PSICHIATRIA E RAZZISMI
Storie e documenti
di Luigi Benevelli

Il diritto alla Salute Mentale Il diritto alla Salute Mentale di tutti i popoli degli Stati Uniti d’America come questione di Sanità Pubblica – il rapporto del Surgeon General (2)

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1 aprile, 2021 - 09:28
di Luigi Benevelli
Premessa:
Il Surgeon General (Chirurgo Generale) è il “medico della Nazione”, autorità sanitaria del Governo Federale istituita  nel 1871; il Presidente USA ne nomina i vertici al suo insediamento. Dal 1953 il Surgeon General  fa parte del Department of Health and Human Sciences.  Il Surgeon General degli Stati Uniti è alla guida del Servizio per la Salute Pubblica (U.S. Public Health Service Commissioned Corps)  ed  ha il mandato di proteggere, promuovere, far progredire la salute e la sicurezza della Nazione attraverso azioni quali:
  •  raggiungere i cittadini dove vivono e lavorano con l’informazione scientifica più aggiornata disponibile
  •  sollecitare Governo, Economia, Legislazione e le risorse della comunità ad affrontare problemi di salute pubblica
  •  elevare la consapevolezza che le minacce alla salute possono portare alla rapidità di risposta e alla resilienza delle comunità militari delle Forze Armate
  •  stimolare iniziative in tutta la Nazione mettendo a punto programmi di promozione della salute pubblica e di prevenzione delle malattie quali dipendenze patologiche, cancro della pelle, importanza dell’attività fisica e motoria, corretta alimentazione, violenza, suicidi
  •  sviluppare strategie per il progresso della scienza della salute pubblica
  •  fornire quadri dirigenti alla Salute Pubblica.

 

Quello del Surgeon General è un servizio in divisa e, per legge, il Surgeon General detiene il grado di vice - ammiraglio. La rivista ufficiale è Public Health Report (PHR) edita dal 1878.
 Nel 1999, presidente Bill Clinton al suo secondo mandato, il Surgeon General  David Satcher presentò un rapporto nel quale, per la prima volta nella storia del suo Ufficio, una struttura federale, si riconosceva la gravità delle disparità circa l’uso, la disponibilità, l’accesso, la qualità dei servizi per la salute mentale, la fiducia negli stessi da parte di singoli e comunità. Da tale denuncia nacque il Supplemento Mental HealthCulture, Race and ethnicityA supplement to Mental Health: a Report of the Surgeon General, pubblicato nel 2001.
 
Capitolo 2[1]:
Il Capitolo 2, dedicato all’importanza e all’influenza delle culture sugli ambiti della salute e delle malattie mentali illustra i criteri adottati nell’analisi della situazione in cui versano le etnie che popolano gli USA, secondo i dati disponibili.
Il Supplemento  fa propria la nosografia del DSM IV, il Manuale Diagnostico dell’American Psychiatric Association, per il quale le culture bound syndromes  rappresenterebbero delle eccezioni  rispetto alla “universalità” delle malattie mentali lì codificate. Si afferma che non è ancora definitivamente stabilito se le culture bound syndromes  siano qualcosa di distinto dalle malattie mentali vere e proprie o se ne siano della variazioni o se le une e le altre rispecchino i diversi modi con cui ambiente sociale e cultura interagiscono con i geni nel modellare la malattia.
L’assunto di base è comunque che le culture di riferimento pesano, in particolare condizionando:
  • Il fatto che la persona con problema chieda o meno aiuto
  • i sintomi presentati (ad esempio somatizzazioni piuttosto che vissuti emozionali) e quale tipo di aiuto si chieda
  • Il modo con cui la persona con problema affronta  le difficoltà e su quali sostegni sociali può contare
  • Il peso dello stigma legato alla malattia mentale
  • Il significato che la persona attribuisce al proprio disturbo, se sia una malattia vera o immaginaria, del corpo o della mente
Assai importanti, per le loro culture, non solo etniche, ma soprattutto professionali, sono poi gli operatori, in quanto portatori anch’essi di pregiudizi e stereotipi, ed anche i Servizi per i loro riferimenti scientifici (negli USA la Scienza Medica Occidentale) e per come sono organizzati, finanziati (dimensione politico-legale-amministrativa).
Le incomprensioni, i fraintendimenti culturali fra pazienti e curanti, i pregiudizi dei clinici, la frammentazione dei servizi per la salute mentale ostacolano le minoranze etniche ad accedervi, utilizzarli e compromettono le possibilità di ricevere trattamenti efficaci.
 I fattori culturali e sociali contribuiscono a causare malattie mentali con gradi di incidenza diversi, da etnia ad etnia, che saranno minori se prevalgono fattori biologici (ad esempio schizofrenia, disturbo bipolare), maggiori, ad esempio nella depressione.
 
È  sottolineato come povertà, violenze subìte e altri contesti stressanti di vita quotidiana  colpiscano maggiormente le minoranze razziali ed etniche, anche in relazione alle vicende politico-sociali del paese di origine(v. profughi da Asia, Centro-America), così aumentando l’esposizione al disagio e alla sofferenza mentali.
Importante è il peso del PTSD ( una patologia dovuta all’esposizione a guerre, genocidi, torture, violenze) per lo sviluppo di sintomi di lunga durata associati a cambiamenti nella biologia (Reduci, Ispanici, Asiatici).
Il tasso dei suicidi è più alto per gli Indiani Americani  e i Nativi dell’Alaska.
Negli USA circa il 20% della popolazione degli adulti e dei bambini  soffrirebbe di disturbi mentali  e non ci sarebbero differenze fra minoranze etniche e maggioranza.
Quanto ai fattori famigliari, molti aspetti della vita della famiglia hanno attinenza con la salute e la malattia mentali, a partire dai contesti (povertà, relazioni violente, sovraffollamento, svantaggio sociale, abusi sessuali su minori ecc.). Fattori di rischio e protettivi variano nei diversi gruppi etnici, ma le ricerche non sono riuscite a dimostrare se le variazioni entro un gruppo etnico siano risultato della sua cultura o della classe sociale di appartenenza o delle relazioni con la società nel suo complesso o di caratteri individuali.
Resta il fatto che le minoranze etniche USA soffrono un carico di patologie più alto della maggioranza  dei Bianchi come mostrano i dati di aspettative di vita più basse, più malattie cardiovascolari, cancro, mortalità infantile, asma, diabete, abuso di sostanze che danno dipendenza, malattie trasmesse per via sessuale.
Da considerare anche i modi con cui le persone affrontano le difficoltà nella vita quotidiana: ad esempio gli Asiatici preferiscono evitare di manifestare troppo emozioni e sentimenti; gli Afro Americani  sono attivi nell’affrontare i problemi personali e grande è l’importanza della dimensione spirituale (religiosa).
Questi tratti impattano sui servizi sanitari che operano secondo la medicina scientifica occidentale, un corpus di saperi e tecniche che gode di grandissimi prestigio. In tale contesto i servizi per la salute mentale si rifanno ai pilastri della psichiatria biologica e delle psicoterapie nelle loro varie declinazioni che pongono grande enfasi sulla qualità della comunicazione soprattutto verbale fra curante e paziente. E qui è molto alto il rischio di fraintendimenti espliciti o nascosti, di mancata comprensione della situazione quando non si parla o non si possiede pienamente la stessa lingua, con la conseguenza di errori nelle diagnosi , nei trattamenti e di una cattiva compliance.
Fino al razzismo[2] istituzionale (al cui riguardo è citato il caso della Virginia che alla fine dell’800 aprì un manicomio per soli pazienti afroamericani), rispetto ai coetanei bianchi, i giovani pazienti afroamericani  hanno quattro volte di più la possibilità di essere legati a parità di  comportamenti aggressivi (pregiudizio di pericolosità); eccesso di diagnosi di schizofrenia.
Per una grande quantità di ragioni quindi  varia la ricerca delle cure, vale a dire i percorsi che il soggetto (accompagnato o meno dalla sua famiglia) compie una volta che ha riconosciuto di avere un problema di salute: alcuni gruppi minoritari rimandano nel tempo finché i sintomi non diventano gravi; altri preferiscono rivolgersi al sistema della cure primarie o a preti o a guaritori tradizionali; vi è chi preferisce avere un curante della propria etnia; chi teme l’ospedalizzazione.
 Si devono considerare anche  gli assetti dei servizi sanitari, la varietà dei contesti dell’assistenza primaria pubblica e privata, di quella specialistica istituzionale o comunitaria, i cambiamenti intervenuti nelle politiche, nei riferimenti culturali e nell’articolazione dei servizi.
Finché può il paziente sceglie i trattamenti e i contesti, ma non sempre può essere raggiunto quello che il paziente/utente preferirebbe per la rilevanza di fattori come i costi, la disponibilità o meno di coperture assicurative, l’entità delle stesse.  È riportato il dato del 1996, anno in cui negli USA poco più della metà della spesa per la salute mentale è stata pubblica, il 27% coperta da assicurazioni private; il 17% dalla famiglia.  
Problemi e limiti si registrano anche nei trials clinici: per la metà di quelli censiti non è riportata alcuna indicazione circa l’etnia dei soggetti; il 7% riporta la dizione “non-bianco”;  in tutti i trials che riportano i dati dell’appartenenza etnica,  sono rappresentate solo poche minoranze; nessun studio ha preso in considerazione l’efficacia del trattamento, etnia per etnia. Stesse le considerazioni  riguardanti  la validazione dei trattamenti psicoterapici. Siamo di fronte quindi all’enorme problema della mancanza di studi per la messa a punto di trattamenti efficaci secondo età, sesso, etnia, cultura,  che riguarda  tutta l’area della ricerca nel campo della salute mentale. Per questo nel 1993 il Congresso ha istituito il National Institute of Health’s Office on Research on Minority Health.
I servizi per la salute mentale hanno vissuto grandi cambiamenti a partire dagli anni ’60, anche i rapporto all’affermarsi dei movimenti per i diritti civili ed è cresciuta la consapevolezza dei limiti delle culture, delle pratiche  professionali tradizionali alla luce dell’assunto che un elemento chiave del successo terapeutico è la capacità dei curanti di  cogliere e rispettare l’identità culturale, i sostegni sociali e affettivi, il grado di autostima. Sono andati prevalendo approcci fondati principalmente su valori umanitari, intuizioni, sensibilità, ma vanno ricercate le evidenze, sempre tenendo conto che al centro c’è la persona, l’individuo e che bisogna avere grande attenzione agli stereotipi.
Il paragrafo  dedicato a “Razzismo, discriminazioni e salute mentale” si apre con un elenco del susseguirsi dei provvedimenti  discriminatori nella storia degli  USA:
  • Lo schiavismo dei neri, antenati di gran parte degli attuali afroamericani, a partire dal XVII” secolo;
  • L’Indian  Removal  Act del 1830 con il quale i nativi furono cacciati  dalle loro terre, rinchiusi in riserve e lasciati soli senza risorse e opportunità economiche;
  • Il Chinese Exclusion Act del 1882 che pose un blocco all’immigrazione cinese, negò la cittadinanza ai cinesi nati e residenti. La legge è stata abrogata nel 1952.
  • Circa 100.000 giapponesi furono internati durante la seconda Guerra Mondiale
  • I Messicani degli Stati USA del Sud-Ovest, Portoricani, Isolani del Pacifico sono diventati americani per conquista, non per scelta personale.
Per dire che nella storia degli Stati Uniti le discriminazioni per legge di minoranze etniche sono state la regola più che l’eccezione.
Razzismo e discriminazioni sono agenti fortemente stressanti e danneggiano la salute mentale di chi li subisce attraverso:
  • L’interiorizzazione di stereotipi e immagini negative, svalorizzanti, abbassando l’autostima e compromettendo il buon funzionamento sociale e psicologico;
  • La marginalizzazione sociale, la povertà, la precarietà  delle condizioni di vita quotidiane,  la disoccupazione, l’esposizione a violenza, crimine e altri fattori di stress.
Questi  elementi vanno evidentemente correlati e rapportati a culture, eventi di vita, credenze, comportamenti, spiritualità.
I gruppi etnici non sono al loro interno omogenei , vi sono diversità anche dentro di loro: Asiatici e Isolani del Pacifico appartengono a 43 sottogruppi che parlano più di 100 lingue; più di 500 sono le tribù dei Nativi dell’Alaska; i Neri non sono solo discendenti degli schiavi, ma anche africani, caraibici, sud-americani. Sono tutti in forte crescita demografica rispetto ai Bianchi.
 
Queste le conclusioni del capitolo al termine della rassegna e della discussione dei dati disponibili dalla letteratura:
  1. La cultura influenza molti aspetti delle malattie mentali, compreso il modo con cui i pazienti di una determinata cultura  manifestano e comunicano i sintomi, lo stile con cui fanno loro fronte, i sostegni della famiglia e della comunità, la disponibilità a cercare aiuto e trattamenti. Altrettanto le culture dei medici e del sistema dei servizi per la  salute mentale incidono su diagnosi, trattamenti, erogazione dei servizi. I fattori culturali e sociali non sono i soli a influire sulle malattie mentali e i modi di uso dei servizi da parte delle minoranze razziali ed etniche, ma svolgono comunque un ruolo importante.
  2. Le malattie mentali sono molto diffuse in tutta la popolazione, razze ed etnie. I fattori sociali e culturali  entrano nella causalità delle malattie mentali, ma con pesi diversi a seconda dei disturbi. Le malattie mentali sono ritenute prodotti di complesse interazioni fra fattori biologici, psicologici, sociali e culturali, ciascuno dei quali ha un ruolo diverso, più forte o più debole, secondo la patologia specifica.
  3. Negli Stati Uniti i dati generali sul peso dei disturbi mentali  nelle minoranze e nei Bianchi sono assai simili. Tale conclusione non riguarda i sottogruppi più vulnerabili e con grandi bisogni  complessivi che hanno percentuali più alte, anche se spesso non rilevate nelle indagini  di  comunità. Le conoscenze complessive disponibili sui disturbi mentali di molti dei gruppi  più piccoli- specie Indiani Americani e Nativi dell’Alaska, Asiatici Americani e isolani del Pacifico non sono sufficienti a consentire conclusioni definitive.
  4. Le minoranze razziali ed etniche che vivono negli  Stati Uniti  devono misurarsi con contesti di grandi disuguaglianze economiche e sociali, che riguardano anche esposizione a razzismo e discriminazioni,  violenza, indigenza, fattori ciascuno dei quali  pesa sulla salute mentale. La povertà è l’elemento più misurabile nel suo impatto sulla salute mentale. Le persone che appartengono agli strati sociali più deprivati per reddito, scolarità, occupazione rischiano di avere un disturbo mentale due volte tante rispetto a chi appartiene ai ceti più in alto.
  5. Razzismo e discriminazioni sono fattori di grande stress  che condizionano salute e patologie mentali; espongono le minoranze a rischio di depressione ed ansia. È meno chiaro quanto razzismo e discriminazioni  possano essere causa diretta di queste patologie. Al riguardo sono necessarie nuove ricerche.
  6. Lo stigma è di ostacolo per  importanti segmenti della popolazione, sia maggioranza che minoranze, più per le minoranze che per i Bianchi, per la ricerca di aiuto e trattamenti per  fare fronte alle malattie mentali.
  7. La diffidenza e la sfiducia nei servizi di salute mentale sono fra i fattori più importanti a demotivare le minoranze nella ricerca delle cure. Le loro preoccupazioni trovano conferma  diretta e indiretta nei pregiudizi  e negli stereotipi dei clinici.
  8. Le culture delle minoranze etniche e razziali  richiedono modifiche ai modelli dei servizi di salute mentale che usano. Le incomprensioni  e i problemi di comunicazione fra pazienti e curanti possono ostacolare l’uso dei servizi e la possibilità di ricevere buone cure da parte delle minoranze.
 
 
 

[1] Culture counts: the influence of culture and society on mental health, mental illness, pp. 25-49.
[2] Nel Supplemento per “razzismo” si intendono credenze, abiti  mentali e pratiche che colpiscono pesantemente singoli o gruppi in ragione di caratteristiche fenotipiche  o della collocazione in gruppi etnici e che condizionano, intenzionalmente o meno, l’azione di istituzioni e/o individui.  (nota 3, pag. 32)

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