Il campo della sofferenza psichica è terreno di caccia di biologi e medici diventati apostoli di un sapere totale. Le loro affermazioni ideologiche sfidano disinvoltamente il ridicolo, perché i poteri politico-economici che li sostengono sono forti. A volte sono degli “utili idioti”, non necessariamente stupidi, né privi di velleità “progressiste”. In un giornale nazionale è stato recentemente ospitato un neurologo, autore di un libro intitolato “Intervista esclusiva a Freud da neurologo a neurologo”. Più che un’intervista è un processo in cui l’intervistatore fa le veci della parte lesa, della pubblica accusa, dei testimoni, dell’accusato e della giuria. Un processo “kafkiano” in cui logos e anti-logos si sovrappongono in un discorso impersonale, inciso sulla carne viva dell’esperienza, che afferma“ così è perché così pare”. Cosa “pare” e a chi non ha importanza.
Nella prefazione del libro, un esperto di bioetica (biologia dell’etica?) scrive: “non è improbabile che tra un secolo le idee di Freud saranno un caso di pseudoscienza storicamente conclamato”. Prevedere cosa non sia improbabile che accada tra cent’anni è temerario: tutto e niente. In ogni caso aspettare cent’anni nell’incertezza è troppo (le aspettative di vita stanno calando di nuovo), quindi Freud bisogna condannarlo “qui e ora”. La prospettiva di Kafka sulla realtà umana è costruita in modo complesso, non si offre a interpretazioni univoche, caso mai sottolinea con forza il vuoto, sempre in agguato, d’interpretazione. Nondimeno si può intravvedere in essa come l’incertezza del futuro, il dissolversi della domanda di trasformazione (di cui deve farsi carico ogni forma di cura), diventa condanna di non vivere nel presente.
Dietro i reiterati, ossessivi attacchi a tutte le forme di cura psichica che mettono a centro della loro attenzione la soggettività e la qualità della vita, c’è l’avanzare di un modello bio-medico dell’esistenza. Questo modello, il principale sostegno ideologico della “biopolitica” (che ha avuto la sua più estrema espressione nel nazismo e torna oggi a minacciare le forme di convivenza democratica in tutto il pianeta) fa coincidere la sanità psicocorporea (la forza del desiderio e del piacere del vivere) con “l’equilibrio biologico”. Pretendendo di assimilare tutta la sofferenza umana (e di conseguenza l’insieme delle emozioni) a parametri biologici, prospetta un mondo abitato da automi omeostatici, perfettamente centrati sulla loro sopravvivenza. Questo mondo è l’aspirazione di ogni totalitarismo e può realizzarsi solo in termini cimiteriali, di morte, perché gli esseri biologici non vivono veramente. Gli umani non conoscono né abitano la realtà con la loro biologia che è puramente adattiva e di conseguenza cieca sul piano dell’invenzione creativa. Diversamente vivrebbero come gli animali (ma anche tra questi ultimi quelli più evoluti sono dotati di forme elementari, ma solide, di emozioni e di desideri). L’esplosione della pandemia Covid e l’evidente, drammatica difficoltà di gestirla e contenerla, ha mostrato l’inefficienza del modello bio-medico non solo nel garantire una vita che valga la pena di vivere, ma anche la nostra sopravvivenza. La distruzione del nostro rapporto con l’ambiente, che ci condannerà a vivere nella minaccia mortale di catastrofi ecologiche in modo permanente, nasce dalla pretesa folle di sottometterlo alla nostra biologia. Il vero bersaglio dei biopolitici non è Freud, ma la poesia: la forza espressiva/trasformativa della soggettività che imprime sui sogni e sull’immaginazione il movimento dell’eros. Questo movimento, fatto di gesti che sentono e sbilanciamenti che intuiscono, ispira la rappresentazione della realtà, dà senso e pensiero alle nostre parole e alle nostre azioni. Usare i farmaci per contenere un’angoscia mortifera è giusto. Usarli per uccidere la poesia, che resiste in ogni forma di dolore, è un attentato alla nostra vita.
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