“Noi siamo un dialogo”, dice Giovanni Stanghellini, nel libro edito da Raffaello Cortina dove, tra antropologia, psicopatologia e cura, si discorre dell’umano, si affronta l’umano, ci si interroga e si cerca di rispondere alla domanda su che cosa sia un essere umano. Il libro era stato originariamente scritto in inglese e pubblicato da Oxford University Press con il titolo “Lost in Dialogue”, ma evidentemente ha meritato una seconda scrittura e una seconda lettura, poiché i temi trattati, tutti rigorosamente illustrati con nettezza argomentativa e chiarezza d’analisi, riguardano la parte essenziale e cruciale di tutti noi.
Ovviamente si parte, onorando il titolo, con il primato della relazione, del principio dialogico, del rapporto Io-Tu, ma sono le pagine sulle emozioni, sulla persona stretta tra umori e affetti, a prenderci, come l’anatomia del riconoscimento, il bisogno fondamentale di riconoscimento. Dopo la domanda su che cosa sia un essere umano, la seconda riguarda la patologia mentale. Che cos’è? Che cos’è un sintomo? Qual è la verità sul sintomo? Che cosa rappresentano l’esistenza melancolica, quella borderline o quella schizofrenica? E la terapia, terza domanda, che cos’è la terapia? Entrare nella terza parte del volume vuol dire comprendere che le prime due sono importanti, ma la terza è fondamentale. Siamo tutti in attesa della terza, dell’empatia, della storia di vita personale, poiché abbiamo tanto sperato e continuiamo a sperare che ci sia il modo per uscire dai problemi, per avviarli a soluzione, per andare oltre l’umana sofferenza dopo averle dato un nome. Ma nessuno si salva da solo.
Scrive Stanghellini: “Noi viviamo un’esistenza traumatica, macchiata dall’esperienza tragica del nostro mancato incontro con l’Altro. Il trauma non è meramente un accidente che ha luogo in un passato remoto, un episodio della nostra vita che non può essere appropriato nella nostra identità narrativa e rimane senza un’iscrizione semantica, relegato nel nostro inconscio dinamico. Il trauma è parte integrante della nostra esistenza quotidiana, un’esperienza che viviamo che è un tutt’uno con il nostro bisogno e desiderio di stabilire relazioni”.
La responsabilità del clinico, in quanto clinico e “in quanto cittadini formati per confrontarci con la vulnerabilità umana” è di sviluppare virtù speciali. Continua l’autore: “Come cittadini ideali, dovremmo avere la capacità di concepire che cosa si prova a trovarsi nei panni di una persona diversa da noi, essere lettori intelligenti della storia di quella persona e comprenderne le emozioni e i desideri. Dovremmo possedere anche l’abilità di preoccuparci della vita degli altri, di immaginare una varietà di questioni complesse riguardanti la storia di una vita umana nel suo corso e di comprendere le storie umane non solo come aggregati di dati”.
La ricca bibliografia rende conto di un libro vasto, articolato, scritto da un professionista attento al bisogno dell’altro, pronto a incontrarlo essendosi formato sul metodo fenomenologico, “basato sulla più alta forma di attività filosofica chiamata ‘dialettica’, l’arte della discussione conversazionale”.
Ovviamente si parte, onorando il titolo, con il primato della relazione, del principio dialogico, del rapporto Io-Tu, ma sono le pagine sulle emozioni, sulla persona stretta tra umori e affetti, a prenderci, come l’anatomia del riconoscimento, il bisogno fondamentale di riconoscimento. Dopo la domanda su che cosa sia un essere umano, la seconda riguarda la patologia mentale. Che cos’è? Che cos’è un sintomo? Qual è la verità sul sintomo? Che cosa rappresentano l’esistenza melancolica, quella borderline o quella schizofrenica? E la terapia, terza domanda, che cos’è la terapia? Entrare nella terza parte del volume vuol dire comprendere che le prime due sono importanti, ma la terza è fondamentale. Siamo tutti in attesa della terza, dell’empatia, della storia di vita personale, poiché abbiamo tanto sperato e continuiamo a sperare che ci sia il modo per uscire dai problemi, per avviarli a soluzione, per andare oltre l’umana sofferenza dopo averle dato un nome. Ma nessuno si salva da solo.
Scrive Stanghellini: “Noi viviamo un’esistenza traumatica, macchiata dall’esperienza tragica del nostro mancato incontro con l’Altro. Il trauma non è meramente un accidente che ha luogo in un passato remoto, un episodio della nostra vita che non può essere appropriato nella nostra identità narrativa e rimane senza un’iscrizione semantica, relegato nel nostro inconscio dinamico. Il trauma è parte integrante della nostra esistenza quotidiana, un’esperienza che viviamo che è un tutt’uno con il nostro bisogno e desiderio di stabilire relazioni”.
La responsabilità del clinico, in quanto clinico e “in quanto cittadini formati per confrontarci con la vulnerabilità umana” è di sviluppare virtù speciali. Continua l’autore: “Come cittadini ideali, dovremmo avere la capacità di concepire che cosa si prova a trovarsi nei panni di una persona diversa da noi, essere lettori intelligenti della storia di quella persona e comprenderne le emozioni e i desideri. Dovremmo possedere anche l’abilità di preoccuparci della vita degli altri, di immaginare una varietà di questioni complesse riguardanti la storia di una vita umana nel suo corso e di comprendere le storie umane non solo come aggregati di dati”.
La ricca bibliografia rende conto di un libro vasto, articolato, scritto da un professionista attento al bisogno dell’altro, pronto a incontrarlo essendosi formato sul metodo fenomenologico, “basato sulla più alta forma di attività filosofica chiamata ‘dialettica’, l’arte della discussione conversazionale”.
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