti fattori; li contrappone ai lenti, che li considerano tutti.
Non è “veloce” la scienza di Galilei. Il Pisano non tratta cause immaginarie di effetti reali; descrive il moto a prescindere dalle cause note alla vita quotidiana; la sua scienza prescinde dal sapere della Lebenswelt (“il mondo della vita” di Husserl), regolato dall’intuizione immediata e dal suo supporto epistemico, cioè dall’ontologia dell’“essere nel mondo” (in der Welt sein di Heidegger). In assenza di forze che l’accelerino, il principio d’inerzia ammette il moto uniforme infinito, che nella vita quotidiana non esiste, quindi non è intuitivo. La psicanalisi ignora la semplificazione e la generalizzazione di Galilei.[6]In nome dell’antica razionalità Freud suppone una causa, la pulsione, per ogni effetto psichico. Il principio di ragion sufficiente è il motore della “vita interiore”, das Seelenleben, termine ricorrente ogni 20 pagine delle Sigmund Freud gesammelte Werke. Nel 1978 Moravia la narrò nell’omonimo romanzo, più sadiano che freudiano. La fenomenologia la ospita nella Lebenswelt, “il mondo della vita”.
Poiché già Aristotele lo paragonava all’artista o all’architetto,[7] non si può negare che il principio di ragion sufficiente abbia una connotazione antropomorfa, per non dire animista. Al cuore del vitalismo, presuppone un piccolo uomo dentro l’uomo, un homunculus diceva Goethe, che muove e trasforma il mondo: è la sua anima immortale. E perché non pensare all’homunculus dell’homunculus? Aporie vitaliste che Nietzsche condensa in Ecce Homo (1888), dove l’alternativa, Apollo o Dioniso, si traduce nell’interrogativo: Cristo o Dioniso? La risposta del Nostro fu di considerarsi il primo filosofo tragico, in grado di “trasporre l’elemento dionisiaco in pathos filosofico” (§ 3), colmo di saggezza tragica non pessimista.
La storia del vitalismo è lunga, come ho detto. Il pensiero occidentale esordì con il vitalismo degli ilozoisti, pensatori della materia vivente, ontologi ante litteram. L’acqua o l’etere, l’atomo o l’omeomeria, l’essere o il divenire, addirittura la mente o l’indefinito, erano i principi vitali pensati nella materia; ogni pensatore pensava l’uno che unificava il tutto. Per il niente e l’insieme vuoto c’era tempo. Lacan, che non mise mai a tema il vitalismo della propria dottrina del significante, supporto di morte prima che di vita, formulò en passant un’osservazione acuta sul larvato vitalismo della Gestalttheorie, affermando che si baserebbe sulla classica “nozione del tutto”[8] che diventa uno. Non è una novità; “il vero è l’intero”, ripeteva Hegel nella Fenomenologia, ispirato da Plotino. Nella teoria delle classi, gli insiemi propriamente detti sono totalità che si unificano come elementi di qualche classe; le altre sono classi proprie. Lacan classifica il femminile come totalità senza unità, “non tutta”.[9]
Socrate, grande e disatteso antimetafisico, stoppò la paccottiglia dei principi unificanti. Per Nietzsche, insieme all’amico Euripide, Socrate estinse lo spirito tragico in nome dell’intellettualismo moderno; alla tragedia sostituì la commedia. La maieutica socratica mise in scena la commedia della volontà d’ignoranza. Di fatto l’uomo non vuole sapere; non ha pulsione epistemofilica. Svelando l’autoinganno – “Credevi di sapere, invece…” – l’ironia socratica fa sorridere; l’ignoranza non è tragica; è comica.
Due anni prima del socraticidio, Sofocle fece dire a Edipo la verità del vitalismo, mé phynai: “Meglio non essere nati, ecco la cosa migliore, e se si nasce, tornare al più presto là da dove si è giunti”.[10] Freud colse il carattere vitalista dell’Edipo Re definendolo “tragedia di destino” (Schicksalstragödie),[11] in parallelo al “destino di malattia” (Krankheitsschicksal).[12] Il vitalismo si regge sul fatalismo, cioè sulla pulsione di morte, intuita un paio di decenni dopo. Fu intuizione felice? Depurato dagli aspetti mitologici di castrazione e parricidio, sintomi personali di Sigmund Freud, il suo Edipo enunciò la verità del vitalismo: la morte è la verità dell’essere. La tragedia dell’“essere per la morte” (zum Tode sein, Heidegger) è tutta qui: qualunque cosa sia, alla lunga la vita non sa vivere, ossia non regge sé stessa; tende ad autoespellersi. Nel linguaggio freudiano non esistono pulsioni di vita ma solo di morte. La vita si può solo perdere; è già morta sul nascere, come nel delirio secondo Cotard (1889), concettualmente vicino alla seconda topica freudiana ma ignoto a Freud e ignorato dai freudiani. I paradossi freudiani della negazione che non nega ma espelle il rimosso si innestano qui: nella tragedia di vivere. Freud non fu uomo di scienza ma un conquistador;[13] scoprì l’inconscio e ne sventolò la conquista nelle tragedie dei casi clinici che la psicanalisi tenta invano di convertire in commedie.
C’è un originario aspetto tragico del vivere che Euripide, alieno dal vitalismo, colse meglio di tanti da Sofocle a Nietzsche e Freud: l’infanticidio.[14] Esemplari per Euripide furono le figure di Medea e Agave, la strega e la regina. Medea uccise i figli avuti da Giasone non cooperante ai suoi piani criminali. Agave uccise il figlio Penteo, re di Tebe, colpevole di averne spiato l’eccesso di vita: le corse forsennate sul Citerone delle Baccanti in preda al godimento. Figura simmetrica a loro fu Fedra, suicida per amore del figliastro Ippolito. Nel VI libro delle Metamorfosi Ovidio narrò che Procne servì la testa del figlio in pasto al marito, stupratore della sorella. L’anoressia si radica nei miti dell’uccisione della prole per mano della madre, non del padre a opera del figlio. Abramo e Isacco sono simmetrici e capovolti rispetto a Edipo e Laio.
Euripide fu tanto lacaniano quanto Sofocle freudiano. Per lui il nucleo della tragedia del vivere non fu né l’incesto né il parricidio ma il godimento femminile, che neppure il fallo sa confinare tra le cosce, quasi non vi trovasse sufficiente posto, diceva Tiresia. Il godimento maschile è locale, apollineo, acquietante, direbbe Nietzsche; il femminile globale, dionisiaco, inquietante; dopo il coito l’uomo si addormenta, la donna è più sveglia di prima. Un godimento è ristretto e singolare, l’altro esteso e collettivo; per coordinarli occorrerebbe una pratica epistemica che sappia trattare l’infinito, come la matematica coordina il calcolo differenziale all’integrale, le tangenti alle aree. Lo intuirono i poeti dell’amor cortese: il femminile è un’area intangibile, dionisiaca, off limits. Insomma, con buona pace di Freud, il femminile non è anatomico; sfugge al principium individuationis apollineo, insiste a dire Nietzsche; dipende dalla differenza tra l’uno e i molti, tra il piccolo e il grande, tra il microscopico e il macroscopico, croce e delizia della fisica moderna. La differenza tra i due godimenti è immateriale ma non piccola; ripetutamente vi insistette nei suoi ultimi bagliori il lacan-pensiero, che distingueva tra godimento fallico e godimento dell’Altro.
Con Lacan, oltre Freud, intendo per godimento femminile ciò che va “al di là del principio di piacere”; è il trauma che supera il piacere individuale. Le donne se ne proteggono come possono; alcune ricorrono alle comuni inibizioni somatiche: dalla frigidità all’anoressia-bulimia, varianti del vaginismo, nel registro dell’invidia del pene; altre diventano femministe in un registro più consono ai parlanti e purtroppo più giustificato in realtà, la paranoia – la parlanoia. Gli uomini tagliano corto: credono di risolvere il problema sessuale passando all’atto, il femminicidio, violenza della pura volontà d’ignoranza. In modi diversi, uomini e donne svicolano dal godimento collettivo femminile.
Alle signore Dioniso offrì una soluzione di compromesso: l’eccesso bacchico, che tenta di circoscrivere e padroneggiare il godimento femminile; lo simula attraverso l’ebbrezza alcolica individuale, quella di Sileno, o l’agitazione psicomotoria collettiva, quella delle Baccanti, ben prima di aprire discoteche.
Antiche vestigia dionisiache si ritrovano nel fenomeno salentino del tarantismo, analizzato da Ernesto De Martino in Terra del rimorso (1959), intendendo il mitico morso della “bestia” femminile, la tarantola. È un esempio di godimento femminile – dionisiaco – alla cerniera isterica tra individuale e collettivo. Senza conoscerlo, Nietzsche sapeva la sua peculiarità: la costrizione del ritmo. Lo sanno anche i danzatori, le danzatrici e i praticanti di sport di squadra basati sul ritmo come il canottaggio. Dioniso sapeva che i movimenti sincroni collettivi attivano il sistema delle endorfine, mediatori chimici del piacere? Fondando la psicologia delle masse sull’identificazione individuale al direttore d’orchestra (al Dirigent), Freud, che non aveva orecchio per la musica, non lo sapeva.
La tragedia nella musica è il godimento collettivo transindividuale. Le prime alla Scala lo celebrano anche in assenza di pubblico, perché è un fatto “spirituale” prima che “materiale”. Il modello pandemico all’interfaccia tra individuale e collettivo, tra godimento fallico e dell’Altro, è la diffusione dell’AIDS. Il virus HIV trasmette un godimento non fallico, prettamente femminile, che non rientra negli schemi familiari della copula, tipicamente edipici. Lacan parlava di godimento dell’Altro, non sapendo dire di più; intendeva l’ineffabile godimento dei corpi, immediato, non mediato dal pene. In effetti, è difficile dire di più perché si tratta di un godimento non unificabile in un concetto, come quello sublimato dal fallo. Su di esso è bene che l’analista taccia. Il silenzio è un buon modo per fargli posto. Favete linguis!Parla la musica per dire qualcosa del “sapere nel reale” che decifra i nostri genomi e oggi ci parassita come ieri.
Uscire dal vitalismo? Basta un teorema
Si può? Sì, ed è auspicabile; il meccanicismo ci prova.
Ce n’è voluta, ma ce l’abbiamo fatta. Con buona pace di Nietzsche e di Freud siamo usciti dalla tragedia ed entrati nella commedia. Ringraziamo Galilei. Mi spiego, perché Galilei mi sembra trascurato dall’epistemologia corrente che riduce la scienza a tecnoscienza. Oggi, in tempi di pandemia, si sente parlare solo di comitati tecnico-scientifici, i CTS, formati da esperti o specialisti, non necessariamente uomini di scienza. L’accoppiamento tecnica-scienza è vitale per il collettivo: la tecnica trasferisce alla scienza un capitale di certezze che, trattando un oggetto non concettuale come l’infinito, la scienza non ha.[15] È sotto gli occhi di tutti: le applicazioni tecnologiche della meccanica quantistica, basate sui dettati della scuola di Copenhagen, sono più sicure dei suoi principi teorici. Per la stessa ragione le scuole di psicanalisi, da garanti delle tecniche psicoterapeutiche, prosperano a prescindere dai loro principi teorici in generale deboli, per non dire falsi. Dicono come si deve curare e controllano che l’allievo applichi i precetti. In pratica il problema della scientificità della psicanalisi è secondario. Non si va in analisi per motivi scientifici ma per raccontare i propri sintomi allo “specialista” che li tratta come si deve. Il principio è farmaceutico: se cura, va bene.
“Nel vuoto i corpi pesanti cadono tutti allo stesso modo”: gettati insieme da una torre, pesi diversi toccano terra allo stesso istante. Con questo teorema incredibile e rivoluzionario Galilei inaugurò la scienza moderna. Fu la mossa decisiva che indebolì il principio di ragion sufficiente. Non c’è la causa che fa cadere ogni corpo a modo suo, i più pesanti più in fretta dei leggeri, come opinava Aristotele, fondatore dello scire per causas. Ancora oggi in Italia, paese del diritto, diciamo “parlare con cognizione di causa” per dire la full knowledge degli inglesi. “Cadere allo stesso modo”, invece, è un discorso che accomuna tutti i pesi a prescindere dall’eziologia, cioè con una cognizione diversa dalla causa e dell’effetto. Oggi l’uomo di scienza pensa il reale come invariante nel campo della variabilità; considera l’eziologia superstizione e la relativa narrazione affabulazione.[16]
Al posto delle cause cosa viene?
Nel meccanicismo le interazioni di simmetria subentrano alle cause.[17]
Precisiamo. Galilei non inventò il meccanicismo; lo idearono gli antichi atomisti greci da Leucippo e Democrito in poi. Lo precisò bene Epicuro, l’inventore del clinamen, l’inclinazione che porta le particelle elementari a interagire tra loro. Galilei adottò la logica meccanicista contro la storicista ed eziologica dei vitalisti. Fu processato dall’Inquisizione non perché sospese la storia sacra ma la sacralità della storia. In parole povere? Le differenze tra vitalismo e meccanicismo sono di due ordini. Primo, il vitalismo è monovalente o singolare, il meccanicismo polivalente o plurale. Secondo, il vitalismo è eziologico, il meccanicismo interattivo. La differenza tra l’antico e il moderno passa tra l’uno e i molti, tra singolare e plurale, tra locale e globale.
Insomma, schematizzando drasticamente, nel vitalismo c’è una sola forza attiva in tutto e in tutti i fenomeni della vita; la forza vitale, bacchica come l’élan vitale di Bergson o apollinea come il Wille zur Macht di Nietzsche,[18] spiega tautologicamente la vita con la vita. Freud fu vitalista, ontologico in versione poetica; nella sua metapsicologia funzionava una sola energia psichica, la libido, quantitativa ma senza unità di misura, non metrica.[19] Quando lo slancio vitale o la volontà di potenza cessa di volere, c’è la morte; è la tragica conclusione del vitalismo, cui il Todestrieb inesorabilmente porta. La storia personale di Freud fu la paradossale conferma dell’uomo che fece carte false per morire di cancro… fallendo.[20]
Nel meccanicismo, invece, non c’è né vita né morte; esistono interazioni multiple tra componenti elementari; si va dagli urti tra molecole di gas alle collisioni di galassie nell’universo; in biologia, l’interazione è la cosiddetta – male – lotta per la vita tra specie nella stessa nicchia ecologica. Alcune mangiano, altre sono mangiate; le seconde sopravvivono se mangiate molto; allora i predatori diminuiscono per carenza di prede, che trovano più spazio per mangiare tranquillamente e ripartire. Nel meccanicismo la ripetizione non ha bisogno di cause specifiche per prodursi. La pulsione di morte esiste solo nell’immaginario (aristotelico) di Freud.
Nell’evoluzionismo darwiniano non c’è né tragedia né struggle for life, metafora antropomorfa incautamente adottata da Darwin nel suo “lungo ragionamento” (long argument [21]); c’è solo l’equilibrio oscillante (variabile) delle popolazioni componenti (sempre plurale) dei predatori e dei predati, regolato dal pacchetto di equazioni differenziali di Lotka-Volterra (1925-26). Deviazioni dall’equilibrio avvengono per mutazioni genetiche contingenti: possono avvenire e possono non avvenire con probabilità compresa tra 0 e 1, estremi esclusi.[22] L’evoluzione è improbabile; è un random walk, una“passeggiata casuale” non lineare e senza meta prefissata. Per Jay Gould, riavvolgendo e riproiettando il nastro della vita, non rivedremmo lo stesso film; molto (ma molto) probabilmente non rivedremmo Homo sapiens.
Nel meccanicismo le simmetrie sostituiscono le cause; tipicamente si danno interazioni tra particelle elementari, dove le reazioni sono uguali e contrarie alle azioni, cioè simmetriche. Localmente le cose sono semplici; globalmente si complicano: nasce il caos che si constata nei fenomeni imprevedibili di meteorologia, astronomia e finanza. Nel meccanicismo non c’è tragedia, perché non c’è né vita né morte, come dicevo, ma solo composizione e decomposizione, sintesi e analisi di unità elementari; l’eterna commedia dell’essere è variabile e meccanicista, quanto la tragedia è fissa e vitalista.
Ne va della verità della scienza. La verità della scienza antica era singolare, diacronica e certa, basata sul principio di ragion sufficiente che stabilisce l’effetto in modo univoco, data la causa, una prima, l’altro dopo, in una successione che può essere raccontata. Il tempo del racconto riproduce il tempo cronologico, pur ammettendo rovesciamenti locali. La filosofia idealistica garantiva che la verità narrativa fondasse la scienza, perché il falso non si poteva opinare.[23] Freud appese la verità metapsicologica a questo gancio; ebbe il chiodo fisso del determinismo, un “imperativo bisogno di causalità”[24] che gli assicurava verità certe e narrabili, lasciando l’incerta probabilità all’opinione.
La verità della scienza moderna, invece, è collettiva, sincronica e incerta perché congetturale. Mette a dura prova la possibilità di narrarla, per esempio per divulgarla. La scienza di Galilei non parte dalla verità del singolo fenomeno ma da congetture su eventi collettivi: la caduta dei gravi, la somma delle interazioni elementari tra miriadi di componenti elementari: le molecole di un gas, le galassie dell’universo, le specie di una nicchia ecologica, le operazioni finanziarie in borsa.
Il punto discriminante tra le due scienze è epistemico: la scienza antica non conosceva e non praticava la variabilità; la scienza moderna conosce e pratica la variabilità della res extensa cartesiana. Gli antichi greci e i latini non avevano neppure la parola per dire “variabile”. L’uomo di scienza moderno afferma che nel vuoto tutti i corpi pesanti cadono allo stesso modo, a prescindere dalla variabilità dei loro pesi, che ha accuratamente misurato. Il principio di relatività galileiano, che scrive allo stesso modo le leggi del moto in tutti i sistemi inerziali, cancella la variabilità presupponendola. Freud non fu uomo di scienza moderno. Nelle Sigmund Freud gesammelte Werke il termine Variable (sostantivo) ricorre una sola volta per indicare una variabile quantitativa,[25] solitamente detta Größe, “grandezza”.
Chi nel 1922 riconobbe lo statuto della verità della scienza moderna, statistica e declinata al plurale, simmetrica rispetto al cogito cartesiano coniugato al singolare, ponendola in limineal suoTractatus (1.1), fu Ludwig Wittgenstein: “Il mondo è il complesso dei dati di fatto (Tatsachen), non delle cose (Dinge)”. La transizione è decisiva: passa dall’ontologia delle “cose stesse” (zu den Sachen selbst) e dell’essere nel mondo (senza trattino!) all’epistemologia dei fatti riconosciuti, il cui quadro logico forma il pensiero. La scienza non parla più di adeguare il sapere all’oggetto. Lascia la pratica burocratica del fare scienza attraverso le cause – la vecchia ermeneutica – al cognitivismo e alla fenomenologia, ultimi eredi del vitalismo, insieme al freudismo.
C’è un tipico prodotto scientifico che si applica alla variabilità dei dati di fatto: il calcolo delle probabilità. Gli antichi giocavano a dadi, ma non sapevano calcolare le probabilità, perché non concepivano la variabilità. La nascita ufficiale del calcolo delle probabilità si fa risalire al carteggio tra Pascal e Fermat del 1654. Ma già da prima i giocatori d’azzardo sapevano di fatto molte cose su tale calcolo, per esempio che lanciando tre dadi è più facile fare 10 che 9, 11 che 12, pur essendo equinumerose le triplette di addendi tra 1 e 6 che sommano a 10 e 9 o a 11 e 12. Nel 1612 Galilei spiegò la ragione scientifica del fenomeno probabilistico; anticipò la nozione moderna di spazio campionario come spazio prodotto. Con tre dadi lo spazio campionario è un cubo; a ogni esito nel lancio dei dadi – da (1,1,1) a (6,6,6) i risultati possibili sono 6x6x6 = 216 – corrisponde un punto nel cubo dei campioni.[26] Lo spazio campionario codifica la variabilità dei fenomeni, che il fenomenologo non sa come pelare.
Cos’è il calcolo delle probabilità? È il modo inventato dal soggetto della scienza moderna per trattare l’incertezza dovuta alla variabilità del reale, quindi per pensare il pensabile. Nella certezza, tipicamente in metafisica, non c’è pensiero perché c’è esatto adeguamento dell’intelletto alla cosa. Il pensiero nasce dall’incertezza. Hai sentito un fruscio. Prima non pensavi; ora pensi a un aggressore o a un colpo di vento. Devi decidere sul tuo pensiero che è originariamente incerto, cioè falso. “Considerai pressoché falso tutto ciò che non fosse nulla di più che verosimile”,[27] scriveva Cartesio nel 1637, il primo a supporre un sapere nel reale, come dirà Lacan 337 anni dopo,[28] contro la volontà d'ignoranza di Platone, che riteneva inopinabile il falso.[29] No, il pensiero esiste, com’è vero che esiste il falso, il reale da pensare in probabilità.
La probabilità è il grado di certezza,[30]scrisse ma esitò a pubblicare la sua opinione Jakob Bernoulli: più è alto più si è certi, più è basso più si è incerti.[31] In pratica, il soggetto della scienza si trova davanti a un campo di variabilità, formato da un certo numero di possibilità logiche, rispetto alle quali è incerto: non sa quale si realizzerà. Il calcolo delle probabilità gli permette di fare alcune previsioni (non predizioni, da lasciare agli astrologhi, precisa De Finetti [32]), distribuendo l’incertezza tra le varie possibilità, come si distribuisce del liquido in diversi recipienti diversamente capienti. Così il soggetto della scienza, che è ignorante e sa di esserlo, prevede il valore medio, o atteso (anticamente detto speranza matematica), come baricentro della distribuzione, e la dispersione di risultati variabili, come momento d’inerzia o varianza. Il calcolo delle probabilità tratta in termini meccanici anche l’apparente indeterminismo. Evidentemente il meccanicismo del calcolo lo rende ostico al senso comune tuttora centrato sull’aristotelico principio di ragion sufficiente: ogni effetto una causa.
Nulla di tutto ciò nel sovradeterminismo freudiano, dove Wahrscheinlichkei tricorre solo nel senso di “verosimiglianza” (likelihood) mai di “probabilità” (chance).[33] Privo come gli antichi dell’algoritmo meccanicista, Freud non fece previsioni ma solo predizioni, arbitrarie anche se azzeccate, basate sugli stereotipi dell’Edipo e della castrazione. Così spiegava i sogni in termini di desiderio. Nel vitalismo la forza vitale colpisce alla cieca i singoli soggetti.[34] I latini attribuivano i suoi colpi a una femmina sadica, la dea Fortuna – un modo fortunato per nominare il desiderio dell’altro ignorandolo.
Ignorare la probabilità ha una giustificazione psicanalitica. Di base c’è il diffuso rifiuto dell’incertezza, che alimenta tutte le religioni. L’uomo pretende certezze; odia l’incertezza. Per la psicanalisi sull’incertezza ontologica circa l’essere si stratifica un secondo livello di incertezza epistemica. Corrisponde alla domanda: “È castrata mia madre?”. Come non si vuole sapere di questa incertezza – “No, la mamma non è castrata”, pensano il fratellino e la sorellina – così non si vuole sapere del calcolo delle probabilità che tratta l’incertezza. È la tipica debolezza del pensiero filosofico, fenomenologico in primis. Si vuole ignorare a ogni costo che l’incertezza è la madre del pensiero. Pur di non pensare ci si rifugia nella metafisica. Pur di costruire certezze incrollabili, non importa se fasulle, dalle metafisiche alle mitologiche, fisicamente incontrollabili, siamo pronti a falsificare il mondo. Affermiamo senza dimostrarle le più strampalate certezze, per lo più idealistiche, per dire la verità su tutto; ignoriamo i grandi teoremi di incompletezza sintattica e semantica per sistemi formalizzati, rispettivamente di Gödel e Tarski. Così, dopo quattro secoli, il calcolo delle incertezze, o delle probabilità, non rientra ancora nel senso comune, rimasto antropomorfo. Tuttora al lotto si giocano i numeri ritardatari. Mio padre, medico del XIX secolo, biasimava i colleghi per le loro diagnosi di probabilità.
Preso da questi filosofemi stavo per dimenticare un dettaglio non minore: il calcolo delle probabilità è coerente. Insegna a distribuire le probabilità tra diverse alternative – in genere in più modi – senza incorrere in scommesse uniformemente perdenti, in psicanalisi si direbbero masochiste. Basta poco: l’additività delle probabilità per eventi esclusivi ed esaustivi, ad esempio evento presente o assente con probabilità che sommano a 1.
Comincia la commedia, più umana che divina.
Mi ha sempre colpito una coincidenza. So bene che per la scienza le coincidenze valgono poco o nulla. Non ci credi? Fai la prova. Allinea in ordine casuale le 13 carte di picche sotto le 13 carte di cuori; se ripeti l’operazione un buon numero di volte, constaterai che quasi due volte su tre (nel 63,21% dei casi) si verifica almeno una concordanza di valori nello stesso posto. Non è poco; in regime casuale le concordanze non sono eventi rari; spiccano come “significative” nel contesto locale delle discordanze che sono di più: 12 su 13 nel caso di una sola concordanza, 11 su 13 nel caso di due sole concordanze ecc. Allora si dice erroneamente “non a caso”. È la distribuzione di Poisson con media e varianza unitarie, detta male “distribuzione degli eventi rari”, come la morte per calcio di cavallo nei reggimenti prussiani (Bortkiewicz,1898). Ce n’è abbastanza per dubitare della fondatezza di tutte le ermeneutiche, dal comune pensiero paranoico alla raffinata logica indiziaria di Sherlock Holmes.[35] Le concordanze tra i numeri sognati e quelli estratti al lotto sono di questo genere. Infelice mi sembra pure il tentativo di Jung di basare i nessi acausali sulla sincronicità, cioè sulla coincidenza temporale, nel senso di coincidenze “inverosimili per caso” (Zufallswahrscheinlichkeit); attribuire loro un senso (sinngemäße Koinzidenzen [36]) reintroduce la causalità della causa finale o telos, presupposto implicito di ogni vitalismo.
Tuttavia, quella di cui voglio parlare è una concordanza di rilevanza storica e culturale che – posso sbagliarmi – non mi sembra proprio casuale (zufällig). Lascio agli storici il gusto di giustificare il fenomeno.
Mi perdonino gli umanisti se dico che l’antichità classica, che vorrebbero far rivivere, fu un’epoca di beata ignoranza. Infatti, l’antico vitalismo non conobbe la scienza meccanicista, a eccezione della statica archimedea, basata sull’equilibrio della leva. La concordanza cui alludo è che l’antichità, oltre a ignorare la dinamica, inventata dal nostro Galilei,[37]non conobbe neppure il genere letterario del romanzo. I romanzi antichi si contano sulle dita di una mano: la Bibbia, l’Odissea,Gli amori pastorali di Dafni e Cloe, il Satyricon. Fin qui si tratta di coincidenza in absentia; almeno fino al XVI secolo, scienza e romanzo chiudono il primo tempo della partita zero a zero; brillano per la loro assenza. Passo subito al secondo tempo: alla coincidenza in praesentia, uno a uno. Le coppie (0,0) e (1,1) prefigurano una buona correlazione tra eventi, falsi positivi (0,1) e falsi negativi (1,0) permettendo.
In epoca moderna François Rabelais aprì le cataratte del genere romanzesco con Gargantua e Pantagruel (1532). Nel 1543, anno della sua morte, fu pubblicato il primo trattato scientifico, il De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico. Da allora scienza e romanzo procedono di conserva, a volte interferendo in romanzi di fantascienza. La scienza è oggi la Big science, anche se collettivamente non se ne vuole sapere più di tanto; si diffida della scienza per meglio negare la sua realtà “spiacevole”, per esempio, la pandemia o la castrazione materna. Uno su sei non vuole vaccinarsi al Covid, non meno sono LGBT. Se entri da Feltrinelli il primo libro in cui inciampi è l’ultimo premio Strega; la scienza, al primo piano, ha un solo scaffale tra libri per bambini e di cucina. Oggi in Italia “scrittore” significa “romanziere”, artista di verità narrative e di realtà romanzesche.
Pur trattando verità diverse – diacronica la narrativa, sincronica la scienza – è un caso, la coevoluzione di scienza e narrativa?
Ho argomenti per negare l’ipotesi zero, come gli statistici chiamano la correlazione casuale. Hanno un fattore comune: la variabilità. Le storie sono tante; le teorie scientifiche pure. L’Uno – il principio primo degli ilozoisti – fu un regresso concettuale rispetto alla precedente pluralità degli dei e dell’animismo: una semplificazione ingenua della variabilità del reale. Con la modernità l’impero dell’Uno, celebrato da Plotino nelle Enneadi (III sec. d.C.), va in soffitta. Nell’epoca moderna il reale non è singolare ma plurale; è il variabile; sotto i suoi colpi la fissità e l’unicità dell’essere va a rotoli. I suoi frammenti sono argomenti per narrazioni romanzesche o analisi scientifiche. Patetico l’ultimo Lacan che mormorava la giaculatoria filosofica y’a d’l’Un, “c’è dell’Uno”. Sì, c’era una volta dell’Uno; oggi la favola filosofica dell’Uno – per cui la vita va presa con filosofia – va in frantumi. “Dio è morto”. Lacan chiamava “significanti” i suoi frammenti – significanti del parricidio – senza riconoscerne la variabilità.
In gioco c’è la doppia variabilità dei soggetti e degli oggetti: da una parte l’intensione, o l’approfondimento soggettivo, dall’altra l’estensione, o l’ampliamento oggettivo.[38] Qualità e quantità sono i rispettivi argomenti della letteratura filosofica (e psicanalitica) e delle scienze. Li accomuna la variabilità, che la letteratura “descrive”, la scienza “analizza”. Sul versante scientifico segnalo un titolo esemplare, le 900 pagine di La variazione degli animali allo stato domestico di Charles Darwin (1868-1875). Da leggere e meditare per la portata delle sue congetture, ad esempio genetiche (oggi si direbbero epigenetiche), false ma feconde di meno false.
Nella scienza moderna non c’è più il protagonista unico: l’essere che è; sono protagonisti diversi saperi che interagiscono tra loro nei diversi soggetti, tra predatore e predato come tra analista e analizzante; nei romanzi i protagonisti agiscono in contesti drammatici diversi; le storie narrate avvengono all’insegna di una combinatoria molto varia. Non c’è il fallimento tragico dell’unica vita; c’è un arcobaleno di vite che interagiscono variamente tra loro. Il vertice del romanzesco è il grande romanzo storico – I miserabili, Guerra e pace o I promessi sposi – che contende alla scienza il dominio sul plurale e sul collettivo. Insomma, il rischio di annoiarsi nella modernità non c’è. La Recherche o L’Uomo senza qualità ne sono gli interminabili e ineguagliabili documentari. Dal canto loro le scienze moderne sognano di unificarsi; ancora oggi non si sa se sia più vera la relatività di Einstein o la meccanica quantistica della scuola di Copenhagen; se avesse ragione Darwin o Lamarck, oggi rilanciato dall’epigenetica. Non parliamo della pluralità delle psicanalisi nelle loro scuole.
Concludo con un’osservazione riguardante proprio la cosmologia.
La scienza antica era la storia; era, ed è rimasta, la storia di soggetti individuali, se collettivi drasticamente individualizzati come nazioni, classi sociali e confraternite varie. La storia è essenzialmente ontologica; dice l’essere che è nel singolo caso, individuale o collettivo, e come evolve passando dalle cause prime alle ultime. Presuppone il principio incontrovertibile di ragion sufficiente per cui esistono cause che determinano un solo e ben preciso effetto. Si chiama determinismo. È lui il protagonista della scienza antica e della propaggine freudiana: il singolo essere, individualizzato e storicamente inscenato. Lo storicismo arrivò fino al mio liceo, che mi scodellò l’idealismo oscurantista di Benedetto Croce: la storia senza variabilità come unica e vera scienza dei singoli soggetti (quasi come la clinica psicanalitica che scrive casi clinici come novelle).
Nella scienza moderna il paradigma della singolarità si frantuma. La storia non ce la fa a seguire il destino dei singoli pezzi. Tuttavia oggi, da George Gamow in poi, “genio senza Nobel” (1934), la scienza torna a cimentarsi con la storia. La cosmologia prova a ricostruire l’evoluzione dopo il Big Bang non di una singola individualità ma di una popolazione di dieci all’ottantesima potenza particelle elementari dotate di massa – 1 seguito da ottanta 0; oggi sono organizzate in duemila miliardi di galassie (o più?), che formano ammassi e super-ammassi di galassie, distribuiti in un reticolo universale.
Quando si dice variabilità, si parla di una res molto extensa!
C’è riuscita la scienza moderna – la res cogitans– a dominarla dopo Cartesio? Non si sa. Il romanzo o la commedia della scienza galileiana non ha ancora scritto la parola fine. Il sipario non è ancora calato. Possiamo continuare la visione ancora per un bel po’, per i 750 milioni di anni prima che il sole ci arrostisca. Non è un film tragico, a volte è solo un po’ comico; non fa ridere ma sorridere, quando sbugiarda certi maestri d’ignoranza [39] un po’ (molto) vecchiotti.
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