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Difendere il diritto di essere “matti”

7 Giu 21

A cura di Dolores Celona

«Perché si vede sorgere d'un tratto la sagoma della nave dei folli, e il suo equipaggio insensato che invade i paesaggi più familiari? Perché, dalla vecchia alleanza dell'acqua con la follia, è nata un giorno, e proprio quel giorno, questa barca?

[…]

La follia e il folle diventano personaggi importanti nella loro ambiguità: minaccia e derisione, vertiginosa irragionevolezza del mondo, e meschino ridicolo degli uomini.»

(Michel Foucault, Storia della follia nell'età classica)

“Mi ricordo da bambina di un matto che ogni giorno veniva portato a fare una passeggiata fuori dal manicomio. ogni volta che arrivava alla statua della piazza, ci sputava su indignato e andava via”.

“Magari aveva i suoi buoni motivi, nonna”.

“Era già fortunato che lo facessero uscire, i matti mica possono”.

Alcuni anni fa, quando dissi a mia nonna che volevo fare “il medico dei matti”, mi raccontò questa storia, con un sorrisetto divertito. 

Mia nonna ha quasi 90 anni e mi chiedo quanto sia cambiato per la collettività da quando lei era bambina ad oggi.

I manicomi sono chiusi, la legge 180 ha fatto 43 anni. Fiumi di webinar e congressi inneggiano alla grande rivoluzione data dalla deistituzionalizzazione.

Tuttavia sento che qualcosa stride.

Lo sento quando arrivano le segnalazioni da parte dei cittadini, del comune, degli operatori degli altri servizi, degli ospedali, etc.

Lo sento da quello che leggo nei giornali, dal timore che in questi giorni sta esplodendo a Trieste di una involuzione dei servizi della salute mentale persino lì, modello mondiale secondo l’OMS.

Credo che il processo di deistituzionalizzazione debba continuare ad evolversi, come d’altronde ci stiamo evolvendo noi con i nostri bisogni.

La società odierna non è la stessa del 1978. 

L’evoluzione dei servizi territoriali deve proseguire, stando al passo con le esigenze del singolo ma anche della collettività.

Quello che abbiamo affrontato negli decenni scorsi, la chiusura degli ospedali psichiatrici e poi quella degli OPG, è stato un passo enorme, lungo e tormentato, le cui ripercussioni sono da gestire ancora oggi.

Credo che non bisogna fermarsi a guardare indietro, illudendosi che con la chiusura delle strutture si sia raggiunto l’obiettivo massimo nei confronti della salute mentale.

Credo che la rivoluzione vada continuata ogni giorno, puntando al miglioramento anche se quello che ci sembra di aver raggiunto ci sembra già incredibile e innovativo.

Ricordo nei lunedì pomeriggio di lezione con Dell’Acqua, quando parlavamo di legge 180, del modello triestino e di quanto fosse importante la prosecuzione di tutto ciò, un collega che diceva “non voglio guardare al peggio, ma voglio puntare al meglio”.

Credo che puntare al meglio in questo momento possa tradursi solo in un lavoro che non può prescindere dalla deistituzionalizzazione della società.

La sensibilizzazione nei confronti dei diritti inviolabili dell’uomo va proposta a tutti, e non solo gli operatori del DSM.  C’è necessità di allenarsi quotidianamente a cosa voglia dire restituire la soggettività. Impegnare non solo i servizi ma la popolazione generale a riflettere su cosa significa garantire i diritti delle persone, proprio quando questi non vengono intesi dal senso comune. Lavorare proprio sul quel senso comune, che non vede ancora come sia possibile che la patologia mentale possa essere degna di inclusione.

Invece di investire nel potenziamento dei reparti ospedalieri, rispondere alla richiesta di sollievo dettata dai caregiver potenziando le cure territoriali, perché “internare” un proprio caro non aiuta nessuno.

Allo stesso tempo serve riqualificare i servizi, sia sanitari che sociali, sulla base di quanto realmente sia possibile effettuare come lavoro terapeutico per avviare un percorso di cura realizzabile e non improntato su desiderata degli operatori.

Il pregiudizio e la paura del “folle reo” che non sono mai stati sopiti totalmente, a proposito di pandemia, si acuiscono nei momenti in cui la collettività è in crisi e cerca un capro espiatorio nelle categorie più fragili.

La sfida odierna sento che sia proprio quella di non cedere alla frustrazione da parte degli operatori per i reiterati interventi di cura falliti, magari proprio per aver perso in quel momento il punto di vista di quella che è la reale necessità della persona, spinti dal desiderio di riplasmare l’utente secondo parametri accettabili dalla società. 

Riconosciamo alle persone il diritto di essere “matti”, di dormire per strada, di esprimere il proprio modo di essere senza dover per forza essere ubicati in un contesto di tipo contenitivo.

Perché il rischio di sostituire la realtà manicomiale con “comunità di vita”, carcere, case di riposo e di pensare sia più giusto internare, legare per “tutela” della persona, è sempre vivo.

La storia ci insegna quanto è facile tornare indietro e il ritorno della “stultifera navis”  è sempre in agguato.

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