CUORE DI TENEBRA
Viaggio al termine della psichiatria
di Gilberto Di Petta

Vernichtungsplan (soluzione finale) - Sulla strage di Ardea

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18 giugno, 2021 - 15:44
di Gilberto Di Petta
A G., che non ho capito, e a sua madre,

perché siano vivi nella morte.

 

"Là successe quello che doveva succedere"

G. Rizzo ( La doppia morte di Gerolamo Rizzo, Alpes 2020)

Una ventina di donne in cerchio. La finestra sul cortile è semiaperta, per una lama di luce e d’aria. Ma le voci che arrivano da fuori si smorzano. Radiocarcere ha diffuso la notizia dei due fratellini di Ardea, vittime della follia. Chiedete a chi è prigioniero, cos’è la libertà. Chiedete a chi ha fame, cos’è il cibo. Chiedete ad una madre lontana dai figli, cos’è un bambino. Il dolore oggi non trova lacrime. E io non trovo parole. Non trovo senso. Se non cercare di ricucire con un nylon invisibile, i volti di adesso e i visini paffuti lasciati indietro nel tempo. Come i morti rimangono giovani, cosi un figlio perduto, o un figlio lontano, o un figlio tolto, per queste madri, rimane sempre un bambino. E, con l’infanzia dei loro piccoli, esse fermano il proprio tempo. La vita, l’amore, l’avvenire: tutto è prigioniero del tempo. Nessun farmaco, nessun corso, nessuno spettacolo possono togliere la punta avvelenata nel cuore. I media, gli articoli sulla stampa, i post su face book: ogni evento catastrofico che ha le tinte della follia riaccende il clamore sulla Salute Mentale. Non è nulla per i media quello che io e tanti operatori anonimi stiamo facendo stamane, un giorno qualsiasi estivo di giugno, nel grigio delle carceri, nei DH, nei reparti, nei CSM, nei centri diurni, nei PS, negli SPDC, nelle residenze. Come artificieri, spesso da soli, a tu per tu con esistenze naufragate, le migliaia di cariche che smontiamo ogni giorno, non significano nulla. Nulla per nessuno. Nessun gesto conta per il mondo, come quello che sto facendo ora, di porgere un fazzolettino a Margot sul cui volto, quando le dico : “Tu non ti sei perdonata”, scende una lacrima calda come la cera. Non è nulla. Un fazzoletto di carta, il gesto di un medico che ammette il proprio fallimento, una domanda che scopre la piaga infetta in una donna che ha annunciato a tutti, poco fa, il suo desiderio di morire, non è nulla. Fanno rumore invece i colpi della pistola. Certo, fanno più rumore. Allora tutti si domandano dove stanno i Servizi. E ricomincia la polemica. E puntualmente viene rivoltato Basaglia nella tomba. E’ possibile ricomprendere la follia nella vita? Questa era la domanda fondamentale di Basaglia. Ma era una domanda rivolta all’umanità, non agli operatori della Salute mentale, non solo almeno. L’umanità ha tirato avanti indifferente. E che vuole adesso? Agli operatori, però, è rimasto il cerino in mano. Allora vorrei proporre alcune considerazioni. Danilo Cargnello nel 1984 pubblicava “Il caso Wagner”. Ernst Wagner era un maestro di 39 anni, incensurato e senza precedenti psichiatrici, che il 4 settembre del 1913, alla periferia di Stoccarda, trucidava la moglie e i quattro figli nel sonno. Poi si recava in paese, attendeva le 23, e apriva il fuoco indiscriminatamente sulla gente uccidendo 9 persone e alcuni animali. Fu catturato, ritenuto affetto da delirio persecutorio e personalità psicopatica, internato nel manicomio di Winnental, dove morì all’età di 64 anni, nel 1938. Fu stupefacente scoprire che la terribile strage non fu il frutto di un raptus, di un impulso, di un acting out, ma di un preciso Vernichtungsplan, ovvero di un progetto di annientamento, cominciato ad elaborare dal 1901 e perfezionato nel 1908. Fino alla mattina della strage, la sua condotta fu irreprensibile.

 



Il caso di Gerolamo Rizzo, la cui storia è stata di recente pubblicata da me e da Bollorino (La doppia morte di Gerolamo Rizzo), presenta, nel piccolo, delle analogie impressionanti con il caso Wagner. Il 30 settembre del 1908 Gerolamo, un altro maestro di 24 anni, a Genova, in una Piazza Umberto I gremita di gente, giustiziava con un colpo di pistola un prete che passava di li. Il caso incrocia, come ad Ardea, la sorte delle vittime ai passi del carnefice. Dalla ricostruzione della storia emerge che la vicenda ha inizio molto prima, una notte del 1904, quando i fantasmi allucinatori e persecutori invadono la coscienza di Gerolamo. Il quale, con grande forza, li combatte per quattro anni, continuando a lavorare. Sopportando su di sé un calvario assillante. Basaglia con allora non c’entra. Basaglia nasceva nel 1924.
Nel 1904 la legge Giolitti disciplinava l’internamento in Manicomio. Ed era, quello, un internamento senza ritorno, senza se e senza ma, prestato alla sicurezza sociale, non alla salute mentale. Eppure quel giorno di settembre Don Paolo Canessa, innocente ed ignaro, prendeva un proiettile nella nuca. Le manifestazioni che Gerolamo aveva dato negli anni precedenti, rivolgendosi alle Forze dell’Ordine e alla Curia per rivendicare le ingiustizie e le vessazioni a cui era sottoposto, erano cadute tutte nel vuoto. Anzi, dileggiate. Anche Gerolamo, allora, aveva messo a punto la sua “via d’uscita”, il suo Vernichtungsplan. Si era procurato la pistola. Per giunta, nel 1932, nel Manicomio di Quarto, un altro ricoverato approfittava di un momento di allentamento della vigilanza, nelle latrine, per uccidere a calci in testa il Rizzo.
E non siamo in un CSM o in una REMS, siamo in un Manicomio che funziona al pieno del suo rigore, con infermieri massicci e incazzati. Anche quest’altro assassino, da dentro il Manicomio, aveva pianificato l’omicidio. E’ un mistico. E Gerolamo ai suoi occhi è satana che ha ucciso un uomo santo. E’ il giorno della Madonna di Lourdes. E l’ex squadrista Merlati, con il gesto di Maria Santissima, schiacciava la testa al serpente.
A settembre 2020 il ventunenne studente di scienze infermieristiche, Antonio De Marco, uccideva barbaramente la coppia di fidanzati ex coinquilini a Lecce.
Anche qui emergeva un “cronoprogramma” preciso, preparato da tempo, attuato con freddezza e scrupolosità, da parte di un ragazzo descritto come schivo ed introverso, ma nulla di più.
Ma è realistico pensare che un operatore della salute mentale, che incontra incidentalmente o anche in una condizione di emergenza uno di questi viaggiatori dell’assoluto, polarizzati sulla loro soluzione finale, possa anche lontanamente intravvedere tutto questo?
Dalla fine dell’emergenza COVID stiamo viaggiando, tra maggio e giugno, nei nostri Presidi Ospedalieri, con una media di 100 interventi di “urgenza” al mese in pronto soccorso.
Che significa più interventi nell’arco delle 24 ore, alcuni concentrati di notte. In PS non esiste un luogo dedicato al colloquio psichiatrico, lo psichiatra è solo, è un lusso se un’infermiere lo accompagna, ci sono i pazienti del reparto che vengono lasciati senza medico per tutto il tempo che lo psichiatra è in PS.
Di questi interventi pochissimi si concludono con un ricovero. Molti sono tentati suicidi nelle modalità, spesso dimostrative, più svariate. Diversi sono casi di agitazione a seguito di risse, spesso familiari. Ci prendiamo una responsabilità ogni volta che lasciamo andare via qualcuno.
E se anche si ricoverassero cautelativamente tutti, per consentire alla crisi un tempo di defervescenza, cosa cambierebbe?
Non sono le degenze che annientano i progetti distruttivi. Semmai è un cambiamento di vita.
Le FFOO accompagnano in PS e vanno via, premendo per una “sanitarizzazione” del caso, soprattutto se il paziente ha dei precedenti psichiatrici. L’invito a rivolgersi alla Salute Mentale territoriale viene fatto, ma spesso disatteso, come è nel diritto di ognuno di farsi curare o non curare dove vuole.
I Servizi portano lo stigma che sono luoghi per i matti. Dobbiamo renderci conto che nessuna capillarizzazione ulteriore dei Servizi di Salute Mentale è in grado di prevenire fatti cruenti del genere. Essi ineriscono agli incontri mancati tra gli esseri umani, e rappresentano, nella loro assurditò, quello che Bruno Callieri definiva “uno stremato richiamo di incontro”.
Non ci facciamo illusioni, perchè questi eventi sono accaduti in società ipercontrollanti, e continueranno ad accadere. Le storie descritte, tutte, non partono da un terreno di marginalità socioeconomica, o di retroterra violento.
I soggetti descritti non sono individui senza risorse, e non rientrano nel profilo di bruti. Anzi, vengono descritti come timidi, sensibili, riservati, attenti, discreti.
Certo, sono uomini che sanguinano quando si accostano al filo spinato che li separa dal contatto con l’altro. Questa è la verità dolente.
E nell’impasto del loro orgoglio e del loro pregiudizio che matura il “piano di annientamento”. Kretschmer nel 1918 li definiva come “sensitivi”, dotati di un guscio coriaceo (che sviluppa la reazione distruttiva) e di un ventre molle (cha accusa la lacerazione procurata dall’indifferenza dell’altro).
La loro ferita è una vergogna che brucia dentro, e la rabbia li arma. Con freddezza pianificano ed eseguono la loro vendetta, lanciando un messaggio al mondo. Essi ci interrogano tutti sulla nostra disponibilità a capire il dramma interno di chi incrociamo, a vario titolo. Di interrogarci, anche, sul nostro dramma interno.
Perché non interrogo nessuno se non mi interrogo.
Questo sangue ci invita a ridurre la quota di indifferenza tra di noi, come scriveva Masullo, in favore della quota di pathos. Se anche non riusciamo a capire chi incontriamo, domandiamoci se ci accorgiamo, almeno, di averlo incontrato. Se, nell’incontro con l’altro, ancora sussultiamo. O se siamo diventati indifferenti, e dunque anche a noi stessi. Di quanti incontri mancati si sostanzia un piano di distruzione?
Non esistono tecnici o tecniche per svelare l’idea, con le parole di Chatwin, che un giorno ci ucciderà. E che ogni uomo porta, come una bomba a tempo, dentro di sé. Cerchiamo noi operatori, come i recuperanti nei teatri di guerra, di portare alla luce le cariche inesplose, di svuotarle, di restituire ad una croce una storia.
Di indovinare una trincea sotto un prato, di rivedere la scena. Forse di aiutare qualcuno a cambiare la parte, che non sia sempre la stessa. Ridiamo all’incontro, tutti, anche con coloro con cui è l’incontro è scontato, la dignità di un tempo e di uno spazio. Il calore della parola e il dono del silenzio. Il gruppo finisce.
Margot viene abbracciata dalle altre donne a cui il tempo ha imprigionato i bambini. Il mio racconto di Maria Teresa, che dopo due anni e mezzo ha riabbracciato la piccola Grace, commuove tutte.
Dentro il sentimento della nostalgia, che sta girando adesso, il futuro è un lampo nella notte.
Margot sente quanta resistenza della vita c’è nel suo desiderio di morte.
Ci siamo incontrati, anche oggi.
Anche se non interessa a nessuno.
Anche se non abbiamo fatto nulla.
O forse, a pensarci bene, quasi nulla.

 

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