L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTA - TERZO SAGGIO - SECONDA PARTE, 1938 (Traduzione di Antonello Sciacchitano)
Sigmund Freud, Der Mann Moses und die monotheistische Religion
in Sigmund Freud gesammelte Werke, vol. XVI, p. 210.
(Traduzione di Antonello Sciacchitano)
Terzo saggio
Mosè, il suo popolo e la religione monoteista
Seconda parte
Ricapitolazione e ripetizione
La seguente parte di questo studio non può essere pubblicata senza estesi chiarimenti e giustificazioni. Infatti, non è altro che la ripetizione fedele, spesso parola per parola, della prima parte, abbreviata in certe analisi critiche e accresciuta da aggiunte al problema di come il particolare carattere del popolo ebraico sia emerso. So che tal modo di presentare le cose è tanto poco appropriato quanto poco elegante. Lo disapprovo senza limiti anch’io.
Perché non l’ho evitato? Non mi è difficile trovare la risposta, ma non è facile confessarla. Non ero in grado di cancellare le tracce della storia davvero insolita dell’origine di questo lavoro.
In realtà, è stato scritto due volte. La prima alcuni anni fa a Vienna, dove non credevo di poterlo di pubblicare. Decisi di lasciarlo da parte, ma mi tormentava, come un fantasma non redento; trovai la via d’uscita nel farne due parti indipendenti, pubblicando sulla nostra rivista “Imago” l’esordio psicoanalitico del tutto (Mosè egizio) e la costruzione storica fondata su di esso (Se Mosè era egizio...). Il resto, contenente cose veramente scandalose e pericolose, cioè l’applicazione alla genesi del monoteismo e la concezione generale della religione, decisi di tenerlo per me, così pensavo, per sempre. Poi, nel marzo 1938, giunse inaspettata l’invasione tedesca, che mi costrinse a lasciare la mia patria, ma mi liberò anche dalla preoccupazione di pubblicare il mio testo, evocando la proibizione della psicanalisi in un paese dov’era ancora tollerata.
Appena giunto in Inghilterra, ebbi l’irresistibile tentazione di rendere accessibile al mondo la mia sapienza repressa, e cominciai a rielaborare la terza parte del mio studio annesso alle due già apparse. A ciò era naturalmente collegato il parziale riordino del materiale. Ora, non riuscii a collocare l'intero materiale in questa seconda rielaborazione; d’altra parte non potei decidermi a rinunciare del tutto al testo precedente, e fu così che decisi di annettere immutato un intero brano della prima stesura alla seconda, con il connesso svantaggio di ripetermi abbondantemente.
Ora, potrei consolarmi considerando che le cose di cui tratto sono ad ogni modo talmente nuove e importanti, a prescindere dalla correttezza della mia presentazione, che non può essere una sciagura se il pubblico è obbligato a leggerle due volte. Ci sono cose che devono essere dette più d’una volta e che nessuno dirà mai abbastanza. Ma dev’essere il lettore a decidere liberamente se indugiare sull’argomento o ritornarvi. Non è lecito proporgli nello stesso libro, con un artificio, la stessa cosa due volte. Resta una goffaggine da biasimare l’autore. La cui capacità creativa non va sempre di pari passo con la sua volontà; il lavoro riesce come può, e spesso si pone dinanzi all’autore come cosa indipendente, persino estranea.
A. Il popolo d’Israele
È chiaro che procedere come noi, accettando ciò che ci sembra utilizzabile del materiale tramandato, rigettando ciò che non ci serve, e mettendo insieme i singoli pezzi secondo la verosimiglianza psicologica – è chiaro, dicevo, che simile tecnica non dà alcuna certezza di trovare la verità; allora è ragionevole chiedersi perché mai intraprendere un lavoro del genere. La risposta si appella al risultato. Mitigando molto il rigore richiesto all’indagine storico-psicologica, sarà forse possibile chiarire problemi che sono sempre apparsi degni di attenzione e che a causa di recenti avvenimenti s’impongono di nuovo all’osservatore. Si sa che di tutti i popoli che nell’antichità abitarono intorno al bacino mediterraneo, il popolo ebraico è quasi l’unico che ancora oggi esista di nome e di fatto. Ha affrontato sventure e maltrattamenti con una capacità di resistenza senza pari; ha sviluppato particolari lati del suo carattere, guadagnandosi inoltre la cordiale avversione di tutti gli altri popoli. Vorremmo capire di più da dove venga agli ebrei tanta vitalità e come il loro carattere si connetta al loro destino.
Si può partire da una caratteristica degli ebrei che domina il loro rapporto con gli altri. Non c’è dubbio che abbiano un’opinione di sé particolarmente elevata, e si considerino distinti, superiori, sovrastanti gli altri, da cui sono separati anche in molti dei loro costumi.1 Al tempo stesso, sono animati da una particolare fiducia nella vita, che deriva loro dal segreto possesso di un bene prezioso, una sorta di ottimismo: i devoti direbbero fiducia in Dio.
Conosciamo il fondamento di questo comportamento e sappiamo quale ne sia il tesoro segreto: si considerano davvero il popolo eletto da Dio; credono di essergli particolarmente vicini e ciò li rende fieri e sicuri. Secondo buone fonti, già ai tempi dell’ellenismo si comportavano come oggi; già allora l’ebreo era fatto e finito; i greci, in mezzo e accanto ai quali viveva, reagivano alla singolarità ebraica allo stesso modo dei popoli “ospiti” di oggi. Reagivano, si potrebbe pensare, come se anche loro credessero al privilegio che il popolo d’Israele pretendeva per sé. Quando si è beniamini dichiarati del padre temuto, non stupisce se i fratelli sono gelosi; dove tale gelosia possa condurre, lo mostra molto bene la leggenda di Giuseppe e i suoi fratelli. Poi Il corso della storia mondiale sembrò giustificare l’infondata pretesa ebraica, poiché, quando piacque a Dio mandare all’umanità un messia e un redentore, fu scelto di nuovo tra il popolo ebraico. Gli altri popoli avrebbero allora avuto motivo per dirsi: “Avevano realmente ragione; sono loro il popolo eletto da Dio”. Invece accadde il contrario: la redenzione per mezzo di Gesù Cristo rinforzò solo l’odio contro di loro, mentre gli ebrei non trassero alcun vantaggio dall’essere stati preferiti la seconda volta, non avendo riconosciuto il redentore.
In base alle nostre precedenti discussioni, ora possiamo affermare che fu l’uomo Mosè a imprimere nel popolo ebraico questo tratto importante per il futuro. Ne accrebbe il senso di sé, assicurandolo di essere il popolo eletto da Dio; lo consacrò e lo obbligò a distinguersi dagli altri. Non che agli altri popoli mancasse il senso di sé. Allora come oggi ogni nazione si considerava migliore di ogni altra. Ma con Mosè il senso di sé degli ebrei mise radici nella religione e divenne parte della loro fede religiosa. Grazie alla relazione particolarmente intima con il loro Dio, gli ebrei ottennero parte della sua grandiosità. Considerando che dietro il Dio che aveva prescelto gli ebrei e li aveva liberati dagli egizi c’era la persona di Mosè, il quale aveva fatto proprio questo nel suo presunto incarico, osiamo dire che l’uomo Mosè creò gli ebrei. A lui questo popolo deve la sua estrema tenacia ma anche molta dell’ostilità che ha incontrato e tuttora incontra.
B. Il grand’uomo
Come fa un uomo solo a sviluppare un’azione così straordinariamente efficace da formare un popolo da individui e famiglie qualsiasi, forgiandone il carattere definitivo e determinandone il destino per millenni? Supporlo non è forse ricadere in quel modo di pensare che ha fatto sorgere i miti del creatore e il culto degli eroi, ricadendo ai tempi in cui la storia scritta si riduceva a narrare le imprese e le vicende di singoli dominatori o conquistatori? La tendenza moderna è piuttosto di ricondurre gli avvenimenti della storia dell’umanità a fattori nascosti, generali e impersonali, all’influsso determinante dei rapporti economici, al cambiamento di regime alimentare, ai progressi nell’uso di materiali e strumenti, alle migrazioni dovute all’aumento della popolazione e ai mutamenti climatici. Il ruolo riservato agli individui è di esponenti o rappresentanti di tendenze collettive, che dovettero comunque trovare un’espressione e la trovarono in loro, per lo più per caso.
Sono punti di vista perfettamente legittimi; ci danno l’occasione per soffermarci sulla significativa discrepanza tra l’atteggiamento del nostro organo di pensiero e l’ordinamento del mondo, da cogliere grazie ad esso. Al nostro imperativo bisogno di causalità basta però che ogni evento abbia una causa dimostrabile. Ma non è così nella realtà fuori di noi; piuttosto ogni evento appare sovradeterminato, cioè effetto di più cause concomitanti. Spaventata dall’indomita complessità degli eventi, la nostra ricerca prende partito per un nesso piuttosto che per un altro, ed enuncia opposizioni inesistenti ma emergenti solo lacerando relazioni più comprensive.2 Così, se l’esame di un certo caso dimostra l’influsso prevalente di un’unica personalità, non occorre che la nostra coscienza ci rimproveri di aver osato sfidare con tale ipotesi la dottrina dell’importanza dei fattori generali e impersonali. Di fondo c’è posto per entrambe. Tuttavia, nella genesi del monoteismo, oltre alla già menzionata sua connessione con il prodursi di relazioni più intime tra nazioni differenti e il costruirsi di un grande impero, non possiamo rifarci ad altri fattori esterni.
Noi riserviamo dunque al “grand’uomo” il suo posto nella catena o meglio nel reticolo causale. Ma forse non sarà del tutto inutile chiedersi a quali condizioni gli conferiamo questo titolo onorifico. Ci sorprende che non sia affatto facile rispondere a questa domanda. Una prima formulazione: “Lo facciamo quando un uomo possiede in misura eccezionalmente elevata qualità che apprezziamo molto”, è chiaramente inadeguata in tutti i sensi. La bellezza, per esempio, e la forza fisica, per quanto invidiabili, non danno diritto alla “grandezza”. Devono dunque essere qualità spirituali, meriti psichici e intellettuali. A questo riguardo, viene spontanea la riflessione che un uomo straordinariamente esperto in un determinato campo, non può per questo essere senz’altro detto grand’uomo: certo, non un maestro di scacchi o un virtuoso di uno strumento musicale, ma forse neppure un eccellente artista o scienziato. In questi casi viene da dire che è un gran poeta, pittore, matematico o fisico, un precursore nel campo di questa o quell’attività, ma non diremmo grand’uomo. Quando, per esempio, dichiariamo senza esitare grandi uomini Goethe, Leonardo da Vinci e Beethoven, ci deve muovere altro che l’ammirazione per le loro grandi creazioni. Se non c’imbattessimo proprio in esempi del genere, finiremmo verosimilmente per pensare che il termine “grand’uomo” spetti di preferenza a uomini d’azione, a conquistatori, condottieri, dominatori, riconoscendo la grandezza delle loro imprese e la forza degli effetti da loro suscitati. Ma anche questo è insoddisfacente ed è del tutto contraddetto dalla nostra condanna di tanti personaggi indegni, cui non si può contestare di aver prodotto effetti su contemporanei e posteri. Nemmeno si può scegliere il successo come contrassegno della grandezza, se si pensa alla maggioranza di grandi uomini che, invece di avere successo, finirono in sventura.
Così, per ora siamo inclini a decidere che non val la pena cercare un contenuto univoco del concetto di “grand’uomo”. È solo un riconoscimento, usato in modo vago e attribuito in modo piuttosto arbitrario, dello sviluppo in grande di certe qualità umane in qualche modo prossime al significato originario della parola “grandezza”. Possiamo anche ricordare che non ci interessa tanto l’essenza del grand’uomo, quanto la questione del modo con cui produce effetti sul prossimo. Tuttavia, abbrevieremo il più possibile questo esame, che minaccia di condurci lontano dalla nostra meta.
Ammettiamo dunque come valido che il grand’uomo influenzi il prossimo per due vie: con la sua personalità o con l’idea per cui s’impegna, che può mettere in rilievo un’antica configurazione di desiderio delle masse o indicare loro una nuova meta di desiderio o ammaliarle in qualche altro modo. Talora – e questo è certo il caso originario – la personalità è efficace di per sé e l’idea ha un ruolo del tutto irrilevante. Perché in generale il grand’uomo debba arrivare a tanta importanza non ci risulta oscuro neppure per un istante. Sappiamo che nella massa degli uomini c’è gran bisogno di un’autorità da poter ammirare, cui inchinarsi, da cui essere dominati, eventualmente anche maltrattati. Dalla psicologia dell’individuo abbiamo appreso da dove provenga questo bisogno della massa. È la nostalgia infantile insita in ognuno di noi del padre, che l’eroe della leggenda si gloria d’aver vinto. E ora possiamo chiarirci le idee: tutte le qualità di cui dotiamo il grand’uomo sono caratteristiche paterne; in questa concordanza consiste l’essenza del grand’uomo invano da noi cercata. La fermezza dei pensieri, la forza di volontà, l’impeto dell’azione appartengono all’immagine paterna, ma più di tutto vi appartengono l’autonomia e l’indipendenza del grand’uomo, la sua divina noncuranza che può crescere fino a mancare di ogni riguardo. Si deve ammirarlo, è consentita la fiducia in lui, ma non si può fare a meno anche di temerlo. Avremmo dovuto lasciarci guidare letteralmente dal testo: chi altri nell’infanzia deve essere stato il “grand’uomo” se non il padre!
Senza dubbio fu un potente modello paterno, che nella persona di Mosè si chinò verso i poveri ebrei delle corvée, assicurandoli che erano suoi figli amati. E non meno travolgente dovette essere l’effetto esercitato sugli ebrei dalla rappresentazione di un Dio unico, eterno, onnipotente, che non disdegnava di contrarre con loro, umili com’erano, un patto, e che prometteva di aver cura di loro se restavano fedeli al suo culto. Verosimilmente non fu facile per loro scindere l’immagine dell’uomo Mosè da quella del suo Dio, e videro giusto, essendo possibile che Mosè abbia introdotto certi tratti della propria persona, come l’irascibilità e l’inesorabilità, nel carattere del suo Dio. E quando poi un giorno uccisero il loro grand’uomo, non fecero che ripetere un misfatto che nella preistoria si era regolarmente rivolto contro il re divino e che, come sappiamo, risaliva a un modello ancora più antico.3
Se da un Iato la figura del grand’uomo si è per noi accresciuta fino alla divina, dall’altro è ora di ricordare che una volta anche il padre era stato bambino. La grande idea religiosa sostenuta dall’uomo Mosè non gli apparteneva; l’aveva ripresa da Akehnaton, suo re. A sua volta questi, la cui grandezza di fondatore religioso è provata al di là d’ogni dubbio, aveva forse seguito stimoli giunti a lui mediati dalla madre o per altre vie, da regioni più o meno lontane dell’Asia.
Non possiamo seguire oltre la concatenazione, ma se questi primi tratti sono stati correttamente riconosciuti, l’idea monoteistica ritornò come un boomerang alla terra d’origine. Sembra quindi sterile pretendere di stabilire il merito di un singolo nel constatare una nuova idea. Chiaramente molti hanno cooperato al suo sviluppo e le hanno conferito qualcosa. D’altronde sarebbe chiaramente scorretto interrompere a Mosè la catena delle cause e trascurare ciò che fecero i suoi successori e prosecutori, i profeti ebrei. In Egitto il seme del monoteismo non aveva attecchito. Lo stesso sarebbe potuto accadere in Israele, quando il popolo si scrollò di dosso la gravosa ed esigente religione. Ma dal popolo ebraico si levarono sempre uomini che vivificarono la tradizione languente, che rinnovarono gli ammonimenti e le richieste di Mosè e non si arrestarono finché non si ristabilì quanto andò perduto. Secoli di sforzi e infine due grandi riforme, una prima e l’altra dopo l’esilio babilonese, compirono la trasformazione del dio popolare Yahweh nel dio che Mosè aveva imposto agli ebrei di adorare. La prova di una particolare attitudine psichica nella massa che divenne il popolo ebraico, è aver potuto suscitare tanti uomini pronti a prendere su di sé il carico della religione di Mosè, attratti dalla ricompensa di essere gli eletti e forse anche da altri premi di pari livello.
C. Il progresso nella spiritualità
Per ottenere effetti psichici duraturi in un popolo, chiaramente non basta assicurargli di essere stato eletto dalla divinità. Se deve crederci e trarre conseguenze dalla fede, bisogna anche provarglielo in un modo o nell’altro. Nella religione mosaica l’esodo dall’Egitto servì da prova; Dio, o Mosè in suo nome, non si stancò mai di richiamarsi a questa dimostrazione di benevolenza. La Pasqua [ebraica] fu introdotta per fissare il ricordo di questo evento, o meglio, in un’antica festa fu travasato il contenuto di tale ricordo. Ma era pur sempre solo un ricordo, e l’esodo apparteneva a un passato sfocato. Nel presente i segni del favore divino erano davvero scarsi; le sorti del popolo indicavano piuttosto il suo sfavore. I popoli primitivi usavano deporre i loro dei o persino castigarli, quando non facevano il loro dovere di garantire la vittoria, la felicità e gli agi. In ogni epoca i re furono trattati in modo non diverso dagli dei; si mostra qui un’antica identità, la provenienza da una radice comune. Anche i popoli moderni usano scacciare i loro re, quando lo splendore del loro regno è offuscato da sconfitte che provocano perdite in territorio e ricchezza. Perché invece il popolo d'Israele rimase attaccato al suo Dio, in modo tanto più sottomesso quanto più ne era maltrattato, è un problema che per ora va lasciato da parte.
Può però stimolarci a indagare se la religione mosaica non abbia portato al popolo qualcos’altro oltre all’aumento del senso di sé grazie alla coscienza dell’elezione. In realtà è facile trovare il fattore successivo. La religione portò agli ebrei anche una rappresentazione molto più grandiosa di Dio o, per dirla in modo più sobrio, la rappresentazione di un Dio più grandioso. Chi credeva in questo Dio era reso partecipe in certo qual modo della sua grandezza e poteva sentirsi innalzato. Per il non credente ciò può non essere del tutto ovvio, ma forse si capisce meglio pensando al senso di superiorità di un inglese che si trovi in un paese straniero diventato pericoloso per una sommossa, senso che sfugge del tutto al suddito di un qualsiasi piccolo stato continentale. L’inglese, cioè, conta sul fatto che, se solo gli si torce un capello, il suo Government manderà una nave da guerra, e i rivoltosi lo sanno benissimo, mentre il piccolo stato non possiede alcuna nave da guerra. L'orgoglio per la grandezza del British Empire ha quindi una radice anche nella coscienza della maggior sicurezza, della protezione di cui gode ogni inglese. C’è qui una certa somiglianza con la rappresentazione di un Dio grandioso; essendo difficile pretendere di assistere Dio nel governo del mondo, l’orgoglio per la grandezza di Dio si confonde con quello di essere stati eletti insieme.
Tra i precetti della religione mosaica se ne trova uno più importante di quanto a prima vista non si riconosca. È il divieto di farsi immagini di Dio, l’imposizione di adorare un Dio che nessuno può vedere. Congetturiamo che su questo punto Mosè fosse ancora più rigoroso della religione di Aton; forse voleva solo essere conseguente (il suo Dio non aveva né nome né volto) o forse era una nuova precauzione contro abusi magici. Ma, una volta accettato, il divieto dovette esercitare un effetto profondo. Infatti, significava posporre la percezione sensoriale alla cosiddetta rappresentazione astratta, un trionfo della spiritualità sulla sensualità, in senso stretto una rinuncia pulsionale con le necessarie conseguenze psicologiche.
Per trovare comprensibile ciò che a prima vista può sembrare poco plausibile, vanno ricordati altri processi di carattere simile nello sviluppo della civiltà umana. Di questi il più antico, forse il più importante, si perde nella notte dei tempi. I suoi effetti stupefacenti ci obbligano ad affermarlo. Nei nostri bambini, negli adulti nevrotici e nei popoli primitivi troviamo quel fenomeno psichico che possiamo designare come credere all’“onnipotenza dei pensieri”. A nostro giudizio consiste nel sopravvalutare l’influsso che i nostri atti psichici (in questo caso, intellettuali) possono avere nel modificare il mondo esterno. In fondo, ogni magia, precorritrice della nostra tecnica, poggia su questa premessa. Qui s’inseriscono anche tutti gli incantesimi verbali e la convinzione del potere connesso al conoscere e pronunciare un nome. Supponiamo che l’“onnipotenza dei pensieri” abbia espresso l’orgoglio dell’umanità per lo sviluppo del linguaggio, cui conseguì lo straordinario incremento dell’attività intellettuale. Si schiuse il nuovo regno della spiritualità, in cui rappresentazioni, ricordi e deduzioni divennero determinanti, in contrasto con l’attività psichica inferiore, che conteneva le percezioni immediate degli organi di senso. Fu certo una delle tappe più importanti sulla via dell’ominazione.
Un altro processo di epoca successiva ci appare assai più comprensibile. Per influsso di fattori esterni, che qui non abbiamo bisogno di seguire e che in parte non sono neppure conosciuti a sufficienza, accadde che all’ordinamento sociale del matriarcato subentrasse quello del patriarcato, naturalmente con il connesso sovvertimento dei precedenti rapporti giuridici. Si crede di avvertire l’eco di questa rivoluzione ancora nell’Orestiade di Eschilo. Ma questo volgersi dalla madre al padre segnò la vittoria della spiritualità sulla sensualità, cioè un progresso di civiltà, essendo la maternità provata dall’attestazione dei sensi, mentre la paternità è ipotetica, costruita su una deduzione e una premessa. Prendere partito per il processo di pensiero al di sopra della percezione sensoriale si dimostrò un passo gravido di conseguenze.
In un momento qualsiasi tra i due eventi menzionati se ne verificò un altro, che mostra la massima affinità con ciò che andiamo cercando nella storia delle religioni. L’uomo si trovò predisposto a riconoscere in generale potenze “spirituali”, tali cioè da non poter esser colte con i sensi, specialmente con la vista, ma che manifestano effetti indubbi, anzi fortissimi. Se potessimo affidarci alla testimonianza della lingua, fu l’aria in movimento a conferire il modello della spiritualità; infatti, lo spirito prende nome dal soffio di vento (animus, spiritus; in ebraico ruach, in tedesco Hauch, “soffio”, “spiro”). Così si scoprì l’anima come principio spirituale nel singolo uomo. L’osservazione ritrovò l’aria in movimento nel respiro dell’uomo, che cessa con la morte; ancor oggi il morente “esala l’anima”. Allora si dischiuse all’uomo il regno dello spirito; fu pronto a credere dotato dell’anima, che aveva scoperto in sé, ogni altro essere in natura. Il mondo intero divenne animato, e la scienza, venuta tanto più tardi, ebbe il suo da fare per rendere nuovamente inanimata una parte del mondo; a tutt’oggi non ha ancora concluso tale compito.
Grazie al divieto mosaico [di rappresentarlo in immagini], Dio fu elevato al grado più alto di spiritualità; si aprì la via per modificare ancor di più la rappresentazione di Dio, su cui c’è ancora altro da dire. Ma ci occuperemo anzitutto di un altro suo effetto. Tutti questi progressi spirituali aumentarono di conseguenza il senso di sé della persona, la resero orgogliosa, facendola sentire superiore a chi era rimasto in balia della sensualità. Sappiamo che Mosè trasmise agli ebrei l’esaltante sentimento di essere il popolo eletto; dematerializzando Dio, il segreto tesoro del popolo si arricchì di una nuova preziosa gemma. Gli ebrei mantennero la tendenza agli interessi spirituali, e dalle sventure politiche della loro nazione impararono ad apprezzare nel suo vero valore l’unica proprietà loro rimasta, la loro letteratura. Subito dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme sotto Tito, il rabbino Jochanan ben Zakkai chiese il permesso di aprire a Jabneh la prima scuola di Torah. Da allora in poi la Sacra Scrittura e l’impegno intellettuale dedicatole fu ciò che mantenne unito il popolo disperso.
Tutto ciò è in generale noto e accettato. Ho voluto solo aggiungere che lo sviluppo caratteristico dell’essenza ebraica fu avviato dal divieto mosaico di adorare Dio in forma visibile.
Il primato concesso per circa duemila anni di vita del popolo ebraico agli sforzi spirituali ha prodotto naturalmente il suo effetto; infatti, ha contribuito ad arginare la rozzezza e l’inclinazione alla violenza che di solito compaiono dove l’ideale popolare è lo sviluppo della forza muscolare. L’armonia nel coltivare l’attività dello spirito e quella del corpo, così come la realizzò il popolo greco, agli ebrei rimase inattingibile. Nella scissione decisero almeno per il valore più alto.
D. Rinuncia pulsionale
Non è né ovvio né senz’altro comprensibile perché il progresso spirituale e il regresso della sensualità debbano accrescere l’autocoscienza di una persona o di un popolo. Ciò sembra presupporre un certo metro di valutazione e un’altra persona o istanza che lo usi. Per spiegarlo ci riferiamo a un caso analogo della psicologia individuale, diventato per noi comprensibile.
Se in un essere umano l’Es solleva una pretesa pulsionale di natura erotica o aggressiva, la cosa più semplice e naturale è che l’Io, che dispone dell'apparato di pensiero e muscolare, la soddisfi agendo. La soddisfazione della pulsione è sentita dall’Io come piacere [Lust], mentre la non soddisfazione sarebbe indubbiamente diventata fonte di avversione [Unlust]. Ora può darsi il caso che l’Io tralasci di soddisfare la pulsione a fronte di ostacoli esterni, se s’accorge che l’azione corrispondente metterebbe in serio pericolo l’Io. Astenersi così dalla soddisfazione, la rinuncia pulsionale per impedimenti esterni – o, come noi diciamo, in obbedienza al principio di realtà – non è in nessun caso piacevole. Alla rinuncia pulsionale seguirebbe uno stato di tensione persistente e di malavoglia, a meno di non riuscire a ridurre la forza pulsionale stessa spostando l’energia [psichica].
Ma la rinuncia pulsionale può essere estorta anche su altre basi, che giustamente chiamiamo interne. Nel corso dello sviluppo individuale parte delle potenze inibenti del mondo esterno è interiorizzata, e si forma nell’Io un’istanza che si contrappone al resto osservando, criticando e vietando. Chiamiamo questa nuova istanza Super-Io. D’ora in poi l’Io, prima di attivare le soddisfazioni pulsionali richieste dall’Es, deve considerare non solo i pericoli del mondo esterno, ma anche le obiezioni del Super-Io, avendo così ragioni in più per tralasciare la soddisfazione pulsionale. Mentre però la rinuncia pulsionale per cause esterne è solo spiacevole, quella per cause interne, in obbedienza al Super-Io, ha un altro effetto economico. Oltre alle inevitabili conseguenze spiacevoli, arreca all’Io anche un guadagno di piacere, in un certo senso un soddisfacimento sostitutivo. L’Io si sente elevato, prova orgoglio per la rinuncia pulsionale come per una prestazione di valore. Crediamo di capire il meccanismo di questo guadagno di piacere. Il Super-Io è successore e rappresentante dei genitori (e degli educatori), che hanno sorvegliato l'attività dell’individuo nel primo periodo di vita; prosegue le loro funzioni quasi senza modificarle. Mantiene l’Io in stabile dipendenza, esercita su di lui una pressione costante. Proprio come nell’infanzia, l’Io si preoccupa di non mettere a repentaglio l’amore del suo sovrano; sente la sua approvazione come liberazione e soddisfazione e i suoi rimproveri come rimorsi. Quando l’Io offre al Super-Io il sacrificio di una rinuncia pulsionale, si aspetta di ricevere in compenso più amore. La coscienza di meritare l’amore è da lui sentita come orgoglio. All’epoca in cui l’autorità non era ancora interiorizzata come Super-Io, poteva esserci la stessa relazione tra la minacciata perdita d’amore e la pretesa pulsionale. Compiere una rinuncia pulsionale per amore dei genitori dava un sentimento di sicurezza e di soddisfazione. Ma tale sentimento buono poteva assumere il carattere propriamente narcisistico dell’orgoglio solo dopo che l’autorità stessa divenne parte integrante dell’Io.
A che ci serve spiegare la soddisfazione da rinuncia pulsionale, per comprendere i processi che pretendiamo studiare, ossia l’accresciuta autocoscienza per i progressi spirituali? Apparentemente a molto poco. Le circostanze sono del tutto diverse. Non si tratta di rinuncia pulsionale; non c’è seconda persona o istanza per amor della quale fare il sacrificio. Su questa seconda affermazione siamo subito in dubbio. Si può dire che il grand’uomo è giusto l’autorità per amore della quale si compie l’atto e, poiché il grand’uomo ha efficacia per la sua somiglianza con il padre, non c'è da stupirsi che nella psicologia delle masse gli spetti il ruolo di Super-Io. E questo varrebbe anche per l’uomo Mosè in rapporto al popolo ebraico. Per l’altro punto però è impossibile stabilire un’analogia corretta. Progredire spiritualmente vuol dire decidere contro la diretta percezione dei sensi a favore dei cosiddetti processi intellettuali superiori, ossia ricordi, riflessioni, processi deduttivi. Ad esempio, vuol dire stabilire che la paternità è più importante della maternità, sebbene non sia come lei dimostrabile con la testimonianza dei sensi; il bambino deve quindi portare il nome del padre ed esserne l’erede. Oppure, il nostro Dio è il più grande e il più potente, benché sia invisibile come il turbine di vento e l’anima. Il rifiuto di una pretesa pulsionale sessuale o aggressiva è apparentemente cosa del tutto diversa da questo. In certi progressi della spiritualità, poi, ad esempio nella vittoria del patriarcato, non è evidente quale autorità stabilisca il criterio per ciò che va stimato superiore. In questo caso non può essere il padre, essendo elevato ad autorità solo dal progresso stesso. Ci troviamo di fronte al fenomeno per cui nello sviluppo dell’umanità la sensibilità è gradualmente sopraffatta dalla spiritualità, e per ogni simile progresso gli uomini si sentono orgogliosi e innalzati. Ma non sappiamo dire perché debba essere così. Inoltre più tardi succede che la spiritualità sia a sua volta sopraffatta dal fenomeno emotivo assolutamente enigmatico della fede. Si tratta del famoso Credo quia absurdum; anche qui, chi ci riesce, la considera una prestazione elevata. Forse l’elemento comune a tutte queste situazioni psicologiche è qualcosa di diverso. Forse l’uomo ritiene più elevato semplicemente ciò che è più difficile; forse il suo orgoglio non è altro che il suo narcisismo reso più forte dalla consapevolezza d’aver superato una difficoltà.
Queste sono discussioni certo poco fruttuose; si potrebbe pensare che non abbiano molto a che fare con la nostra ricerca su ciò che abbia determinato il carattere del popolo ebraico. Ciò sarebbe per noi solo un vantaggio, ma un fatto, di cui ci occuperemo ancor di più in seguito, tradisce una certa pertinenza con il nostro problema. La religione, iniziata con il divieto di dare un’immagine di Dio, si sviluppò sempre più nel corso dei secoli in religione della rinuncia pulsionale. Non dico che esiga l’astinenza sessuale; si accontenta di una notevole restrizione della libertà sessuale. Però Dio è pienamente sottratto alla sessualità ed elevato a ideale di perfezione etica. Etica è perciò la restrizione pulsionale. I profeti non si stancano di ammonire che Dio non pretende dal suo popolo altro che una condotta di vita giusta e virtuosa, cioè l’astensione da tutti le soddisfazioni pulsionali giudicate viziose anche dalla nostra morale odierna. E persino l’esigenza di credere in lui pare retrocedere di fronte alla serietà di queste pretese etiche. In questo modo la rinuncia pulsionale sembra avere una parte preminente nella religione, pur non manifestandosi sin dall’inizio.
Qui però c’è spazio per un’obiezione che dovrebbe parare un malinteso. Per quanto possa sembrare che la rinuncia pulsionale e l’etica su di essa fondata non appartengano al contenuto essenziale della religione, tuttavia le sono collegate geneticamente nel modo più intimo. La prima forma di religione a noi nota, il totemismo, comprende un certo numero di precetti e divieti come elementi indispensabili del sistema, che naturalmente non significano altro che rinunce pulsionali. Sono la venerazione del totem, che implica la proibizione di offenderlo o ucciderlo; l’esogamia, la rinuncia cioè alle madri e alle sorelle dell’orda, pur appassionatamente desiderate; la concessione di pari diritti a tutti i membri dell’alleanza dei fratelli; la limitazione della tendenza alla rivalità violenta tra di loro. In queste norme dobbiamo ravvisare gli esordi di un ordinamento morale e sociale. Non ci sfugge che qui si fanno valere due motivazioni diverse. I primi due divieti si conformano alla linea segnata dal padre, di cui ci si è sbarazzati, ma di cui continuano in certo modo il volere. Il terzo imperativo, quello della parità di diritti tra fratelli alleati, prescinde dal volere del padre e si giustifica richiamandosi alla necessità di mantenere durevolmente il nuovo ordine sorto alla fine del padre, senza di che la ricaduta nello stato precedente sarebbe inevitabile. Qui gli imperativi sociali si separano dagli altri che, potremmo dire, derivano direttamente da relazioni religiose.
Nello sviluppo abbreviato del singolo essere umano si ripete la parte essenziale di tale andamento. Anche qui l’autorità dei genitori, in modo essenziale l’assoluta paterna, che minaccia con il suo potere di punizione, obbliga il bambino alle rinunce pulsionali, stabiliendo cosa gli è permesso e cosa vietato. Ciò che per il bambino è “buono” o “cattivo”, poi, quando la società e il Super-Io hanno preso il posto dei genitori, è definito “bene” o “male”, virtuoso o vizioso; ma si tratta sempre della stessa cosa, cioè della rinuncia pulsionale sotto pressione dell’autorità, che sostituisce e continua il padre.
L’esame del singolare concetto di “santità” porta ad approfondire oltre questi modi di vedere. Che cosa propriamente ci sembra sacro, da far risaltare su altro, da apprezzare e riconoscere importante e significativo? Da un lato non si può non riconoscere la connessione tra sacro e religioso, su cui s’insiste di continuo; tutto ciò che è religioso è sacro, anzi è il nucleo della santità. D’altra parte il nostro giudizio è disturbato dai numerosi tentativi di attribuire il carattere sacro a tante altre cose, persone, istituzioni, uffici, che hanno poco a che vedere con la religione. Questi sforzi servono evidenti tendenze. Prenderemo le mosse dal carattere di divieto decisamente attinente al sacro. Il sacro è chiaramente qualcosa che non è lecito toccare. Il divieto sacro ha una connotazione affettiva molto forte, ma è propriamente privo di fondamento razionale. Perché mai, ad esempio, dovrebbe essere un delitto così grave commettere incesto con la figlia o la sorella, tanto più grave di qualsiasi altro rapporto sessuale? Se domandiamo quale sia il fondamento, ci sentiamo certo dire che a ciò si ribellano tutti i nostri sentimenti. Vuol solo dire che si considera il divieto ovvio, ma non si sa giustificarlo.
È abbastanza facile dimostrare che simile spiegazione non spiega nulla. Ciò che si presume offendere i nostri più sacri sentimenti era costume generale, si potrebbe dire usanza sacra, nelle famiglie dominanti dell’antico Egitto e di altri popoli antichi. Sembrava ovvio che il faraone trovasse nella sorella la prima e principale moglie; i tardi successori dei faraoni, i Tolomei greci, non esitarono a imitarne l’esempio. Piuttosto ci avvediamo che l’incesto – in questo caso tra fratello e sorella – era un privilegio, sottratto ai comuni mortali, e riservato invece ai re, rappresentanti degli dei, così come lo era nel mondo della leggenda greca e germanica, per nulla scandalizzato da tali relazioni incestuose. Si potrebbe presumere che l’apprensiva tutela della parità nella nostra alta nobiltà sia ancora retaggio di tale antico privilegio, e si può constatare che, a causa del riprodursi tra consanguinei, perseguito per generazioni negli strati più elevati della nostra società, l’Europa sia oggi governata da membri di una o due famiglie.
L’allusione all’incesto tra dei, re ed eroi ci aiuta anche a far giustizia di un altro tentativo, che pretende spiegare biologicamente la fobia dell’incesto (Inzestscheu), ricondotta a un’oscura nozione di dannosità della riproduzione tra consanguinei. Non è però affatto sicuro che la riproduzione tra consanguinei rischi di essere dannosa, e meno ancora che i primitivi abbiano riconosciuto il fatto e vi abbiano reagito. Anche l’incertezza con cui si determina il grado consentito o proibito di parentela dimostra quanto sia debole la tesi del “sentimento naturale” come fondamento originario della fobia dell’incesto.
La nostra costruzione della preistoria ci impone un’altra spiegazione. L’obbligo dell’esogamia, la cui espressione negativa è la fobia dell’incesto, si fondava sulla volontà del padre, continuata dopo il parricidio. Da qui l’intensità del suo tono affettivo e l’impossibilità di fondazione razionale, cioè la sua sacralità. Confidiamo che l’esame di tutti gli altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso di fobia dell’incesto, cioè che in origine il sacro non sia altro che il seguito della volontà del padre primitivo. Ciò farebbe anche luce sull’ambivalenza, incomprensibile finora, delle parole che esprimono il concetto di sacro. È la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. “Sacer” significa non solo “sacro”, "consacrato", ma anche qualcosa che possiamo tradurre solo con “infame”, “esecrando” (auri sacra fames). Tuttavia, la volontà del padre non era solo qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma di fronte a cui anche tremare, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale. Quando sentiamo dire che Mosè “consacrò” il suo popolo introducendo l’uso della circoncisione, comprendiamo ora il senso profondo di tale affermazione. La circoncisione è il sostituto simbolico della castrazione, che tempo fa il padre primitivo nella pienezza dei suoi pieni poteri inflisse ai figli; chi accettava questo simbolo mostrava di essere pronto a sottomettersi al volere del padre, anche se gli imponeva il sacrificio più doloroso.
Tornando all’etica, possiamo in conclusione dire che parte dei suoi precetti si giustificano razionalmente con la necessità di delimitare i diritti della comunità rispetto al singolo, del singolo rispetto alla società e degli individui tra loro. Ma ciò che nell’etica appare grandioso, misterioso, intuitivo alla maniera mistica, deve tali caratteri al nesso con la religione, con la sua origine dalla volontà paterna.
E. Il contenuto di verità della religione
Quanto a noi, uomini di poca fede, i ricercatori convinti che esista un Essere supremo ci sembrano invidiabili! Grazie al Grande Spirito, che ha creato tutte le sue istituzioni, il mondo non ha problemi. Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai nostri faticosi, miseri e parziali tentativi di spiegazione – il massimo che riusciamo a fare! Lo Spirito divino, da ideale di perfezione etica, ha inculcato negli uomini la conoscenza di questo ideale e al tempo stesso l’impulso ad adeguare il proprio essere all’ideale. Immediatamente avvertono ciò che è superiore e nobile e ciò che è inferiore e comune. La loro vita sensibile si regola sulla loro attuale distanza dall’ideale, arrecando loro profonda soddisfazione quando al perielio, per così dire, si avvicinano all’ideale e punendoli con forte avversione quando, all’afelio, se ne sono allontanati. Tutto ciò è fissato in modo molto semplice e incrollabile. Possiamo solo deplorare che certe esperienze di vita e certe osservazioni del mondo ci rendano impossibile accettare la premessa di tutto ciò: l’esistenza di tale essere supremo. Come se il mondo non avesse già abbastanza enigmi, ci si pone il nuovo compito di capire come altri possa acquisire la fede in un essere divino e da dove tale fede tragga il suo mostruoso potere, che sopraffà “ragione e scienza”.
Ritorniamo al problema più modesto che ci ha occupato finora. Volevamo chiarire l’origine del peculiare carattere del popolo ebraico, che verosimilmente ha anche reso possibile che si mantenesse fino a oggi. Abbiamo trovato che l’uomo Mosè impresse questo carattere negli ebrei, dotandoli di una religione che accrebbe il loro senso di sé, al punto di credersi superiori a tutti gli altri popoli. Da allora gli ebrei si conservarono come popolo mantenendosi lontani dagli altri. Le mescolanze di sangue causarono poco turbamento, perché ciò che li teneva insieme era un fattore ideale, il possesso comune di determinati beni intellettuali ed emotivi. La religione mosaica ebbe questo effetto perché: 1) rese il popolo partecipe della grandiosità di una nuova rappresentazione di Dio; 2) affermava che questo popolo era stato eletto da questo grande Dio ed era destinato a dimostrare il suo particolare favore; 3) impose al popolo di progredire spiritualmente. Tale progresso, già solo di per sé abbastanza importante, aprì per di più la strada alla sopravvalutazione del lavoro intellettuale e a ulteriori rinunce pulsionali.
Questo è il nostro risultato e, pur non volendo ritrattarlo in nulla, non possiamo nasconderci che sia in qualche modo insoddisfacente. La causa non è, per così dire, congrua all’effetto; il dato di fatto che pretendiamo spiegare sembra di un altro ordine di grandezza rispetto a tutto ciò con cui lo spieghiamo. È possibile che tutte le nostre indagini non abbiano fin qui scoperto l’intera motivazione, ma solo uno strato in un certo senso superficiale, e che dietro ad esso un altro fattore assai più significativo attenda di essere svelato? Data la straordinaria complicazione di ogni causalità nella vita e nella storia, c’era da aspettarsi qualcosa del genere.
Da un certo punto delle precedenti discussioni si avrebbe accesso a questa più profonda motivazione. La religione di Mosè non esercitò i suoi effetti immediatamente, ma in modo stranamente indiretto. Non vuol dire che non agì subito, ma che ebbe bisogno di tempi lunghi, di secoli, per dispiegare a pieno il suo effetto; questo va da sé, trattandosi di forgiare il carattere di un popolo. La restrizione è piuttosto in rapporto con un dato di fatto, tratto dalla storia della religione ebraica o, se si vuole, che vi abbiamo introdotto. Abbiamo detto che dopo un certo tempo il popolo ebraico si sbarazzò ancora una volta della religione mosaica (impossibile indovinare se del tutto o se alcuni suoi precetti furono mantenuti). Quando supponiamo che nel lungo periodo dell’occupazione di Canaan e della lotta contro i popoli che vi abitavano la religione di Yahweh non si distinguesse essenzialmente dal culto degli altri Baalim, siamo sul terreno storico, nonostante tutti gli sforzi successivi volti a occultare l’imbarazzante stato di cose. Tuttavia la religione mosaica non era sparita senza lasciar tracce; se ne era conservato una sorta di ricordo, oscurato e deformato, sorretto forse da singoli membri della casta sacerdotale in antiche annotazioni. Fu questa tradizione di un grande passato che continuò ad agire come dietro le quinte, acquisì gradualmente un potere sempre più grande sulle menti e infine riuscì a trasformare il dio Yahweh nel dio di Mosè, risvegliando a nuova vita la religione di Mosè, introdotta molti secoli prima e poi abbandonata.
In una precedente sezione di questo saggio abbiamo discusso quale ipotesi ci sembri innegabile, dovendo comprendere simile effetto della tradizione.
F. Il ritorno del rimosso
Ora, tra i processi che la ricerca analitica sulla vita psichica ci ha insegnato a riconoscere, ne esistono di simili. Parte si dice patologica, parte rientra nella molteplicità del normale. Ma ciò non conta molto, perché i confini tra le due parti non sono netti; i meccanismi sono largamente gli stessi; è molto più importante sapere se le relative alterazioni si compiono nell’Io o se si contrappongono all’Io come estranee, chiamandosi allora sintomi. Di seguito, da tutto il materiale traggo alcuni casi riferiti allo sviluppo del carattere.
La giovane ragazza è giunta a contrapporsi nel modo più deciso alla madre; ha coltivato tutte le qualità che non ha trovato in lei, evitando tutto ciò che la ricorda. Aggiungiamo che nell’infanzia, come tutte le bambine, aveva cercato di identificarsi con la madre, ma ora si ribella a lei con energia. Però, quando la ragazza si sposa e a sua volta diventa moglie e madre, non dobbiamo stupirci di vederla diventare sempre più simile alla madre osteggiata, fino a riproporre, in conclusione, l’inconfondibile identificazione materna all’apparenza superata.
Lo stesso succede anche nei ragazzi; persino il grande Goethe, che al tempo del suo genio aveva certamente disprezzato il padre rigido e pedante, da vecchio sviluppò tratti appartenenti al quadro caratteriale paterno.
Il risultato può diventare tanto più appariscente quanto più netto è il contrasto tra le due persone. Un giovane al quale toccò in sorte di crescere accanto a un padre che non valeva nulla, divenne in un primo tempo, malgrado il padre, un uomo capace, meritevole di fiducia e rispetto. Nel pieno della vita il suo carattere cambiò radicalmente e da allora si comportò come se avesse preso a modello proprio il padre. Per non perdere il nesso con il nostro tema, teniamo presente che all’inizio di tali avvenimenti c’è sempre l’identificazione del bambino piccolo con il padre. Questa è poi ripudiata, persino sovracompensata, ma alla fine torna a imporsi.
Da tempo è diventata opinione comune che le esperienze dei primi cinque anni esercitino un influsso determinante sulla vita, cui più tardi nulla è in grado di opporsi. Ci sarebbero molte cose da dire, degne di essere rese note, su come queste prime impressioni sopravvivano a tutte le vicende dell’età più matura, ma ciò esula dal nostro argomento. Potrebbe però essere meno noto che l’influsso più intenso e coattivo proviene da impressioni che colpiscono il bambino in un’epoca in cui il suo apparato psichico non va considerato ancora interamente in grado di capire. Sul dato di fatto in sé non ci sono dubbi, ma è tanto sconcertante che per capirlo più agevolmente lo paragonerei a una lastra fotografica, che si può sviluppare e trasformare in immagine in qualsiasi momento. Accenno nondimeno volentieri al fatto che uno scrittore di fervida fantasia ha anticipato questa nostra scomoda scoperta con l’audacia consentita ai poeti. E.T.A. Hoffmann usava ricondurre la ricchezza delle forme, di cui poteva disporre per le sue composizioni, all’avvicendarsi delle immagini e delle impressioni sperimentate in un viaggio in vettura postale, durato alcune settimane e risalente a quando ancora poppante succhiava al seno materno. Ciò che i bambini di due anni hanno vissuto e non compreso, possono benissimo non ricordarlo più, se non in sogno. Può diventar loro noto solo con un trattamento psicanalitico in un momento successivo, o irromperà nella loro vita con impulsi coatti, dirigerà le loro azioni, determinando le loro simpatie e antipatie, cagionerà abbastanza spesso la loro scelta amorosa, cui molto spesso è impossibile dare un fondamento razionale. Non si deve misconoscere su quali punti questi dati di fatto tocchino il nostro problema.
In primo luogo c’è la lontananza nel tempo,4 qui individuata come fattore propriamente determinante; ad esempio, nel particolare stato del ricordo, che nel caso delle esperienze infantili classifichiamo come “inconscio”. Qui ci aspettiamo di trovare un’analogia con lo stato che vorremmo attribuire alla tradizione nella vita psichica del popolo. Non è stato però facile introdurre la rappresentazione dell’inconscio nella psicologia delle masse.
I meccanismi di formazione delle nevrosi contribuiscono regolarmente ai fenomeni da noi indagati. Anche qui gli eventi determinanti risalgono ai tempi dell’infanzia vera e propria, ma ora l’accento non cade sul tempo, ma sul processo che si oppone all’evento, sulla reazione ad esso. Schematizzando si può dire che per effetto dell’esperienza vissuta si levi una pretesa pulsionale che esige soddisfazione. L’Io la rifiuta, o perché paralizzato dall’entità della pretesa o perché vi riconosce un pericolo. La prima di queste ragioni è l’originaria, ed entrambe concorrono a evitare una situazione di pericolo. L’Io si difende dal pericolo con il processo di rimozione. Il moto pulsionale è in qualche modo inibito; si dimentica l’occasione con percezioni e rappresentazioni concomitanti. Con questo, però, il processo non è concluso; la pulsione o ha conservato la sua forza o la raccoglie di nuovo oppure è risvegliata da una nuova occasione. Allora rinnova la sua pretesa e, rimanendo sbarrata la strada al normale soddisfacimento da ciò che potremmo chiamare la cicatrice della rimozione, da qualche parte, in un punto debole, si apre un’altra strada verso il cosiddetto soddisfacimento sostitutivo, che ora viene alla luce come sintomo, senza il consenso ma anche senza la comprensione dell’Io. Tutti i fenomeni della formazione dei sintomi [nevrotici] sono a buon diritto descritti come “ritorno del rimosso”. Il loro carattere distintivo è però l’ampia deformazione rispetto all’originale, cui ciò che ritorna è andato incontro. Forse si penserà che con l’ultimo gruppo di fatti ci siamo troppo allontanati dalla somiglianza con la tradizione. Ma non dobbiamo pentircene, se così ci siamo accostati ai problemi della rinuncia pulsionale.
G. La verità storica
Abbiamo intrapreso tutte queste digressioni psicologiche per rendere più credibile l’ipotesi che la religione mosaica abbia avuto effetto sul popolo ebraico solo come tradizione. Forse non siamo riusciti a ottenere niente di più di una certa verosimiglianza. Ma, supponendo di essere riusciti a giungere alla dimostrazione piena, rimarrebbe sempre l’impressione d’aver semplicemente soddisfatto il fattore qualitativo della richiesta, non quello quantitativo. A tutto ciò che ha a che fare con l’origine della religione, certo anche dell’ebraica, aderisce qualcosa di grandioso che le nostre precedenti spiegazioni non hanno toccato. Dovrebbe concorrere anche un altro fattore, per cui c’è poco di analogo e nulla di simile, qualcosa di unico e dello stesso ordine di grandezza di ciò che ne è scaturito, come appunto la religione.
Tentiamo di avvicinarci all’oggetto dal Iato opposto. Comprendiamo che il primitivo abbia bisogno di un dio come creatore del mondo, capostipite, assistente personale. Questo dio trova posto dietro i padri defunti, di cui la tradizione sa ancora dire qualcosa. L’uomo di tempi più tardi, del nostro tempo, si comporta allo stesso modo. Anche lui resta infantile e bisognoso di protezione persino da adulto; pensa di non poter fare a meno del sostegno del suo dio. Tutto ciò è incontestabile, ma è meno facile capire perché debba esserci un dio unico, perché proprio il progresso dall’enoteismo5 e dal politeismo al monoteismo acquisti significato predominante. Certo, come abbiamo spiegato, il credente partecipa della grandezza del suo dio; quanto più grande è il dio tanto più sicura è la protezione che può offrire. Ma la potenza di un dio non presuppone necessariamente la sua unicità. Molti popoli vedevano pure una glorificazione del loro super-dio nel fatto di regnare sopra altre divinità sottomesse, e la sua grandezza non era diminuita se oltre a lui esistevano altre divinità. Significava anche un sacrificio d’intimità, se tale dio diveniva universale e si curava di tutti i paesi e di tutti i popoli. In un certo senso si condivideva il proprio dio con gli stranieri, risarcendosi con la riserva di esserne i preferiti. Si fa ancora valere l’argomento che l’idea del dio unico significhi per sé stessa un progresso nella spiritualità, ma al punto non si può dare tanta importanza.
Ora, i devoti credenti conoscono un modo adeguato per colmare la palese lacuna nella motivazione. Dicono che l’idea di un dio unico ha avuto un’efficacia così irresistibile sugli uomini perché faceva parte di quell’eterna verità che, a lungo celata, venne finalmente alla luce e doveva quindi trascinare tutti con sé. Dobbiamo finalmente ammettere che un fattore di questo tipo si adegua alla grandezza tanto dell’oggetto quanto dell’esito.
Anche noi vorremmo accettare questa soluzione. Ma ci imbattiamo in un dubbio. L’argomento devoto poggia su un presupposto ottimistico-idealistico. Finora nessuno è riuscito ad accertare che l’intelletto umano abbia un fiuto particolarmente fine per la verità e che la vita psichica umana mostri una particolare inclinazione a riconoscerla. Al contrario, abbiamo piuttosto appreso che il nostro intelletto si smarrisce molto facilmente, senza alcun preavviso e che nulla crediamo più facilmente, senza riguardo per la verità, di ciò che asseconda le nostre illusioni di desiderio. Pertanto dobbiamo limitare il nostro assenso. Crediamo anche che la soluzione dei devoti contenga la verità, non però la verità materiale, bensì quella storica. E ci sentiamo in diritto di correggere una certa deformazione che tale verità ha sperimentato nel suo ritorno. Vale a dire, oggi non crediamo che vi sia un unico grande dio, ma che nella preistoria vi fu un personaggio unico, che all’epoca dovette apparire gigantesco e poi ha fatto ritorno nel ricordo degli uomini elevato a divinità.
Avevamo supposto che la religione di Mosè fosse dapprima rigettata e semi-dimenticata e poi facesse breccia come tradizione. Adesso supponiamo che questo processo si sia verificato allora per la seconda volta. Quando Mosè portò al popolo l’idea del dio unico, non recava nulla di nuovo, ma richiamava in vita un’esperienza primordiale della famiglia umana, svanita da molto tempo dalla memoria cosciente degli uomini. Ma era stata così importante, aveva prodotto o avviato modificazioni così incisive nella vita umana, che non possiamo fare a meno di credere che avesse lasciato nell’anima degli uomini qualche traccia durevole, paragonabile a una tradizione.
Dalle psicoanalisi delle singole persone, abbiamo appreso che le loro precoci impressioni, quando da bambini non sapevano quasi parlare, manifestano prima o poi effetti di carattere coatto, pur senza esser ricordate consciamente. Ci riteniamo quindi giustificati ad ammettere lo stesso per le precoci esperienze dell’intera umanità. Uno di questi effetti sarebbe il sorgere dell’idea di un grande dio unico, in cui andrebbe riconosciuto un ricordo deformato affatto giustificato. Un’idea simile ha carattere coatto: va assolutamente creduta. Fin dove giunge la sua deformazione, si può chiamarla delirio; poiché porta con sé il ritorno del passato, va chiamata verità. Anche il delirio psichiatrico contiene un pezzetto di verità; la convinzione del malato si estende da tale verità all’involucro delirante.
Ora quanto segue, fino alla fine del saggio, ripete poco modificate le argomentazioni della prima parte.
Nell’anno 1912 in Totem e tabù cercai di ricostruire l’antica situazione da cui derivarono tali effetti. A tal fine mi sono servito di certe idee teoriche di Charles Darwin, di Atkinson, ma soprattutto di William Robertson Smith, combinandole con scoperte e indicazioni psicanalitiche. Da Darwin presi a prestito l’ipotesi che in origine gli uomini vivessero in piccole orde, ciascuna sotto la tirannia di un anziano stallone, che si appropriava di tutte le giovani femmine e puniva o scacciava i giovani maschi, inclusi i propri figli. Da Atkinson, continuando tale descrizione, immaginai che quel sistema patriarcale finisse con la ribellione dei figli, che si unirono contro il padre, lo sopraffecero e lo divorarono in comune. Poi, in connessione alla teoria totemica di Robertson Smith, supposi che da allora l’orda paterna cedesse il posto al clan totemico dei fratelli. Per poter vivere in pace tra loro, i fratelli vittoriosi rinunciarono alle donne, a causa delle quali avevano ucciso il padre, e istituirono I’esogamia. Il potere paterno fu infranto e le famiglie si organizzarono secondo il matriarcato. L’atteggiamento emotivo ambivalente dei figli verso il padre restò in vigore per l’intero sviluppo successivo. Al posto del padre fu insediato un animale come totem; valendo come antenato e spirito protettore, il totem non poteva essere offeso o ucciso, ma una volta l’anno tutta la comunità dei maschi si ritrovava per un convito, nel quale il totem animale, altrimenti venerato, era fatto a pezzi e divorato in comune. Nessuno poteva esimersi dal partecipare a questo pasto: era la solenne ripetizione dell’uccisione del padre, con cui iniziarono ordine sociale, leggi morali e religione. Secondo Robertson Smith, la concordanza, del pasto totemico con l’ultima cena cristiana attirò l’attenzione di qualche autore prima di me.
Ancora oggi mi attengo a tale ricostruzione. Mi sono sentito più volte rivolgere violenti rimproveri per non avere modificato le mie opinioni nelle successive edizioni del libro, nonostante etnologi più recenti abbiano rifiutato, unanimi, le tesi di Robertson Smith, e avanzato in parte teorie che se ne scostano totalmente. Replico che questi pretesi progressi mi sono ben noti, ma non sono convinto né della giustezza di queste innovazioni né degli errori di Robertson Smith. Una contraddizione non è ancora una confutazione, un’innovazione non è necessariamente un progresso. Innanzitutto, però, io non sono etnologo ma psicoanalista. Avevo il diritto di trarre dalla letteratura etnologica ciò che mi poteva servire per il lavoro analitico. I lavori del geniale Robertson Smith mi hanno offerto validi punti di contatto con il materiale psicologico dell’analisi, agganci per utilizzarlo. Non mi sono mai incrociato con i suoi avversari.
H. L’evoluzione storica
Qui non posso ripetere nei dettagli il contenuto di Totem e tabù, ma devo pensare a colmare il lungo tratto tra la supposta preistoria e la vittoria del monoteismo in tempi storici. Una volta istituiti il clan dei fratelli, il matriarcato, l’esogamia e il totemismo, iniziò un’evoluzione che è giusto descrivere come lento “ritorno del rimosso”. Qui usiamo il termine “rimosso” in senso improprio. Si tratta di qualcosa di passato, scomparso, superato nella vita dei popoli, che ci azzardiamo a confrontare con il rimosso nella vita psichica dell’individuo. In quale forma psicologica questo passato perdurasse nel periodo della sua eclissi, a tutta prima non so dire. Non è facile trasferire i concetti della psicologia del singolo alla psicologia delle masse, e non credo che otteniamo qualcosa introducendo il concetto di inconscio “collettivo”. Il contenuto dell’inconscio è già comunque collettivo, patrimonio universale degli uomini. Quindi ci aiutiamo provvisoriamente usando analogie. I processi che qui studiamo nella vita dei popoli sono molto simili a quelli a noi noti dalla psicopatologia [dei singoli], ma non sono proprio gli stessi. Infine, ci decidiamo a supporre che i sedimenti psichici di quella preistoria divennero patrimonio ereditario, che ogni nuova generazione aveva solo bisogno di ridestare, non di acquisire [ex novo] l’eredità. A questo riguardo, pensiamo all’esempio del simbolismo certamente “co-innato”, derivante dall’epoca in cui si sviluppò il linguaggio: è familiare a tutti i bambini senza che abbiano ancora ricevuto un’istruzione, e suona uguale in tutti i popoli a dispetto delle diversità di lingua. Otteniamo la sicurezza, che forse qui ancora ci manca, da altri risultati della ricerca psicanalitica. Veniamo a sapere che i nostri bambini in un certo numero di relazioni importanti non reagiscono in modo corrispondente alla loro esperienza, ma secondo l’istinto, in modo paragonabile agli animali, che si spiega solo con l’acquisizione filogenetica.
Il ritorno del rimosso si compie lentamente, certo non spontaneamente, ma sotto la spinta di tutte le mutevoli condizioni di vita che riempiono la storia della civiltà umana. Qui non posso dare né un sommario di queste interdipendenze né nulla più di una lacunosa enumerazione delle tappe di tale ritorno. Il padre diviene nuovamente il capo della famiglia, un capo ben lungi dall’essere così assoluto com’era stato il padre dell’orda primitiva. Il totem animale cede il posto al dio con passaggi ancora ben perspicui. Dapprima il dio di forma umana ha ancora la testa dell’animale, poi si trasforma di preferenza in quel certo animale, poi l’animale diviene sacro al dio e suo accompagnatore prediletto, oppure il dio uccide l’animale e ne assume il soprannome. Tra il totem animale e il dio sorge l’eroe, spesso come primo grado di deificazione. L’idea della divinità suprema compare preistoricamente, così sembra, dapprima solo simile a un’ombra, senza immischiarsi negli interessi quotidiani degli uomini. Confluendo tribù e popoli in unità più vaste, anche gli dei si organizzano in famiglie e gerarchie. Uno di loro è sovente elevato a signore supremo al di sopra di dei e uomini. Con titubanza avviene il passo successivo, consistente nel tributare onori a un solo dio, e infine segue la decisione di accordare tutto il potere a un dio unico e di non tollerare altro dio accanto a lui. Solo così la maestà del padre dell’orda primitiva fu ristabilita e le emozioni da lui suscitate poterono ripetersi.
Il primo effetto dell’incontro con l’agognato di cui per tanto tempo si era sentita la mancanza fu di sopraffazione; così lo descrive la tradizione della legislazione [data] sul monte Sinai. Ammirazione, timore reverenziale e gratitudine per la grazia trovata ai suoi occhi: verso Dio Padre la religione mosaica non conosce altri sentimenti che questi positivi. La convinzione che fosse irresistibile, la sottomissione al suo volere, non avrebbero potuto essere più incondizionate nel figlio indifeso e intimidito dal padre dell’orda; anzi, esse diventano comprensibili in pieno solo per trasposizione all’ambiente primitivo e infantile. I moti infantili del sentimento sono intensamente e inesauribilmente profondi, di tutt’altra misura rispetto a quelli degli adulti, e solo l’estasi religiosa può richiamarli. Così, l’immediata reazione al ritorno del grande padre fu l’ebbrezza di darsi a Dio.
Così la direzione di questa religione del padre si fissò nel tempo, senza che il suo sviluppo si concludesse. L’ambivalenza appartiene all’essenza del rapporto con il padre; con l’andar del tempo, non poteva non succedere che si ridestasse l’ostilità che una volta aveva spinto i figli a uccidere il padre ammirato e temuto. Nella cornice della religione mosaica non c’era spazio per l’espressione diretta dell’odio omicida contro il padre; poteva venire alla luce solo la potente reazione ad esso: il senso di colpa per l’ostilità, la cattiva coscienza di aver peccato contro Dio e di non cessare di peccare. Il senso di colpa, tenuto ininterrottamente desto dai profeti, che presto formò un contenuto integrante del sistema religioso, aveva in superficie anche un’altra motivazione, che mascherava abilmente la sua vera origine. Le cose andavano male per il popolo, le speranze riposte nel favore di Dio non volevano adempiersi e non era facile conservare l'illusione, cara più di ogni altra, di essere il popolo eletto di Dio. Non volendo nessuno rinunciare a questa fortuna, il senso di colpa per la propria peccaminosità offriva a Dio un’ottima giustificazione. Nessuno meritava di meglio che essere punito da Lui, perché nessuno rispettava i suoi comandamenti, e nel bisogno di soddisfare questo sentimento di colpa, che era insaziabile e proveniva da fonti ben più profonde, questi comandamenti dovevano essere resi sempre più severi, penosi nonché gretti. In una nuova sbornia di ascesi morale il popolo s’impose sempre nuove rinunce pulsionali, raggiungendo, almeno nella dottrina e nel precetto, vertici etici rimasti inaccessibili ad altri popoli antichi. Nell’alto sviluppo etico molti ebrei ravvisano il secondo carattere principale e la seconda grande realizzazione della loro religione. Dalle nostre osservazioni dovrebbe risultare come fosse connessa con la prima, cioè con l’idea del dio unico. Questa etica non riesce tuttavia a rinnegare la sua origine dal senso di colpa causato dall’ostilità repressa verso Dio. Ha lo stesso carattere inconcluso e inconcludente delle formazioni reattive; s’indovina anche che serva a intenzioni segrete di punizione.
L’evoluzione successiva va oltre l’ebraismo. Il resto, di ritorno dalla tragedia del padre primitivo, non era più in alcun modo unificabile alla religione di Mosè. Il senso di colpa di quell’epoca non si limitava ormai più al popolo ebraico ma, come cupo disagio, aveva afferrato tutti i popoli del Mediterraneo, quasi presagio di sventura, il cui fondamento nessuno sapeva indicare. La storiografia dei nostri giorni parla di invecchiamento della civiltà antica; presumo che abbia colto solo cause occasionali e collaterali di questa inquietudine dei popoli. L’ebraismo chiarì la situazione di abbattimento. Nonostante le approssimazioni e le anticipazioni circostanti, fu nello spirito di un ebreo, Saulo di Tarso, il quale come cittadino romano s’era dato il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: “Siamo così infelici perché abbiamo ucciso Dio Padre”. Ed è oltremodo comprensibile che non abbia potuto cogliere questo frammento di verità altrimenti che nella forma delirante della buona novella: “Siamo redenti da ogni colpa perché uno di noi ha sacrificato la sua vita per purificarci dal peccato”. Naturalmente questa formulazione non citava l’uccisione di Dio, ma il crimine da espiare con il sacrificio di una vita poteva essere stato solo un assassinio. La mediazione tra delirio e verità storica era data dalla certezza che la vittima fosse il figlio di Dio. Con la forza che le affluiva dalla fonte della verità storica, la nuova fede abbatté ogni ostacolo; al posto della beatitudine di essere gli eletti subentrò ora la redenzione liberatrice. Ma, per tornare nel ricordo dell’umanità, il dato di fatto del parricidio doveva superare maggiori resistenze dell’altro fatto che aveva costituito il contenuto del monoteismo; doveva anche sopportare una deformazione più forte. La supposizione di un peccato originale veramente incerto sostituì l’innominabile delitto.
Peccato originale e redenzione ottenuta con il sacrificio della vita divennero i pilastri della nuova religione fondata da Paolo. Deve rimanere in sospeso se nella schiera dei fratelli, ribelli al padre primitivo, vi fosse in effetti un capo o istigatore all’omicidio, o se tale figura sia stata creata più tardi dalla fantasia del poeta per rendere eroico il proprio personaggio e introdotta poi nella tradizione. Dopo aver fatto saltare la cornice dell’ebraismo, la dottrina cristiana accolse elementi da diverse altre fonti; rinunciò a più di una caratteristica del monoteismo puro; si conformò in molti particolari ai riti di altri popoli mediterranei. Fu come se l’Egitto si vendicasse un’altra volta degli eredi di Akehnaton. Merita attenzione il modo in cui la nuova religione s’adattò all’antica ambivalenza nel rapporto con il padre. Il suo contenuto principale fu sì la riconciliazione con Dio Padre, l’espiazione del delitto commesso contro di lui, ma l’altro lato della relazione emotiva compariva nel fatto che il figlio, che aveva preso su di sé l'espiazione, divenne egli stesso Dio accanto al padre e propriamente al posto del padre. Scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne religione del figlio. Non sfuggi alla fatalità di doversi sbarazzare del padre.
Solo parte del popolo ebraico accettò la nuova dottrina. Coloro che si rifiutarono si chiamano ancor oggi ebrei. Differenziandosi così si sono segregati dagli altri popoli in modo ancor più netto di prima. Dalla nuova comunità religiosa, che oltre a ebrei aveva accolto egiziani, greci, siriaci, romani e infine anche germani, toccò loro sentirsi rivolgere il rimprovero di aver ucciso Dio. Espresso per esteso questo rimprovero suonerebbe: “Non vogliono accettare di aver ucciso Dio, mentre noi lo ammettiamo e siamo purificati dalla colpa”. Si vede facilmente quanta verità si nasconda dietro tale rimprovero. Quanto al perché gli ebrei non riuscirono a prender parte al progresso implicito nella confessione del deicidio, per deformata che fosse, la sua spiegazione formerebbe l’oggetto di un’indagine ad hoc. In un certo senso, comportandosi così, gli ebrei si sono fatti carico di una tragica colpa, ma l’hanno pagata cara.
La nostra ricerca ha forse illuminato alcuni aspetti della questione riguardante il modo in cui il popolo ebraico acquisì le qualità che lo distinguono. Meno chiarezza ha ricevuto il problema dei modi in cui esso ha potuto mantenere fino al giorno d'oggi la sua individualità. Ma risposte esaurienti a tali enigmi, non si possono ragionevolmente né pretendere né attendere. Tutto ciò che posso offrire è un contributo da giudicare tenendo conto delle limitazioni menzionate all’inizio.
1 L’insulto così frequente nell’antichità: gli Ebrei sono “lebbrosi” (v. Manetone), ha senza dubbio il senso di una proiezione: “Si tengono lontani da noi come se fossimo lebbrosi”.
2 Protesto contro il fraintendimento, come se dicessi che il mondo è tanto complesso che qualsiasi asserzione si faccia deve cogliere in qualche punto un pezzo di verità. No, il nostro pensiero si è riservato la libertà di rintracciare dipendenze e connessioni non corrispondenti alla realtà effettuale, dote chiaramente apprezzata al massimo e usata in modo così copioso dentro e fuori la scienza.
3 V. Frazer, cit.
4 Anche qui la parola tocca a un poeta. Per spiegare il suo legame, inventa: “In tempi lontani fosti già mia sorella o mia sposa” (Goethe, edizione di Weimar, vol. 4, p. 97)
5 [Forma religiosa in cui il fedele si rivolge a una sola e suprema divinità, senza tuttavia avere il concetto di un unico dio. Ndt]